philosophy and social criticism

Antifascismo a Budapest

di Francesco Paolella

Nota su Alessandro Frigerio, Budapest 1956 La macchina del fango. La stampa del PCI e la rivoluzione ungherese: un caso esemplare di disinformazione, Edizioni Lindau, Torino, 2012

Cnapolitano_1956he il PCI sia stato a suo modo una Chiesa, con una eccezionale di far mantenere la disciplina e trattenere in sé il dissenso, anche grazie a un sistema di controllo a un tempo inquisitoriale e militare, è pacifico.

Soltanto molti anni (anzi decenni) dopo, in mezzo a mille distinguo,a fumose revisioni e pochissimi mea culpa, i principali dirigenti comunisti hanno iniziato ad ammettere che il loro partito avesse preso sulla rivoluzione ungherese del 1956 una terribile cantonata. Anzi, al contrario: che, mantenendosi “fedele alla linea”, avesse perso l’occasione storica di emanciparsi per tempo dalla sudditanza cieca verso l’URSS (e verso il mito costruito sull’URSS). Non di rinnegarsi, se vogliamo, ma di laicizzarsi un po’ senza dubbio.

Questa ricerca di Alessandro Frigerio è apertamente polemica verso il partito comunista e i suoi esponenti, ma non lo è senza fondamento, né inutilmente. Frigerio non ha fatto altro che riprendere la storia della rivoluzione ungherese, rileggendo quanto la stampa comunista (“L’Unità”, “Rinascita”, “Nuovi argomenti”, “Vie nuove”) ha scritto (e non scritto) in quei giorni.

Un coro, con pochissime voci stonate. Una specie – a rivedere oggi certi articoli – di accecamento collettivo. Un coro che raccontava e spiegava a militanti e simpatizzanti i “fatti di Ungheria”, pensando sempre ai riflessi che la cronaca e il significato di quella rivolta contro il regime comunista avrebbero potuto avere in Italia. Ma non è stata semplice propaganda. Un coro che ha visto compatti dirigenti, giornalisti (anche quelli allora inviati all’est), intellettuali, sindacalisti della CGIL. La guerra fredda, con le “necessità storiche” che essa portava con sé, obbligava – sostenevano – a scegliere da quale parte della barricata stare: o con la difesa del progresso e della civiltà, oppure con l’anarchia e il ritorno al passato capitalista e, in ultima analisi, fascista.

Ecco che per spiegare il “pericolo fascista” è stata messa in atto una consapevole falsificazione (moltiplicando le vittime fra i comunisti e inventando gli atti di barbarie da parte dei “banditi” del terrore bianco), ma ancora più efficacemente censurando le informazioni che difficoltosamente arrivavano in Occidente sulla reale portata dell’invasione sovietica e sulla successiva repressione.

In primo luogo, a essere manipolato, come da copione, è stato il lessico. Mai usati termini come “rivoluzione” (il cui monopolio andava difeso) o “rivolta”, ma “fatti d’Ungheria”. L’Armata rossa veniva rappresentata come impegnata in una specie di “operazione di polizia internazionale”, in un “intervento umanitario” a favore dei compagni ungheresi.

Poche voci contrarie fra i compagni italiani, e comunque deboli. Anche il “Manifesto dei 101”, stilato da intellettuali comunisti romani (De Felice, Colletti, Melograni, Spriano, Asor Rosa) per protestare contro l’intervento sovietico, non ha avuto alcun effetto se la immediata rincorsa degli stessi firmatari a scusarsi col partito, a discolparsi, a fare autocritiche dal sapore staliniano.

Nel PCI nessun vero dibattito aperto, ma soltanto la richiesta, da parte dei vertici, di serrare le fila: così Pietro Ingrao, all’epoca direttore dell’edizione romana de “L’Unità”, ha sintetizzato in un editoriale, dal titolo senza dubbio azzeccato, Il coraggio di prendere posizione, la necessità di sostenere una normalizzazione della crisi del regime ungherese:

«Guai però se si dimenticasse che il regime contro cui è scatenata la rivolta è quello che ha cacciato i capitalisti dalle fabbriche e i feudatari delle campagne, rovesciando il corso della storia di Ungheria, battendo le forze fasciste e reazionarie che l’avevano dominata per decenni e decenni. Chi – nella lotta agli errori del passato, nella critica al regime, nella protesta – scende sul terreno della rivolta armata e della lotta sanguinosa contro di esso, quale che sia la sua volontà, il suo stato d’animo, i suoi obiettivi, mette in movimento e porta innanzi le forze della restaurazione capitalistica» (cit. a p. 62).

Ossia: solo i comunisti (se guidati dal partito e da Mosca) avrebbero potuto rimediare agli errori dei comunisti.

Difendere la rivoluzione significava anche condannarsi a una ambiguità strutturale, a una contraddizione inemendabile, che Silone dover riconosciuto così bene (e così presto): il dover giustificare la violenza totalitaria dei carri armati e dei tribunali popolari rimanendo ancorati allo stesso tempo ai principi propri della democrazia liberali. Per fare questo, è stato necessario fare davvero i salti mortali: l’URSS non faceva altro che difendere la pace – mentre i “Partigiani della pace” (organizzazione pseudo-pacifista di orientamento comunista) non hanno mai detto una parola esplicita per condannare le violenze e le esecuzioni in Ungheria. In secondo luogo, andavano svalutati il più possibile i “ribelli”, dipingendoli tutti come fascisti, clericali, nostalgici del vecchio regime autoritario e filo-fascista di prima della seconda guerra mondiale. E i profughi ungheresi fuggiti in Austria? Per Togliatti (in un suo articolo apparso su “Rinascita” del novembre 1957):

«Erano dei qualunquisti che fuggivano dal loro Paese solo per cercar fortuna e arricchirsi: “Dalla nebbia qualunquista emergono chiaramente, in parecchi di loro, le nostalgie reazionarie. Emerge con forza l’antisemitismo e con esso tutta una gamma di espressioni e posizioni che sono quelle della più volgare agitazione reazionaria del giorno d’oggi”» (cit. a p. 150).

Questo volume di Frigerio può essere letto, in negativo, come un compendio di militanza comunista (e soprattutto di quel comunismo togliattiano, che si è rivelato così paranoico e alla fine tragicomico) per cui niente poteva emergere. Alla fine del 1956, durante l’ottavo congresso del partito, c’è stato inevitabilmente qualche moderato distinguo sull’Ungheria, da parte di Di Vittorio e di Antonio Giolitti soprattutto. Un distinguo finito in niente, zittito da quel coro, fatto anche da giovani dirigenti come Giorgio Napolitano:

«Dopo aver attestato tutta la sua soddisfazione per l’impostazione data da Togliatti ai problemi del movimento operaio internazionale, Napolitano polemizzò aspramente con Giolitti argomentando che in Ungheria “non ci si è limitati a sviluppare la critica, ma si è scatenata una lotta disgregatrice, di fazioni”; l’azione sovietica, “evitando che nel cuore dell’Europa si creasse un focolaio di provocazioni e permettendo all’URSS di intervenire con decisione e con forza per arrestare l’aggressione imperialista in Medio Oriente, oltre che a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ha contribuito in maniera decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’URSS ma a salvare la pace nel mondo» (pp- 166-167).

Una sintesi perfetta.

Oggi forze noi pensiamo alla rivoluzione ungherese piuttosto per quanto essa ha pesato nella rottura dell’alleanza fra partito comunista (in Italia, in Europa) e intellettuali soprattutto. Si ricorda spesso il caso di Calvino per l’Italia o quello di Sarte per la Francia. Ma, a leggere questo libro, sono stato appunto dei casi; soltanto in seguito quella disciplina è stata apertamente scardinata, quasi sempre troppo tardi e sempre molto cautamente. D’altra parte, i controrivoluzionari erano ovunque, pronti a vendersi agli imperialisti (d’Occidente).

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tysm literary review, Vol 1, No. 2 – 28 january 2013

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