Letteratura e metafisica
di Simone de Beauvoir
traduzione di Beatrice Catini
Fonte: S. de Beauvoir, Littérature et métaphysique, articolo apparso su “Les Temps Modernes”, n. 7, aprile 1946, pp. 1153-1163.
Leggevo parecchio quando avevo diciott’anni; leggevo come si legge solo a quell’età, con ingenuità e con passione. Aprire un romanzo era veramente entrare in un mondo, un mondo concreto, temporale, popolato di figure e avvenimenti singolari; un trattato di filosofia mi trasportava al di là delle apparenze terrestri nella serenità di un cielo al di fuori del tempo. Nell’uno e nell’altro caso io mi ricordo ancora lo stupore vertiginoso che mi coglieva nel momento in cui richiudevo il libro. Dopo aver pensato l’universo attraverso Spinoza o Kant, io mi domandavo: «Come riuscire ad essere abbastanza frivoli da scrivere un romanzo?». Ma quando lasciavo Julien Sorel o Tess d’Urberville, mi sembrava vano perdere tempo a fabbricare dei sistemi. Dove si situava la verità? Sulla terra o nell’eternità? Mi sentivo dilaniata.
Penso che tutti gli spiriti che sono sensibili nello stesso tempo alle seduzioni della finzione e al rigore del pensiero filosofico hanno conosciuto più o meno questo turbamento; poiché alla fine non vi è che una realtà; è in seno al mondo che noi pensiamo il mondo. Se alcuni scrittori hanno scelto di prendere in considerazione soltanto uno di questi due aspetti della nostra condizione, erigendo così delle barriere tra la letteratura e la filosofia, degli altri, al contrario, da molto tempo hanno cercato di esprimerlo nella sua totalità. Lo sforzo di conciliazione al quale assistiamo oggi in seguito a una lunga tradizione, risponde a una profonda esigenza dello spirito. Per quale motivo dunque esso suscita tanta diffidenza?
Bisogna riconoscere che le espressioni «romanzo metafisico», «teatro delle idee» possono risvegliare qualche inquietudine. Certamente, un’opera significa sempre qualche cosa: anche quella che cerca più deliberatamente di rifiutare qualunque senso manifesta ancora questo rifiuto; ma gli avversari della letteratura filosofica sostengono con ragione che il significatodi un romanzo o di una pièce di teatro non debba, più di quello di una poesia, potersi tradurre in concetti astratti: altrimenti, a che pro costruire un apparecchio fittizio attorno alle idee che si esprimerebbero con maggior risparmio e chiarezza in un linguaggio diretto? Il romanzo si giustifica solo se è un modo di comunicazione irriducibile ad ogni altro. Mentre il filosofo, il saggista, consegnano al lettore una ricostruzione intellettuale della loro esperienza, è questa stessa esperienza, quale si presenta prima di ogni delucidazione, che il romanziere pretende restituire su un piano immaginario. Nel mondo reale il senso di un oggetto non è un concetto afferrabile dal puro intelletto: è l’oggetto in quanto si svela a noi nella relazione globale che noi intratteniamo con esso e che è azione, emozione, sentimento; si chiede ai romanzieri di evocare questa presenza in carne ed ossa la cui complessità, ricchezza singolare e infinita, eccede ogni interpretazione soggettiva. Il teorico vuole costringerci ad aderire alle idee che gli ha suggerito la cosa, l’evento. Molti spiriti respingono questa docilità intellettuale. Essi vogliono salvaguardare la libertà del loro pensiero; a loro piace al contrario che una finzione imiti l’opacità, l’ambiguità, l’imparzialità della vita; sedotto dalla storia che gli viene raccontata, il lettore reagisce qui come dinnanzi agli avvenimenti vissuti. Egli è commosso, approva, si indigna, attraverso un movimento di tutto il suo essere prima di formulare dei giudizi che trae da se stesso senza che si abbia la presunzione di dettarglieli. Ecco ciò che fa il valore di un buon romanzo. Esso permette di effettuare delle esperienze immaginarie tanto complete, tanto inquietanti quanto le esperienze vissute. Il lettore si interroga, dubita, prende posizione e questa esitante elaborazione del suo pensiero è per lui un arricchimento che nessun insegnamento dottrinale potrebbe sostituire.
Un vero romanzo non si lascia quindi né ridurre in formule né raccontare; non si può slegarne il senso più di quanto non si possa staccare un sorriso da un volto. Anche se produce delle parole, esso esiste come gli oggetti del mondo che eccedono tutto ciò che se ne può dire con delle parole. E senza dubbio, quell’oggetto è stato costruito da un uomo e quest’uomo aveva un progetto; ma la sua presenza deve essere ben nascosta, altrimenti questa operazione magica che è il sortilegio romanzesco non potrebbe compiersi; come il sogno esplode in pezzi se la minima percezione si rivela come tale al dormiente, così la credenza immaginaria si dilegua non appena si pensa di confrontarla con la realtà: non si può porre l’esistenza del romanziere senza negare quella dei suoi eroi.
Si sarà dunque tentati di sollevare una prima obiezione contro quella che si definisce sovente l’intrusione della filosofia nel romanzo: ogni idea troppo chiara, ogni tesi, ogni dottrina che tentassero di elaborarsi attraverso una finzione ne distruggerebbero subito l’effetto poiché esse ne denuncerebbero l’autore e la farebbero nello stesso tempo apparire come finzione. Ma questo argomento è poco decisivo; tutto è qui questione di abilità, di tatto e di arte. A ogni modo, fingendo di annullarsi l’autore imbroglia, mente; se è in grado di mentire abbastanza bene, egli dissimulerà le sue teorie, i suoi piani; egli rimarrà invisibile, il lettore si lascerà catturare, il gioco sarà fatto.
Ma precisamente, è qui che a buon diritto molti dei lettori si irritano. Pur ammettendo che l’arte implica l’artificio, quindi una parte di mala fede e di menzogna, essi respingono l’idea di lasciarsi giocare. Se la lettura non fosse che uno svago senza importanza si potrebbe collocare il dibattito sul piano tecnico; ma se ci si augura di esser «presi» da un romanzo, non è solamente per ammazzare qualche ora; si spera, noi l’abbiamo visto, di superare sul piano immaginario i limiti sempre troppo stretti dell’esperienza realmente vissuta. Ora questo esige che il romanziere partecipi egli stesso a questa ricerca alla quale invita il suo lettore: se egli prevede in anticipo le conclusioni alle quali quest’ultimo deve giungere, se egli fa indiscretamente pressione su di lui per ottenere la sua adesione a delle tesi prestabilite, se egli non gli accorda che un’illusione di libertà, allora l’opera romanzesca non è che una mistificazione scorretta; il romanzo riveste il suo valore e la sua dignità solo se esso costituisce per l’autore come per il lettore una scoperta vivente. È questa l’esigenza che si esprime in maniera romantica e un po’ irritante quando si dice che il romanzo deve sfuggire al suo autore, che quest’ultimo non deve disporre dei suoi personaggi, ma che al contrario essi devono imporsi a lui. In realtà, malgrado gli abusi del linguaggio, ciascuno sa che i personaggi non assediano la camera dello scrittore per dettargli la loro volontà; ma non si vuole neppure che essi siano creati a priori a suon di teorie, di formule, di etichette; non si vuole che l’intrigo sia una pura macchinazione che si svolge meccanicamente. Il romanzo non è un oggetto manufatto ed è persino peggiorativo dire che è fabbricato; senza dubbio è letteralmente assurdo pretendere che l’eroe di un romanzo sia libero, le sue reazioni imprevedibili e misteriose; ma in verità questa libertà che si ammira nei personaggi di Dostoievski, per esempio, è quella del romanziere stesso di fronte ai suoi propri progetti; e l’opacità degli eventi che egli evoca manifesta la resistenza che incontra nel corso dell’atto creativo stesso. Come una verità scientifica trova il suo valore nell’insieme delle esperienze che la fondano e che essa riassume, così l’opera d’arte racchiude l’esperienza singolare di cui è il frutto. L’esperienza scientifica è il paragone del fatto, vale a dire dell’ipotesi considerata come verificata, con la nuova idea. In maniera analoga l’autore deve senza sosta confrontare i suoi progetti con la realizzazione che ne abbozza e che ben presto si ripercuote su di essi; se egli vuole che il lettore creda alle invenzioni che propone, bisogna che anzitutto ci creda il romanziere abbastanza fortemente da scoprire in esse un senso che ricadrà sull’idea primitiva, che suggerirà delle questioni, dei rimbalzi, degli sviluppi imprevisti. Così, man mano che la storia si dispiega, egli vede comparire delle verità di cui non conosceva in anticipo il volto, dei problemi di cui non possiede soluzione: si interroga, prende posizione, corre dei rischi; ed è con stupore che al termine delle sua creazione, considererà l’opera compiuta, fatto di cui nemmeno lui stesso potrà fornire una traduzione astratta poiché in un solo movimento essa si sarà data insieme il suo senso e la sua carne. In questo modo, il romanzo apparirà come un’autentica avventura spirituale. È questa autenticità che distingue un’opera veramente grande da un’opera semplicemente abile, e il più grande talento, l’abilità più consumata, non saprebbero farne le veci. Se il romanzo metafisico fosse costretto a imitare dall’esterno questa andatura vivente, se imbrogliasse il lettore invece di instaurare con lui una comunicazione veritiera trascinandolo in una ricerca che l’autore ha condotto per suo conto, allora bisognerebbe assolutamente condannarlo.
Di certo non si soddisfano le esigenze della prassi romanzesca se ci si limita a mascherare con un rivestimento fittizio, più o meno cangiante, un’armatura ideologica preliminarmente costruita. Si ripudierà il romanzo filosofico se si definisce la filosofia come un sistema tutto costituito e autosufficiente. In effetti è lungo il corso dell’edificazione del sistema che l’avventura spirituale sarà stata vissuta. Il romanzo che si proporrà di illustrarlo non farà che sfruttarne senza alcun rischio e senza invenzione autentica le ricchezze [fissate]; sarà impossibile introdurre queste teorie rigide nella narrazione senza nuocere al suo libero sviluppo; e non si vede in che cosa una storia immaginaria potrà prestare servizio a delle idee che avrebbero già trovato il loro proprio modo d’espressione: al contrario essa saprebbe solo sminuirle, impoverirle, poiché l’idea eccede sempre con la sua complessità e la molteplicità delle sue applicazioni, ognuno dei singoli esempi nei quali si pretenderebbe di comprenderla.
Notiamo innanzitutto che a questa stregua, saremmo portati a ripudiare il romanzo psicologico del quale tuttavia non si pensa oggi di mettere in discussione la validità. Esiste anche una psicologia teorica e se il romanzo psicologico fosse votato a illustrare Ribot, Bergson o Freud sarebbe del tutto inutile; si potrebbe pretendere che gli eroi asserviti al carattere che l’autore ha scelto per loro, alle leggi psicologiche che egli è obbligato a rispettare, perderanno qualunque libertà e opacità. Se non si sollevano tali obiezioni è perché si sa bene che la psicologia non è anzitutto una disciplina speciale e estranea alla vita; ogni esperienza umana ha una certa dimensione psicologica; e mentre il teorico coglie e sistematizza su un piano astratto questi significati, il romanziere li evoca nella loro concreta singolarità; in quanto discepolo di Ribot, Proust annoia, non ci insegna nulla; ma Proust, romanziere autentico, scopre delle verità di cui nessun teorico del suo tempo abbia proposto l’equivalente astratto.
Sarebbe opportuno concepire in maniera analoga il rapporto del romanzo e della metafisica. La metafisica non è anzitutto un sistema; non si «fa» della metafisica come si «fa» della matematica o della fisica. In realtà «fare» della metafisica è «essere» metafisico, è realizzare in sé l’attitudine metafisica che consiste nel porsi nella propria totalità di fronte alla totalità del mondo. Ogni avvenimento umano possiede al di là dei suoi contorni psicologici e sociali un significato metafisico poiché, attraverso ciascuno di essi, l’uomo è sempre implicato tutto intero, nel mondo tutto intero; e non c’è senza dubbio nessuno a cui questo senso non si sia svelato in qualche momento della vita. In particolare, capita spesso ai bambini che non sono ancora ancorati al loro piccolo angolo di universo di sperimentare con stupore il loro «essere-nel-mondo» così come essi sperimentano il loro corpo. Per esempio, è un’esperienza metafisica questa scoperta dell’ «ipseità» descritta da Lewis Carroll in Alice nel paese delle meraviglie, da Richard Hughes in Un ciclone sulla Jamaica; il bambino scopre concretamente la sua presenza al mondo, il suo abbandono, la sua libertà, l’opacità delle cose, la resistenza delle coscienze estranee; attraverso le sue gioie, le sue pene, le sue rassegnazioni, le sue rivolte, le sue paure, le sue speranze, ogni uomo realizza una certa situazione metafisica che lo definisce molto più essenzialmente di qualunque sua attitudine psicologica.
Vi è una presa di possesso originaria della realtà metafisica e così come in psicologia, vi sono due modi diversi di esplicitarla. Ci si può sforzare di chiarirne il senso universale in un linguaggio astratto: si elaboreranno così delle teorie in cui l’esperienza metafisica si troverà descritta e più o meno sistematizzata nel suo aspetto essenziale, quindi a-temporale e oggettivo. Se d’altronde, il sistema così costituito afferma che questo aspetto è il solo reale, se esso pone come trascurabile la soggettività e la storicità dell’esperienza esso esclude evidentemente ogni altra manifestazione della verità. Sarebbe assurdo immaginare un romanzo aristotelico, spinoziano o ancora leibniziano, poiché né la soggettività né la temporalità trovano un reale spazio in queste metafisiche. Ma se al contrario una filosofia conserva l’aspetto soggettivo, singolare e drammatico dell’esperienza, essa si contraddice da sé nella misura in cui, in quanto sistema a-temporale, non partecipa della sua verità temporale. Così, affermando la realtà suprema dell’Idea di cui questo mondo non è che una degradazione ingannevole, Platone non sa cosa farsene dei poeti, li bandisce dalla sua Repubblica; ma in quanto reintegra alla realtà l’uomo e il mondo sensibile, descrivendo il movimento dialettico che porta l’uomo verso l’Idea, Platone sente il bisogno di farsi lui stesso il poeta, egli situa nei prati in fiore, attorno a un tavolo, al capezzale di un moribondo, sulla terra, i dialoghi che mostrano il cammino del cielo intelligibile. Allo stesso modo, in Hegel, nella misura in cui lo Spirito non è ancora compiuto ma si sta compiendo, bisogna, per raccontare adeguatamente la sua avventura, conferirgli un certo spessore carnale; nella Fenomenologia dello Spirito, Hegel ricorre a dei miti letterari come Don Giovanni e Faust poiché il dramma della coscienza infelice non trova la sua verità che in un mondo concreto e storico.
Più vigorosamente un filosofo sottolinea il ruolo e il valore della soggettività, più sarà indotto a descrivere l’esperienza metafisica nella sua forma singolare e temporale. Kierkegaard non solo ricorre come Hegel a dei miti letterari, ma in Timore e Tremore ricostruisce la storia del sacrificio di Abramo in una forma che tocca quella romanzesca e nel Diario di un seduttore, offre nella sua drammatica singolarità la sua esperienza originale. Si troveranno anche dei pensieri che non saprebbero esprimersi senza contraddizione in modo categorico; così, per Kafka che spera di dipingere il dramma dell’uomo rinchiuso nell’immanenza, il romanzo è il solo modo di comunicazione possibile. Parlare del trascendente, foss’anche per dire che è inaccessibile sarebbe già pretendere di accedervi, invece un racconto immaginario permette di rispettare questo silenzio che è il solo adeguato alla nostra ignoranza.
Non è un caso se il pensiero esistenzialista tenta di esprimersi oggi, tanto con dei trattati teorici tanto con dei romanzi: il fatto è che esso è uno sforzo per conciliare l’oggettivo e il soggettivo, l’assoluto e il relativo, l’a-temporale e lo storico; esso pretende di cogliere il senso al cuore dell’esistenza; e se la descrizione dell’essenza è di competenza della filosofia propriamente detta, solo il romanzo permetterà di evocare nella sua verità completa, singolare, temporale, l’esplosione originaria dell’esistenza. Non si tratta qui per lo scrittore di sfruttare su un piano letterario delle verità preliminarmente stabilite sul piano filosofico, ma proprio di esprimere un aspetto dell’esperienza metafisica che non potrebbe manifestarsi in altro modo; il suo carattere soggettivo, singolare, drammatico, e anche la sua ambiguità; poiché la realtà non è definita come comprensibile dalla sola intelligenza, nessuna descrizione intellettuale ne saprebbe dare un’espressione adeguata. Bisogna tentare di presentarla nella sua integrità, come si scopre nella relazione vivente che è azione e sentimento prima di farsi pensiero.
Ma si vede allora che la preoccupazione filosofica è lontana dall’essere incompatibile con le esigenze del romanzo. Per inscrivendosi in una visione metafisica del mondo, quest’ultimo conserverà un carattere di avventura spirituale. A ogni modo, noi non siamo più vittime oggi di una falsa oggettività naturalistica, sappiamo che ogni romanziere ha la sua visione del mondo, ed è proprio in virtù d questo che ci interessa. Il punto di vista metafisico non è più ristretto di un altro, al contrario, è proprio in esso che si possono conciliare i punti di vista psicologico e sociale che così spesso non riescono a congiungersi e che, presi a parte, sono ciascuno incompleto. Che non si pretenda neppure che un personaggio definito da una sua dimensione metafisica – angoscia, rivolta, volontà di potenza, paura della morte, foga, sete di assoluto – sia necessariamente più rigido, più costruito di un avaro, un poltrone, un geloso, che caratterizzano dei tratti psicologici. Tutto dipende qui dalla qualità dell’immaginazione e dalla potenza d’invenzione dell’autore. Soprattutto non bisogna credere che la lucidità intellettuale dello scrittore rischi di fargli mancare lo spessore, la ricchezza ambigua del mondo. Certo, se si immagina che attraverso la pasta colorata e vivente delle cose egli scorga delle essenze inaridite si potrebbe temere che ci offra un universo morto, tanto straniero a quello che noi respiriamo quanto una fotografia a raggi X è differente da un corpo di carne. Ma questo timore non è fondato che nei confronti dei filosofi che, separando i sensi dall’esistenza, disprezzano l’apparenza a favore di una realtà nascosta:del resto, questi non sono tentati di scrivere romanzi; quanto a quelli, al contrario, per i quali l’apparenza è realtà, l’esistenza supporto dell’essenza, il sorriso indiscernibile dal viso sorridente, il senso di un evento dall’evento stesso, ciò è solo attraverso l’evocazione sensibile, carnale dell’ambito terrestre, che la loro visione può esprimersi. Parecchi esempi dimostrano che nessuna di queste argomentazioni è valida a priori. I Fratelli Karamazov, La Scarpina di raso si svolgono nella cornice di una metafisica cristiana. È il dramma cristiano del bene e del male che si annoda e si snoda. Sappiamo bene che ciò non ostacola né le reazioni degli eroi né lo svolgimento dell’intrigo e che il mondo di Dostoievski, come quello di Claudel sono dei mondi carnali, concreti; è che il bene, il male non sono nozioni astratte; essi non si percepiscono che negli atti buoni o malvagi che compiono gli uomini, e l’amore di Donta Prouhèze per Rodrigue, non è meno sensuale, meno umano, meno sconvolgente poiché ella mette in gioco attraverso di lui la salvezza della propria anima.
In verità, è molto spesso il lettore che rifiuta di partecipare sinceramente all’esperienza nella quale l’autore tenta di trascinarlo: non legge come pretende che si scriva, teme di correre dei rischi, di avventurarsi; ancor prima di aprire il libro, egli ne presume delle chiavi di lettura, e invece di lasciarsi catturare dalla storia, cerca senza posa di tradurla; quel mondo immaginario che dovrebbe vivificare, egli lo uccide, e si lamenta che gli è stato consegnato un cadavere. Così un critico russo, contemporaneo di Dostoievski rimproverava ai Karamazov di essere un trattato di filosofia dialogato e non un romanzo. M. Blanchot dice molto profondamente a proposito di Kafka che leggendolo si comprende sempre troppo o troppo poco. Io credo che questa osservazione possa applicarsi a ogni romanzo metafisico in generale; ma questa esitazione, questa parte di avventura, il lettore non deve tentare di eluderla; che egli non dimentichi che la sua collaborazione è necessaria poiché ciò che è proprio del romanzo è proprio di fare appello alla sua libertà.
Onestamente letto, onestamente scritto, un romanzo metafisico fornisce uno svelamento dell’esistenza di cui nessun altra modalità d’espressione saprebbe fornire l’equivalente; lontano dall’essere, come si è talvolta preteso, una pericolosa deviazione del genere romanzesco, esso mi sembra al contrario, nella misura in cui è riuscito, la realizzazione più compiuta poiché si sforza di cogliere l’uomo e gli eventi umani nel loro rapporto con la totalità del mondo perché lui solo può riuscire là dove falliscono la pura letteratura come la pura filosofia: evocare nella sua unità vivente e nella sua fondamentale ambiguità, quel destino che è il nostro e che si inscrive insieme nel tempo e nell’eternità.
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tysm literary review, Vol 1, No. 1 – 3 january 2013
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