philosophy and social criticism

Pedagogia

di Andrea Zanzotto

tratto da:  Aa. Vv, Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione e morte, a cura di Laura Betti, Garzanti, Milano 1977.

PPP«Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori… Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti fino ai poveri»; e ancora: «Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata, che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi… In un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono colpevoli perché tutti sono pronti al gioco del massacro». Così si era espresso Pasolini in un’intervista che fu rilasciata poche ore prima della morte (“Tuttolibri”, 8 novembre 1975).

Quanto fossero precise le percezioni-pensieri di Pasolini, allora, è stato spaventosamente provato, ogni giorno di più, fino all’oggi, fino a una nausea che ci sta pervadendo tutti e che ci fa sentire nauseabondi uno per uno, in pensieri, parole, opere e soprattutto omissioni. Egli comunque da sempre aveva posto «il problema», il porro unum,se si vuol prendere questo riferimento evangelico, in termini di educazione. Si tratta di una parola di cui egli conosceva tutte le trappole e le maledizioni; egli sapeva che, di «educazione» in «educazione» l’uomo era arrivato al produrre la morte atomica e il consumo-autoconsunzione integrale. Ma sapeva altrettanto che tutto passava di là, che esisteva un «primato» dell’educazione, ricollegato, attraverso la sociologia e la politica, a quello dell’etica, con tutti gli intrighi e i giochi al rialzo (verso orizzonti «assoluti»), che questa comporta.

Fin da anni lontani Pasolini aveva dovuto fare i conti con etiche e pedagogie marcite in astratti e infetti sensi di colpa, o in pazze presunzioni, proprio per non essersi riconosciute anch’esse dentro la storia, all’interno delle sue dinamiche; aveva cercato di estirpare questi scolici di ogni paralisi, di ogni negazione del futuro. Ma nello stesso tempo sapeva che un’etica e una pedagogia in nessun modo potevano essere abolite, collegate come sono allo stesso muoversi dell’uomo verso la socialità, alla possibilità stessa di sopravvivenza della città umana. Da ciò la sua ricerca, fino all’ossessione, di quello che si vorrebbe chiamare un «iperspazio» ove costituire un’etica, una pedagogia futuribili e aperte al massimo, apedagogiche. Questo spazio, come quello reale della non-violenza, forse non è altro che un labirinto di minimalismi, di «meno peggio» sempre reinseguito un punto più in là. Ma Pasolini era estraneo persino all’idea di male minore, di meno peggio; anche se di minimalismi estremamente oscillanti tra passi positivi e negativi è in fin dei conti costituita quella linea di progresso che si può individuare e attivare entro il corso della storia (ma chi sa a prezzo di quali contropartite, di quali rivincite della negazione?).

Pasolini, negli ultimi suoi giorni, e mentre continuava a incontrare giovani nelle scuole, chiese addirittura la soppressione della scuola, scuola «dell’obbligo» e, sulla stessa linea, del mezzo audiovisivo come finora è stato usato (ma potrebbe essere usato davvero diversamente?). Subito dopo precisava e rettificava, per dire che bisognava sopprimere soltanto come premessa a un cambiamento radicale, anche se dai contorni di necessità imprecisi. Pasolini non era caduto nell’abbaglio dei descolarizzatori istituzionali, certo ignari di avere un precursore perfino in Papini, che già aveva pubblicato un articolo, Chiudiamo le scuole, nel 1914 (e sia pure con ragioni non trascurabili). Pasolini aveva troppa lucidità terragna, oserei dire «buon senso», senso dell’immediata operatività pratica, che serve a serpeggiare e a sopravvivere attraverso la giungla, per rifiutare alla gente la scuola, e questo pur salvaguardando le sue prospezioni, nel più ampio raggio della sperimentazione alternativa. Aveva perfino identificato la tara di nascita dell’attuale media dell’obbligo, quella di essere stata creata sulla base della vecchia media per signorini e non della cosiddetta, e ben più sana, scuola di «avviamento al lavoro»; cosicché tutti erano stati obbligati a «idealizzarsi» come signorini e borghesi piccoli piccoli, il più possibile irresponsabili verso il lavoro (la produzione) e quindi, il più possibile consumatori di ogni «bene», usufruitori di servizi e servigi.

Questa scuola obbligatoria rientrava benissimo nell’educazione «comune obbligatoria e sbagliata» del cannibalismo tardocapitalistico, che «spinge tutti dentro l’arena». Arena cruenta dove pane e circenses «gratuiti» e obbligatori sono proposti, come strutture cancerogene, alle radici stesse della formazione del desiderio e addirittura dei bisogni, infiltrando, come doppi vampirici e caricaturali di alcune autenticità primarie, le zone della psiche credute inaccessibili alle malie-pedagogie-suasioni messe a punto nel passato (anche se ciò non è poi del tutto vero), grazie all’infernale prodigio dei media. Arena banalissima, anche, e specie qui in Italia arricchita di un numero tra comico e truculento, perché la gran meta proposta – e accettata purtroppo da molti, sulla scia di una vecchia tradizione di parassitismo e disimpegno – si risolveva nel mafia-dream per cui fosse «obbligatorio e garantito» diventare «dottori».

Pasolini era al di sopra e al di là di queste faccende da gusanos. E per cercare meglio il futuro era stato fra i primi a porsi il problema dell’«altro passato», quello che invano i dominatori e i loro clienti avevano tentato di cancellare, di seppellire. Tra i primi, rilevando linee di continuità oltre le fratture, egli aveva ritrovato semi perduti, lasciati intatti nel passato in un loro non-tempo di virtualità inimmagínabili, e che nella grande mutazione maligna degli ultimi anni venivano bruciati via con tutto il resto.

Candido come pochi (le sue freschissime lettere giovanili ora venute alla luce!), capì subito che non poteva concedersi questo candore senza una qualche colpa, vide le complicità in cui tale purezza poteva rimanere irretita, fino a trasformarsi essa stessa in violenza. Egli si urtava contro ciò che nega ogni pedagogia candida, ogni etica risolta in una fulgida agape e priva di aporie, di filigrane ambigue (basti ricordare la grande scommessa, gli abissali inghippi, le «lotte con l’angelo» del film Teorema), vedeva l’improbabilità di una politica non viziata dal gusto di fogna dello strapotere, non destinata a finirla in Palazzo. Ma quel candore, quelle certezze, quel verde entusiasmo per una innovazione radicale dovevano pur essere salvati, e Pasolini quasi li ipostatizzava in un partito politico per lui abbastanza degno di rappresentare il luogo di questo mito-realtà; intorno al «tempio» di questo partito si aggirava, profano e perpetuamente fedele.

Ma prima di tutto esisteva per lui la «poesia», o meglio l’arte anch’essa il più possibile polimorfa, didascalia proveniente da tutto, rivolta a tutto, eppure crescente anche da sé e in sé. Era la poesia, quella che doveva farsi carico di ogni responsabilità, rendersi visibile luogo dei mali comuni e delle loro proiezioni in traumi privati: cauterizzazioni su carne viva e sempre ripetute, cicatrici su cicatrici, ma anche concrezione e creazione di impensabile oltre che esplicitazione di ogni peristalsi e di ogni movimento vitale. La morte di Pasolini sta allora sovrascritta, frase per frase, alla sua vita nel respiro stesso della sua poesia, al di fuori di ogni esemplarità canonicamente intesa; crisi pubblica e crisi privata si ritrovavano per lui coniugate insieme, a ogni incrocio e svolta, erano il chiasmo e l’ossimoro crocifiggente. E se forse ciò riguarda ogni vicenda umana che abbia avuto a che fare con la poesia, in Pasolini più che in qualsiasi altro nel nostro tempo questa esperienza è stata splendidamente sporca di vita-in-atto, di morte-in-atto; per tutti egli espose la propria traboccante, «eccessiva» pienezza di presenza, a ogni negazione e se ne lasciò infettare, con il più impraticabile coraggio-disperazione-speranza. Per questo, mentre si vorrebbe parlare della vita di Pasolini, della sua opera, e non della sua morte (con tutte le componenti di vacuità e insignificanza che pesano sempre in ogni morte), si è respinti. Nel caso di Pasolini diventa assiomatico misurarsi con la fascinazione di questo sangue versato così inutilmente, eppure – lo si constata quasi con sgomento superstizioso, ricondotti a situazioni prerazionali – eppure così «inevitabilmente». Si è come in faccia a un «destino» realizzatosi proprio perché radicato in un fantasma inconscio, in un fantasma di destino, a cui tutto un insieme di forze negative, evocate dal fondo del loro nulla, avesse corrisposto nel più impudente dei modi. Perché quella che dopo due sentenze, e forse proprio per l’assurdità della seconda, appare sempre più come effetto di una macchinazione, di un complotto (in un clima politico e sociale che è ormai di per sé complotto) non toglie la sensazione di una mancata difesa da parte di lui, che ben sapeva come ogni trappola fosse pronta in ogni momento a scattare, e che si esponeva, inerme, ostinato, persino «rassegnato», là dove il pericolo è massimo.

Per avvicinarsi a Pasolini, allora, bisogna ripartire dai prati friulani e da quegli «alba pratalia», la pagina di quaderno scolastico, su cui scorre la penna infantile attraverso l’antichissimo indovinello. Sarà terribilmente difficile stabilire e riconoscere l’itinerario da quei prati all’altro, calpestato dalla morte. Sono, ugualmente, prati che stanno intorno a «scuole». C’è un filo che li unisce; e non c’è nullaa di più duro che la scoperta alla quale Pasolini ci costringe: l’esistenza di questo filo: che oggi appare, e apparirà ancora chissà per quanto tempo, entro un disegno della morte, ma che irresistibilmente dovrà ricondursi a una diversa lettura, che svela, spalanca vita, dopo aver intimato a tutti di confrontarsi con una sfinge.

È una tortuosa e strangolante storia che si annoda e snoda di terreno pedagogico in terreno pedagogico, per farci constatare come ogni passo in avanti apra a dieci impossibilità in più, se non si bada alle mine, e come ogni scoperta di orizzonti comporti il rischio di un disorientamento, e da proiettare sugli altri e da ricevere in se stessi. Una storia che, a doverla scrivere, oggi, comporta la perdita della scrittura e delle mani per via: ma che parte dal candore per confermarlo, paradossalmente, nell’ottenebramento totale, nel «non luogo a procedere oltre» all’epilogo, e proprio di quell’epilogo. Si pensa a Pasolini nella scuola, alla sua passione didattica, alla sua puntigliosa e ardente volontà di applicare i «metodi attivi», nei tempi dell’immediato dopoguerra, quelli, per così dire, di Carleton Washburne e dell’«onestà» deweyana. Segnalando ai colleghi gli esperimenti di Pasolini, il preside Natale De Zotti da cui egli dipendeva lo definiva «maestro mirabile», e così sempre lo definiva ricordandolo in seguito. Tristezza al pensiero degli entusiasmi di quei tempi, col motto «educazione e democrazia», che tanti giovani insegnanti (bicicletta, un solo pasto al giorno, stanza non riscaldata) condividevano. Erano insegnanti che la pensavano in tanti modi, ma che, quasi meravigliati di ricevere dal governo soldi con cui comperarsi pane e formaggio, e storditi di letizia nel sentirsi vivi in un Paese Libero, ce la mettevano tutta per ripagare lo stato democratico nato dalla Resistenza, per distribuire «educazione attiva e democratica». Attivizzare persino 1’intirízzita grammatichetta latina, far diventare rose vere il rosa-rosae, così ingenuo, di quelle grammatiche. Pasolini faceva il giardinetto nel cortile della scuola e insegnava i nomi latini delle piante; disegnava i cartelloni con le figure colorate (aveva sempre disegnato e dipinto bene: si ricorda una misteriosa santa) e inventava favole come quella del mostro Userum, perché i ragazzini si divertissero a imparare le terminazioni dei sostantivi della seconda declinazione, -us, -er, -um. Era quella che si diceva una vocazione pedagogica, che si faceva forte dell’inquieta genialità del giovane professore. Era un disarmante, «tranquillo» atteggiamento pedagogico. Acqua che scorre agli altri, e soccorre, soltanto seguendo il declivio. In quell’atmosfera di amore – agape, filìa, eros – sulla quale tanto insistono i trattatisti, che poi è necessaria alla pedagogia per dissimulare e veicolare la sua forza di plagio: una forza per i maestri più «devoti», cioè meno maestri, tendente a zero, ma pur sempre persistente anche se in un epsilon puntiforme. Un amore che comunque deve dilagare, persuadendo e coinvolgendo a tutti i livelli, e che in più di una civiltà venne accettato anche nei suoi aspetti legati al sesso (e diventa irrilevante che nel caso di Pasolini questo si manifestasse in un colore a parte – ma non certo nell’ambito strettamente scolastico).

Pasolini come «ottimo pedagogista», in quanto rivolto ad accrescere l’area della libertà comune, aveva sentito fin dall’inizio di dover mutare i canoni culturali e sociali per essere in (relativa) pace con se stesso, e per potersi perdonare il suo amore-violenza pedagogico. E mutarli non verso un quadro di tipo greco-socratico, ormai connesso a una tradizione più di irrigidimento repressivo che di libertà totale, ma verso una fertile anomia (pre-nomia) da infante «polimorfo»: ma destinato però a essere qualificato come «perverso», fuori che in un eden mai esistito o in un futuro comunque remotissimo, e pur sempre tra fondati dubbi e presunzioni di errore etico, almeno parziale.

Enigma etico, anzi, piuttosto che errore. Sotto questo aspetto l’ultimo film di Pasolini è un amarissimo bilancio, è il rogo dell’anomia edenica, ne è il capovolgimento e lo sfregio: il non-violento, che voleva a tutti i costi seguire tallonare investigare prevedere le modalità della violenza, notifica che l’arco totale del polimorfismo libidico include anche l’erotizzazione della pulsione di morte, la disintegrazione di soma e psiche, l’identificazione sangue/escremento. E perfettamente egli si ritrova a esprimere tutto questo usando il rinsecchito, stinto, pedante schema sadiano, bloccato nell’unità di tempo-luogo-azione, come una camicia di Nesso buttata intorno a quell’immunità divina dell’eros onniverso e originario che comunque doveva essere credibile al di là di ogni barriera di assurdo. Si trattava anche qui del problema di una rifondazione, a questo punto, della stessa sostanza della psiche, per non dire della «natura»: ma per tempi ancora lunghissimi nulla avrebbe garantito che dalla misteriosa polla di acqua sorgiva si sarebbe potuto asportare il cadavere che certamente la infettava. Nel Salò-Sade l’etica e la pedagogia, citate in primo piano e insieme a rovescio in ogni «direttiva», lasciavano intravedere un male idiota, una violenza senza significato insita nella stessa realtà, ma capace, per sussistere, di attribuirsi e di mobilitare ogni sofisma, un intero sistema di sofismi, compreso quello di voler «rivelare», o «educare».

Tutto il film gravita dunque sul problema di una «genealogia della morale» e di una resa dei conti chiesta a ogni chiasmo di interscambiabilità eros-thanatos, proiettati contro il proprio vuoto. Di recente si è addirittura imputato a Pasolini di essere un «moralista», in quanto non avrebbe tenuto conto abbastanza, nel suo discorso, dei meccanismi negativi delle strutture (da esaminare «scientificamente» e non «passionalmente») quali causa dello scatenarsi della violenza etero e autodistruttiva nel nostro tempo. Al contrario, egli era risospinto a riscoprire sempre di nuovo lo scomodo, il disagio, lo sconcerto senza limiti indotto dalla necessità di inventare un’etica proiettiva, giorno per giorno, sulla propria pelle, appunto perché era addirittura ossessionato dagli effetti del peso neutro e irresponsabilizzante della struttura, del neocapitalismo sirena e pus, che toglieva identità e consistenza a singoli e a gruppi, e cancellava persino il «luogo» psichico in cui consistenza e identità differenziate potessero affermarsi, scoordinava qualunque coerente vitalità per riciclarla nel circolo vizioso del consumo, dopo averla come minimo spappolata. E la fiducia nel PCI era per Pasolini la condizione prima, appunto connessa al fatto strutturale, di un possibile mutamento; nel PCI egli vedeva il germe della struttura diversa; ma nell’augurare il PCI ai giovani egli cercava subito un punto di attacco e di connessione fortemente personalizzato – i giovani non come chissà quale entità o categoria, ma come le molte singolarità diverse tra loro e imprevedibili, polo del discorso etico-pedagogico «venturo», polo attivo e non passivo. L’ottundimento e l’amorfismo oggi imperanti anche per forza di consumo di carte più o meno scientifiche si rivelano pure nel fatto che la chiamata in causa personalizzata (la più mite e anticattedratica, in Pasolini, anche quando egli si ammantava di una certaa aggressività da «buon combattente») venga scambiata subito per moralismo vieto o residuo di cattolicesimo. E lo fosse pure stata, per certi aspetti: ma, a parte la vitalità anche attuale di alcuni motivi cristiani, ben diverse erano le frecce vettoriali delle chiamate pàsoliniane, puntate com’erano sul superamento del paradosso che fa della legge la madre della colpa, e su una riedificazione totale dell’eros attraverso gli aspri, strategizzati, sempre reiterati tentativi di azzeramento delle zone sadomasochistiche di questo.

Mentre Pasolini si impegnava nel suo gioco-ordalia grazie a programmi o semplici indicazioni basati su un’inventività giustificata dalla sua stessa impossibilità di riposo e nascenti da una carica di straordinaria fantasia desiderante-liberatrice, di fatto cresceva invece la putredine del presente, il verminaio del non-senso e della falsità più lorda che forse siano mai apparsi nella storia (fatti che egli conosceva in modo «fisico»). Era un presente in cui non poteva non restare stritolata, livellata al suo contrario, qualsiasi velleità pedagogica, o tragica volontà di rifondazione etico-pedagogica. C’è in giro oggi un infinito sovrappiù di spinte, di slogamenti, di indecidibili a bloccare ogni pedagogia (anche lasciando da parte le antinomie a essa intrinseche, cui sopra si è accennato), in un arco che va da quella minima friulana (ma sempre rivolta a tutto un ambiente, a tutti i singoli componenti di esso) fino all’altra da «praeceptor» pubblico che in Pasolini non era mai mancata e che aveva dato i suoi ultimativi bagliori negli scritti recentissimi. La pedagogia di Pasolini, già troppo consapevole per sopportare se stessa, era dunque costretta a «forzare» la propria creatività, spostando sempre più in là obiettivi, modalità, contenuti, fino ai più instabili paradossi (talvolta), per nascondere il fallimento qui e ora. La creatività e la fantasia erano coinvolte – macabramente – nel loro opposto, ogni «grande» o piccolo metodo era in rischio di degradarsi a «espediente didattico», anzi a espediente e basta.

Egli inoltre, proprio per innestare nell’impossibile del presente la sua parola, era stato costretto ad accettare una certa compromissione con quanto di peggio c’è in esso. Anche il relativo disimpegno dalla poesia (della quale egli sentiva la progressiva trasformazione in «cultura subalterna» minacciata di estinzione) doveva apparirgli come un atteggiamento d’implicazione in un crimine – aspetto di quello universale che si stava consumando -, e appunto nella posizione di vittima e complice insieme. Così, sapeva che l’affidamento al cinema tende a ingranare chiunque, anche il più riluttante, negli automatismi più corruttori dell’attuale società. Era dovuto entrare in questo gioco – ma anche col gusto di un’avventura – proprio per poter divenire veramente pubblico, messo sulla piazza, sull’arena mortale. Per poter sopravvivere come pedagogista «dotato di ascolto» aveva dovuto sacrificare al presente, alla paranoica violenza dei suoi mezzi-media, le ragioni stesse della propria sopravvivenza. Nessuno come Pasolini che aveva cercato, con una furia pari al disgusto, di essere «pubblico», veramente «in pasto» al pubblico, doveva meglio avvertire che il solo fatto di scrivere su un giornale, e magari sotto titoli distorcenti affibbiati da altri, è fare e subire violenza; così come il so­o fatto di essere sui giornali o nel tivù-cinema è già un venir ridotti a brandelli. Quello poi che è accaduto (e non solo per opera di chi aveva interesse ad infierire su di lui ma persino di chi volle parlare per lui) subito dopo la sua morte, sul suo cadavere scambiato per un mucchio di spazzatura dalla donna che lo vide per prima, ha dimostrato ancora una volta, se mai fosse occorso, a quale punto i media siano in primo luogo – o forse esclusivamente – violenza. Nessuno che abbia a che fare con la loro megapedagogia terroristica è fuori causa. Pasolini è stato un’altra volta ucciso per privazione di silenzio, dal frastuono, turpe, intorno alla sua morte, da una mostruosa bavosa torbidezza di «informazione» per ridondanza. Nello stesso modo, ma di segno contrario, era stato riucciso non molto tempo prima Giorgio Cesarano dopo il suicidio: col silenzio più totale, con la più violenta delle noncuranze, con i minimi trafiletti di nera che lo riguardarono, riportando storpiato il suo nome. Piombo di caratteri che per eccesso o per difetto di mole diversamente maciulla o piombo di proiettili che trapassa i corpi: è lo stesso.

Pasolini era dunque in una situazione da pelle di zigrino. Per tutto questo non poteva non scatenarsi in lui un senso di disforia proporzionale alla sua oltranzistica innocenza (anche se intrisa di un altrettanto scoperto e innocente narcisismo), così che egli da gran tempo avvertiva l’eccidio nell’aria, come l’ozono nella tempesta, e non lo avvertiva soltanto per sé, ma per l’epoca.

Se gli assassini sono qui, si va loro incontro, senza armi, notte dopo notte, e saranno travestiti da «allievi». E saranno, anzi, «allievi» (età anagrafica a parte). Assassini perché collocati nel ruolo di allievi. Assassini perché non abbastanza collocati in un «giusto» ruolo di allievi. Sentiti come «meno colpevoli» se non del tutto incolpevoli.

Ma questa morte ha bruciato ogni alone di colpa (reale o fantastica) che riguardasse Pasolini. Spogliato di tutto, reso vittima e null’altro che vittima, anche lui nel modo più barbaramente «distratto», o più barbaramente cinico, egli ci appare nell’orribile showdown cui avrebbe voluto chiamare tutti a confrontarsi. Nella sua morte è esistita una situazione in cui tutti sono obbligati a «conoscere», e anche a riconoscersi; c’è stata pedagogia: che è sempre, quella vera, evento e non parola. Come pensava Wittgenstein (la cui situazione psichica, la cui vocazione pedagogica e genialità multiforme presentano tante somiglianze con quelle di Pasolini) un valore di realtà si è mostrato nel silenzio, nel tacere di ciò di cui non si poteva parlare «pedagogicamente», nemmeno essendo Pasolini. Si mostra finalmente una purezza senza possibilità di equivoco. Si dovrà allora sottoscrivere la «necessità» di questa morte, come suprema verifica? No, no affatto. Perché lui era, prima di tutto, poeta; tutto ciò che aveva detto e scritto si era abbondantemente, da sempre, autogiustificato «per diritto di nascita», come semplice presenza, come evergreen di poesia. Bisognerebbe, ogni tanto, parlare anche dei diritti della poesia, oltre che dei suoi doveri. Ma oggi (o sempre?) il destino della poesia è quello del riconoscimento depauperato o addirittura del non-riconoscimento, quello di servire in casa di Admeto, nella penombra: mentre Pasolini voleva giungere in piena luce a investire anche ciò che è più sghembo, lontano, allogeno, per «parlargli», in chiunque o in qualunque «cosa» si fosse impersonato. Il senso reale della sua morte sarà allora quello di aver toccato e agganciato anche questa lontananza, impenetrabilità, renitenza, di una società, dei molti, di ogni singolo in quanto sia partecipe di questa società, di lui stesso Pasolini in quanto, come tutti, attraversato dalla scissione provocata da questo «tempo»? Certo, se la sua vita in ultima analisi è stata un tentativo di pedagogia per una libertà verificabile solo nella poesia (e proprio mentre tendeva a venir meno lo stesso «proprio» della poesia, e ogni pedagogia falliva), la sua morte ha posto uno stacco, un vuoto carico di possibile, una tenebrosa-accecante alterità in cui quelle contraddizioni, giunte al punto esplosivo, si dissolvevano.

Pasolini, nella costernazione dei suoi ultimi tempi (in parte da lui repressa grazie ai bagliori di un suo ottimismo, ancora, fisico), aveva creduto di constatare che era ormai estinto il verbo più somigliante alla tanto cercata pedagogia apedagogica, quella capace di portare «al di là di tutto» pur rimanendo nel cuore di tutto, e cioè la parola-non-parola umilissima dei prati di Casarsa e del Tagliamento. Forse egli continuava a sentire che era possibile cogliere quel verbo soltanto in una situazione di «sordità» desertica, al polo opposto della città in sfacelo che trascinava ogni cosa nel suo sfacelo. E per questo forse aveva rivisitato le più ricche metafore, le produzioni intime del deserto, le sue perpetue fioriture di miraggi e oltre, nelle Mille e una notte. Assurdo pensare a un Pasolini vagheggiatore del ritorno a una civiltà contadina presa in blocco, o anche presa come indicatore preminente; molto più indietro di ogni antichità era ciò che egli «ricordava» attraverso la civiltà contadina o del terzo mondo, un «allora» che era tale da giustificare la sua idea di «forza rivoluzionaria che è nel passato» (idea scambiata, come altri suoi temi fuori dei prontuari in voga, per reazionaria). Si trattava semplicemente di un passato inteso quale metafora dell’alba prima. Infinitamente indietro e sempre nel futuro. Ma, per la sua intransigente fedeltà a un magistero diretto e pagato di persona, ancora una volta egli aveva rifiutato questa solitudine, le sue grandi favole e realtà, per affrontarne e sopportarne un’altra ben diversa. Sapeva di non potere, di non dover fuggire dalla città del Salò-Sade, dalla preminente realtà di oggi, per somigliarle, quasi, fino a lasciarsi insozzare e annichilire, anche come magistero, entro quelle fauci, per ferirle, per incepparle. Ma il modo della sua morte non resta meno assurdo, meno inconcepibile, meno intollerabile per i moltissimi che, nel dissenso e nel consenso, da lui avevano sempre avuto qualcosa: «segni» – nel valore del termine più antico e totale – di qualcosa.

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 tysm literary review, Vol 1, No. 1 – 3 january 2013

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