philosophy and social criticism

Togliatti, la sua morte in un romanzo

Francesco Paolella

Giovanni De Plato, Il figlio del Migliore. Romanzo, Pendragon, Bologna 2018

Questo libro racconta anzitutto di una tragedia familiare: una coppia che si sfalda, la guerra, le lunghe e irrimediabili separazioni e, soprattutto, la malattia mentale dell’unico figlio. Lunghi anni, decenni di crisi, ricoveri, illusioni e un declino bruciante nella follia e nel silenzio.

Tutto ciò, già di per sé enorme, è complicato dal fatto che i genitori protagonisti di questa storia sono stati Rita Montagnana e Palmiro Togliatti. Aldo, loro figlio, ha vissuto fin dalla giovinezza sentendosi abbandonato e tradito dal padre. Abbandonato a causa delle responsabilità politiche, della rivoluzione sempre in agguato, della gloriosa guerra al nazifascismo, senza dubbio. Ma – almeno è questa l’interpretazione che viene da questo libro di Giovanni De Plato, che di lavoro fa lo psichiatra – alla base di questo rapporto mancato fra un uomo e suo figlio e, di conseguenza, della malattia di quest’ultimo, ci sarebbero l’iper-razionalità e l’insensibilità del padre, e la vocazione totaliraria (tanto sua quanto della madre) alla causa comunista.

L’Aldo di questo libro – scritto sotto forma di romanzo ma che si dimostra ben informato sulle vicende biografiche e storiche – è una ragazzo introverso e solo, che ben presto si convince di essere un errore nel matrimonio dei suoi genitori, una complicazione fastidiosa nella vita di due importanti esponenti dell’internazionale comunista. Aldo si accorge di essere un ingombro, un pacco di sistemare in un collegio nella Russia di Stalin, perché i genitori devono partire per la guerra di Spagna, o da consegnare nelle mani di un solerte e gelido compagno di partito perché questi lo accompagni qualche giorno in vacanza.

Palmiro Togliatti da queste pagine esce come un padre colpevolmente assente (che soltanto scrive qualche lettera e regala francobolli) e un uomo vile, che scappa quando la malattia del figlio diventa lampante e che, specie dopo l’inizio della sua relazione con Nilde Iotti, cerca in ogni modo di occultare quel figlio a suo modo pericoloso (per la sua immagine di leader, per la credibilità della dirigenza comunista ecc.). La vita di Aldo è stata segnata dalle guerre (la guerra di classe, la seconda guerra mondiale, ma anche la guerra fra i suoi genitori) e i tempi della sua esistenza, i mille spostamenti (fra la Russia, la Francia, Torino e Roma) sono stati sempre decisi dalle necessità politiche del padre e, quindi, del partito. Dopo la morte della madre (con cui ha potuto vivere qualche anno di relativa serenità, in una piccola casa nella periferia di Torino), Aldo è stato ospitato fino alla morte, avvenuta nel 2011, in una casa di cura privata, Villa Igea, vicino a Modena. Anche qui, gli eredi del partito non si sono dimenticati di lui, facendolo sempre assistere da qualcuno.

Questo romanzo-saggio si trasforma necessariamente in una specie di lettera al padre, una lettera che, anche per la morte improvvisa del Migliore, Aldo non avrebbe mai potuto scrivere. Togliatti ha forse visto nel figlio il suo più grande fallimento. Tutti i tentativi per farlo crescere, per “irrobustirlo” (la scuola per dirigenti di partito, l’università, i ricoveri nei terribili manicomi sovietici) non hanno fatto altro che acuire i reciproci sensi di colpa e la distanza fra i due. Il loro rapporto appare qui radicalmente compromesso dal sospetto: i due protagonisti di questa storia hanno vissuto all’epoca di Stalin, delle spie onnipresenti, dei complotti sempre probabili, e non hanno mai davvero potuto fidarsi uno dell’altro. Poi la politica ha fatto il resto: il figlio-fantasma del capo andava rimosso, doveva rendersi invisibile. Anche per questo, forse, non appare – come non c’è la moglie, del resto – in Funerali di Togliatti, il grande dipinto di Guttuso.

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