Cittadini della catastrofe
Gianluca Bonaiuti
Nota su: Alessandro Simoncini (a cura di), Una rivoluzione dall’alto. A partire dalla crisi globale, Mimesis, Milano 2012.
«Non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, ‘moderna’ e non abbia creduto di essere immediatamente davanti ad un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità». Così Benjamin, in un frangente decisivo della storia del XX secolo. A distanza di quasi un secolo dalla stesura di questa annotazione, verrebbe quasi da dire che non se ne può più di sentir parlare di crisi. Non solo nel senso che non se ne può più delle conseguenze che ad essa si addebitano in termini di effetti politici e sociali, ma perfino del fatto che in fondo, a ben vedere, sembra quasi che quello di «crisi» sia più un concetto di copertura, o di rimozione, che non un concetto di svelamento, grazie al quale, cioè, sia possibile rendere visibile qualcosa che prima non si vedeva. Sennonché, è subito evidente che la forma culturale della crisi è uno stimolo evidente all’intelligenza politica. Mai, come nei periodi di crisi, si assiste a una proliferazione di discorsi, di prese di posizione, di diagnosi e di prognosi che riguardano l’intero assetto della nostra vita in comune. Non si contano più gli interventi che hanno preso di petto la crisi, l’hanno spiegata, ne hanno discusso le premesse e le conseguenze a venire. Basterebbe forse questo argomento a legittimarne la cittadinanza nel campo della comunicazione: la crisi è uno dei principali content provider dell’intelligenza critica e, come tale, un serbatoio apparentemente inesauribile di prese di parola che impediscono la rassegnazione. Se non disponessimo di un concetto altrettanto fungibile e sfrangiato, gli stessi eventi e processi andrebbero descritti come una normale dinamica di adattamento. E, invece, conviene interpretare gli stessi eventi, gli stessi processi, le stesse decisioni come causa ed effetto della crisi, perché, come rivela uno storico tedesco tra i massimi esperti nella stratificazione storica dei suoi significati, Reinhardt Koselleck, nella crisi (la prima traduzione italiana della fondamentale voce Krise dei Geschichte Grundbegriffe è da poco uscita in libreria), si apre una chance per discutere del futuro, quasi ch’essa costituisca un’ultima riserva per proiettare in avanti speranze altrimenti condannate alla delusione preventiva, dunque alla paralisi.
Ed è innanzitutto per questo che la crisi, come concetto e come evento, risulta indispensabile: evitare la paralisi. Se è lecito poi parlare di «crisi del concetto di crisi» (come recita precocemente un titolo di qualche decennio fa, curato da Marco D’Eramo) ciò è dovuto al fatto che il tema «crisi» non può più essere trattato nello stile naïf della tradizione moderna, la quale da tempo oramai è divenuta nient’altro che l’ornamento nostalgico di un sapere ordinario e conservatore. Il discorso sulla crisi si deve ora basare sul fatto che l’espressione «crisi» non indica un oggetto su cui si possono formulare asserzioni dirette, siano esse edificanti o accusatorie (quasi che intorno alla crisi siano possibili schieramenti etici compatti), indica piuttosto un concetto container che raccoglie complessità impossibili da abbracciare con un solo sguardo.
Nel segno della superfluità
Non è, dunque, la crisi, il problema, bensì i suoi contenuti. E sul contenuto di questa crisi, della crisi con cui si sono riempite le pagine dei giornali degli ultimi cinque anni e in nome della quale si sono svuotate politicamente le biografie di un numero crescente di persone, non sembra avere dubbi il bel volume collettaneo curato da Alessandro Simoncini, appena pubblicato per i tipi della milanese Mimesis. A partire dal titolo: Una rivoluzione dall’alto. A partire dalla crisi globale (Mimesis, Milano 2012); il quale cita sì un’espressione d’antan, attribuita prima a Bismark e recuperata a più riprese dalla cultura politica del XX secolo (da ultimo, Balibar in un intervento su Liberation del novembre scorso), ma ha l’indubbio merito di dirottare la nostra attenzione sul grande assente dai dibattiti contemporanei: il potere. Uno sguardo sull’asse verticale delle decisioni politiche evita di rimanere accecati dalla complessità funzionale di processi economici orizzontali che si pretendono anonimi e neutrali. Mi pare che i contributi diversissimi che compongono il volume (i contributori hanno «anime» disciplinari, a loro volta, diversissime, oltreché una significativa varietà di prospettiva politica: Roberto Esposito, Sandro Mezzadra, Massimiliano Tomba, Franco Berardi Bifo, Anselm Jappe, Riccardo Bellofiore, Alex Foti, Aldo Pardi, Damiano Palano) possano riconoscersi in un intento comune: il primo segno/effetto di questa crisi, e la sua più subdola ingiunzione, è proprio quello di spoliticizzare l’orizzonte di comprensione di ciò che accade e di conseguenza le decisioni con cui si reagisce a processi che sembrano sempre troppo più grandi delle forze in campo. Ecco, proprio ciò che oggi si presenta come reazione, viene risospinto, a partire dall’acuta diagnosi contenuta nell’introduzione del curatore, nell’alveo di una razionalità di lunga durata che non ha nulla di politicamente neutrale. C’è qualcosa, nella neutralizzazione politica dei processi economici contemporanei, che sfugge perfino all’acuta diagnosi schmittiana dell’inizio del secolo scorso (pur nell’affollarsi di somiglianze davvero vertiginose con il frangente politico e sociale degli anni venti e trenta del Novecento): lo stigma di superfluità che viene decretato da decisioni governative che sono rivolte a segmenti crescenti di popolazione globale. Ora la superfluità non riguarda più solamente i marginali, ma interessa anche chi, nel cuore del sistema, si è da tempo abituato ad una condizione di benessere – così recita il mantra estatico delle agenzie decisionali sub- e sovranazionali. Non sono sicuro che il paradigma biopolitico, a più riprese impiegato da alcuni dei contributi, possa essere la via di accesso più cogente per evidenziare il problema: ciò che è certo, però, è che la superfluità non è uno status politicamente neutrale. È proprio ad essa, e non solo al malaffare di una classe dirigente fuori controllo, che dev’essere addebitato il processo di svuotamento della democrazia che cade in modo sempre più esplicito sotto gli occhi di tutti. Che cosa accade – si chiedeva Adorno nella frenesia degli anni ’60, in una fase di costruzione della società del benessere – a uomini che si sentono «fondamentalmente superflui per la conservazione della loro società»? Innanzitutto, la caduta in una «disperazione metafisica» che li spinge a pensare che «il loro benessere e la loro felicità in questo mondo è un’apparenza». In seconda battuta, un terrore sistematico che chiede identificazioni sostitutive, le quali spingono verso la catastrofe politica. La nuova alleanza tra capitalismo e autoritarismo sembra così integrare l’immagine moderna dell’homo democraticus: non solo un cittadino con ambizioni di sovranità, ma anche un «traghettato» verso pascoli più sereni; non tanto un soggetto con ambizioni politiche, piuttosto uno scroccone assillato dai creditori. Politicamente parlando, uno zombie. E alla domanda su quale catastrofe sia alle porte, risponde, in una nota rabbiosa del 1995, il drammaturgo Heiner Müller: «Contro la cruciale menzogna comunista: o tutti o nessuno, Hitler oppose la massima: per tutti non basta. Hitler andò al nocciolo della questione già nel suo discorso all’Associazione degli Industriali nel 1932: lo standard di vita della razza bianca può essere garantito solamente abbassando quello delle altre razze. La selezione è sempre il principio cardine degli Stati industrializzati. Su questo aspetto Hitler ha vinto».
La catastrofe non più latente
Una vittoria che non manca di essere celebrata in ogni operazione di downsizing della cittadinanza, magari compiuto in nome di spettrali esigenze di rigore e redditività. Se questo sembra essere il momento in cui si assiste alla ricodifica del capitalismo nel senso delle figure autoritarie, è altrettanto evidente che tale riscrittura avviene nel linguaggio esangue e fintamente neutrale della «scienza economica», e non più in quello manifestamente sanguinoso dei plotoni di esecuzione. Anche per questo non è inutile ritornare a quel genere letterario che è la «critica dell’ideologia» (di cui si fa ampio uso nel volume), un vecchio arnese solo in tempi di routine funzionali condivise. È proprio sui margini di una «catastrofe latente» (l’espressione è di Adorno) che la funzione di esplicitazione della critica gioca il suo ruolo più importante. Innanzitutto, nel decostruire il monologo assordante con cui le banalizzazioni economiche di ciò che accade vengono megafonate nelle principali agenzie di comunicazione pubblica. Ma, soprattutto, nel restituire legittimità ad un discorso sui significati politici del capitalismo che la razionalità delle scienze sociali tardo novecentesche aveva messo in quarantena, preferendogli categorie contigue, sebbene diversissime, come «modernità» o, più recentemente, «globalizzazione». Ma non è l’invisibilità un carattere precipuo del divino? Forse, proprio in nome di una nuova stagione di analisi e critica del capitalismo, bisognerebbe perfino ripercorrere i primi passi di una critica della religione.
Quando nel montare della crisi di Weimar, e nell’imminenza del crollo del ’29, Carl Christian Bry coniava la categoria di religione camuffata (Verkappte Religionen, 1925), anticipando uno stile di pensiero che avrebbe impregnato la politica dei decenni a seguire, coglieva nel segno ben al di là delle sue stesse intenzioni. Obbiettivo di quello che sarebbe in breve tempo diventato un bestseller degli anni ’20 era la fiera delle filosofie di soluzione della crisi che teneva in ostaggio l’intelligenza politica della Germania del tempo. Come uomo religioso a sua volta, Bry individuava un criterio sorprendentemente semplice per distinguere tra religione e religione succedanea. Una religione vera educa al rispetto profondo per l’inspiegabilità del mondo, laddove la religione camuffata permette di spiegare tutto. Per il monomaniaco della religione camuffata il mondo si restringe, «egli trova in tutto e in ogni cosa solo la conferma della propria opinione», che difende con il fervore della fede di fronte al mondo e ai propri stessi dubbi. Se si mette da parte l’interesse di Bry, questo sì, tutto religioso, di restituire al mondo un velo di mistero e di imperscrutabilità, quel che resta del ritratto del nuovo spirito della religione camuffata è l’immagine di un paranoico che presenta come soluzione salvifica qualcosa in cui lui stesso stenta a credere. Non assomiglia, forse, questa immagine, a quella dei nuovi sovrani che, da qualunque pulpito facciano le loro dichiarazioni, vorrebbero convincerci che il capitalismo non è il problema, ma piuttosto la soluzione?
Puntuale quindi il riferimento (talvolta implicito, altre volte esplicito) di alcuni contributi del volume al tema della possibile conversione del capitalismo in una religione, che non è certo nuovo nella formulazione (basti pensare al Benjamin del frammento del ’21, Il capitalismo come religione) ma che oggi presenta qualche novità almeno nel campo delle applicazioni. Neppure l’accostamento tra paranoia e sovranità ha i caratteri dell’inedito intellettuale (se non si vuole risalire al Freud del caso Schreber, corre almeno l’obbligo di una citazione per il Canetti di Massa e potere), ma ciò che forse è inedito è il sottile, quanto pervasivo, stile paranoico con cui si costruisce il discorso economico del capitalismo in larghissima parte della scienza contemporanea (qualcuno direbbe: anche per effetto dell’assenza di una controparte teorica; ma ciò che conta qui, alla fine, è l’effetto di restringimento del mondo che tale stile impone innanzitutto alle decisioni politiche). Certamente nuova è la condizione di chi non ha neppure la chance di attribuire responsabilità e colpe per ciò che subisce come decisione necessaria, quasi che nello spazio di pensiero e di azione della nuova Europa sia tornata all’ordine del giorno una situazione di partenza neopelagiana in cui non è più in questione l’ipercolpevolizzazione di persone e circostanze per dare spiegazione alle catastrofi del sistema. Con le loro intuizioni più nitide, quelli che un tempo erano ancora descrivibili come cittadini democratici, magari stressati, finiranno per presentarsi, invece, come cittadini delle catastrofi, i quali osserveranno da una distanza illusoria i grandi rischi e l’insieme delle sventure che non si possono più attribuire alla malvagità di chi le compie. Una situazione, questa, che susciterebbe anche ironia, se non avesse a che fare con la «selezione» di vite reali.
Generazioni stressate
L’impressione è che qualche chiarimento, in fatto di crisi, potrebbe venire da un concetto adeguato di generazione. È chiaro a tutti, infatti, che quando la «crisi» diviene il tema dominante della comunicazione pubblica (sia essa calibrata scientificamente oppure improvvisata), si attinge sempre ad un repertorio lessicale che non può fare a meno di riferirsi alla rottura temporale, all’idea cioè che sia accaduto qualcosa che impedisce di concepire la propria esperienza entro una linea di continuità col passato. Il problema generazionale nasce esattamente così, come riflesso banale di una coscienza temporale azzerata. Con generazione, ovviamente, non si può intendere in modo scontato un dato anagrafico – in questo senso è chiaro che le generazioni esistono solo in modo arbitrario nel linguaggio della statistica. La contabilità generazionale che conta si definisce invece sempre con un riferimento alla cultura, dunque alle logiche specifiche dell’apprendimento: sia a quelle orizzontali (o sincroniche), che a quelle verticali (o diacroniche). Un concetto adeguato di generazione potrebbe fare chiarezza sulle regole di trasmissione verticale della cultura e, in seconda battuta, sulle forme specifiche in cui esse si configurano come «crisi». Forse, senza guardare troppo per il sottile, bisognerebbe cominciare ad intendere con questo termine un segnale di discontinuità nella prosecuzione delle regole di apprendimento condivise. Se valesse questa opzione, si potrebbe dire di appartenere ad una generazione ogni volta che si fa parte di un gruppo che non vuole più imparare le stesse cose della generazione precedente. Da qui l’idea che la «crisi» costituisca a tutti gli effetti un’istituzione che stabilisce determinate forme dell’apprendimento (culturali) e del dis-apprendimento (anch’esse culturali), nonché una forma entro la quale si ridefinisce uno spazio di esperienza largamente suscettibile di condivisione, dunque di trasmissione e comunicazione.
Questa è certamente una traccia riconoscibile degli interventi critici del testo. Allo stile paranoide degli analisti economici e politici che oggi governano le nostre vite, occorre sostituire uno stile metanoico, dove con metanoia va intesa, prima ancora che lo stile di conversione cristiana, la conquista di una meta-posizione, il passaggio dall’oggetto al contesto (e poi al contesto del contesto). In fondo con paranoia s’intende proprio una certa incapacità di allargare il proprio orizzonte di visione e quando si parla di paranoia si fa riferimento alla convinzione propagandata che la conquista di una metaposizione, e con essa di una metanoia, siano impossibili e che non si possa arbitrariamente mutare la prospettiva in cui ci si trova (ma solo perseverare nella correzione dei conti).
Alle generazioni che non sanno più apprendere, né disapprendere, si devono, al contrario, sostituire quelle generazioni che dell’apprendimento hanno fatto una forma di vita, e che, per quanto stressate fino all’inverosimile dall’erosione di tradizioni troppo recenti per essere date per scontate, hanno tutti gli strumenti per poter rinunciare a fare sempre la stessa cosa, a percorrere sempre lo stesso cammino, a voler cavalcare sempre, mi si passi il termine, nella stessa cattiva infinità.
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L’autore
Gianluca Bonaiuti, filosofo e storico delle dottrine politiche, insegna all’Università di Firenze.
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ISSN:2037-0857