Barattieri
di Marco Dotti
Nota su: Gherardo Ortalli, Barattieri. Il gioco d’azzardo fra economia ed etica. Secoli XIII-XV, Il Mulino, Bologna 2012.
«Poi fui famiglia del buon re Tebaldo, quivi mi misi a far baratteria, di ch’io rendo ragione in questo caldo». Nel Canto XXII dell’Inferno, Dante riserva a Ciampòlo di Navarra e a tutti i barattieri la quinta bolgia dell’ottavo cerchio. Un lago di pece nera, vischiosa e ribollente li vede immersi, una schiera di diavoli lungo i bordi li frusta, contrappasso a una vita terrrena di malversazioni, astuzie e peculati condotti nella zona d’ombra tra il lecito e l’illecito. Ma pure in questa zona d’ombra, la vicenda di Ciampolo rivela uno slittamento concettuale non privo di interesse.
Fra il Trecento e il Quattrocento, infatti, il termine baratteria connota oramai quasi esclusivamente fenomeni di corruzione in pubbliche cariche e di pubblici ufficiali. Siamo già oltre, rispetto a un originale legame del barattiere col gioco attestato in pieno Duecento persino da alcuni frammenti del Tesoretto di Brunetto Latini: «Troverai la Ventura; / a cui se poni cura, / ché non ha certa via, /vedrai Baratteria, che ‘n sua corte si tene / di diare e male e bene».
Lo scivolamente del termine da un precoce nesso col gioco, verso altri significati denota però una piccola, ma non indifferente crisi di realtà proprio in quel mondo dell’azzardo che nel tardo Medioevo, con l’affermarsi di una nuova economia del denaro, vede anche il progressivo emergere della baratteria e dei suoi membri, i barattieri, avvititisi a una prima, ma non troppo conosciuta istituzionalizzazione. Il mutamento semantico non stupisce, nemmeno nella decisa e secca accezione attestata da Dante, il quale da parte sua offre un’immagine alquanto potente e densa di barattieri che tutto hanno a che fare proprio con la malversazione, ma nulla col gioco. Non a caso, nei suoi giorni fiorentini, lo stesso Dante incappò nel reato di baratteria-corruzione, rimediando – era il 1302 – una condanna all’«interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo e, se fosse caduto nelle mani della giustizia al rogo».
Il mutamento, però, osserva Gherardo Ortalli, in un libro di grande rigore e interesse, edito per i tipi del Mulino , fu graduale e lento, ancorché definitivo e segnerà per sempre e a fondo i nostri usi linguistici e l’immaginario che vi si collega. Ancora oggi, anziché al variegato e complesso mondo del gioco in denaro e alla marginalità di aleatores e lusores da cui pur trae origine e benché espunto dal gergo dei codici penali, il termine rimanda a una fattispecie nota anche nel Medioevo, assumendola però come esclusiva: la corruzione di un pubblico ufficiale.
Ma chi erano, in origine, prima di questo slittamento, i barattieri? Che cos’era, nello specifico del lento e mai lineare mutamento storico, la baratteria? In pieno Duecento, con le legislazioni comunali sull’azzardo (ludere ad azarum), specificamente nelle città dell’Italia centro-settentrionale, la realtà della baratteria e dei barattieri trova un esplicito riferimento, non più limitato alle generiche formule su gioco e giocatori. Anche se la prima attestazione è volgare, e non latina, letteraria e non giuridica, è in quest’ultima, soprattutto nel variegato e vivace complesso degli statuti comunali, che si possono cogliere importanti indicatori del mutamento in atto. Un mutamento che – semplificando una vicenda quanto mai complessa – portò all’istituzionalizzazione dell’azzardo attraverso tasse, gabelle, rendite. Fino al Quattrocento, quando l’azzardo che dal più celebre gioco a dadi prendeva nome (la zara) imboccherà altre strade, sia giuridiche che di mezzi, sostituendo i dadi prima con le carte e poi con le nascenti lotterie. Derivato forse dal provenzale baratier (scambio, baratto in senso comunque commerciale e non negativo), il fenomeno della baratteria si collegò ben presto a quel mondo di marginali – aleatores e lusores, appunto – che traevano dal rapporto coi dadi e con la sorte le loro uniche fonti di sostentamento. Lontani dall’essere giocatori occasionali, questi mali homines diedero in qualche modo vita a una società fatto aperta e sfuggente, condannata prima, mal vista in seguito e infine tollerata e ammessa, fosse solo come eventualità. Una «indistinta marginalità dai confini tutto sommato fluidi – puntualizza Ortalli – che le istituzioni comunali nella ricerca dell’ordine si sforzarono di precisare e tenere sotto controllo. Questa compagine generica e indefinita trovava poi un suo aggancio concreto ai luoghi fisici che apparivano come loro propri». Dal Duecento, infatti, i luoghi in cui questa varia umanità si ritrovava per praticare in maniera illecita, tollerata o addirittura “autorizzata” l’azzardo – allora idenficato tout court con i dadi – cominciarono a esserefisicamente individuabili e definiti come “baratterie”.
Dinanzi a un fenomeno emergente, la legislazione non operò introducendo nuove categorie, ma piegò quelle esistenti, prendendo atto di una realtà oramai consolidata e concreta, nel tentativo di inquadrarla in un contesto normativo specifico che, dopo la metà del Duecento, anche se in modo disomogeneo, segnerà il passaggio da un sistema di divieti a uno di concessioni onerose. In altri termini: dal reato, si passerà al lucro e i barattieri, al pari dei luoghi che appalteranno per le loro attività, diventeranno figure tipicamente riconosciute e riconoscibili della vita sociale quotidiana. La messa a rendita dell’azzardo, trasformò la baratteria – intesa come insieme dei barattieri – non solo in figura lecitamente riconosciuta, ma nella parte integrante di una statualità che non pretendeva più di – o forse solo non sapeva – rinunciare a servigi “infami”, ma pubblicamente necessari (tra i quali rientravano spesso anche l’esazione delle imposte, la delazione strutturata o la funzione di boia) di questi buoni ufficiali disposti a sporcarsi le mani per tutelare gli affari pubblici forse più dei propri.
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tysm literary review, Vol 1, No. 1 – 3 january 2013
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