Forme della decadenza
Mario Cassa
Dopo gli anni della Rivoluzione francese, ma in particolare dopo il ’48, i grandi spiriti, le grandi coscienze della Europa sono vissute con la sicurezza di vivere in un’epoca di grande crisi, di grande decadenza; nel senso più lato del termine, s’esprime appunto il senso generale di una crisi universalmente dominante.
Cosa s’intende per decadenza? La Rivoluzione francese e anche per certi aspetti la rivoluzione del ’48, hanno generato la speranza e la fiducia nella possibilità di instaurare una società finalmente libera, finalmente eguale. Finalmente, significa una società definitiva. Una società che in modo definitivo, senza bisogno di ulteriorì lotte, rivoluzioni, sofferenze, viva fondamentalmente nella libertà. Ma non occorrono molti anni perché l’umanità europea si renda conto che le cose non stanno così, che queste rivoluzioni, questi moti hanno certamente apportato grandi novità, grandi esperienze, ma sono ben lontani dall’aver raggiunto una situazione ottimale, e perciò, tendenzialmente, definitiva. Tutti si convincono ben presto che la storia umana non è mai finita, ed è inutile illudersi che finisca, ed è inutile pensare che possano compiersi rivoluzioni che risolvano una volta per tutte la vicenda, il senso del destino umano. Sotto questo profilo, il concetto di decadenza assume un aspetto aperto, un significato positivo; perché decadenza significa, in questo senso, una specie di assestamento: una rassegnazione, che però è anche disponibilità ad accogliere, a penetrare con animo di simpatia, in tutto ciò che la storia ci consegna attraverso i secoli, i millenni, consapevoli del fatto che in quella tradizione non sta affatto il definitivo, l’assoluto, e che non ci sono d’altronde mete definitive e assolute; consapevoli del fatto che il dramma umano non è fatto per chiudersi in una qualsiasi di quelle soluzioni che spesso gli uomini di teatro escogitano o gli storici del passato propongono come prospettiva definitiva, finale; una soluzione come quella appunto che la religione stessa promette quale esito annunciato della vita, della storia umana: un regno di pace totale, definitiva, un regno nel quale il tempo si ferma e tutto si fa immobile, certo, sicuro, fedele, ecc. Questo decadentismo storicistico, cui facciamo cenno, è il decadentismo di Burckhardt, che per molti aspetti non è affatto «decadente». Non è decadente, nel senso che questa parola assume, per esempio, a proposito di Wagner. Basterà rilevare il fatto che Burckhardt nutre un’antipatia insuperabile nei confronti di tutto il manierismo italiano. Il suo animo non gravita su Michelangelo e sugli uomini del suo tempo, gravita su Raffaello, magari anche più indietro, su Donatello, su Antonello e così via, gravita sulla classicità composta e sicura di sé. È la natura stessa che alimenta in sé questo processo di continua contraddizione e che tuttavia appare alla fine con quella grande immota maestà che è sua. In tutti i suoi aspetti la natura è classica. O meglio, la classicità è profondamente realistica, è naturalistica. Questa natura, questa classicità, in un uomo come Burckhardt, costituiscono il punto di gravitazione, l’epicentro o il baricentro del modo di pensare e di sentire.
Perché, nonostante tutto ciò, noi diciamo non classico ma decadente il genio di Burckhardt? Perché in lui prevale l’inclinazione ad accettare questo fato, questa regola delle vicende umane. E perché citare proprio Burckhardt? Perché Burckhardt sta vicino a Nietzsche. Burckhardt è uno degli interlocutori fondamentali di Nietzsche; sta al centro della vita culturale che grazie a tutti e due anima l’università di Basilea. Alla grande, pacificante sistemazione che Burckhardt dà alla vicenda tragica umana, Nietzsche oppone la consapevolezza radicale della tragedia. I due personaggi si integrano l’uno con l’altro; non ci può essere classicità là dove non c’è un dramma da comporre, e non ci può essere dramma là dove non c’è l’orizzonte di una certezza e di una verità nella quale quel dramma, quella trasformazione, quella trasvalutazione prendono significato. Nietzsche ne è così consapevole ed è così ammirato della grandezza di Burckhardt, che non compie l’errore di pensare che il nihilismo costituisca il punto d’arrivo. Per Nietzsche il punto di arrivo è il rinnovamento, la trasformazione, la riedificazione di nuovi valori.
Accenno alla prospettiva nella quale Burckhardt affronta il tema della decadenza dell’impero romano, perché per poter leggere Agostino noi dobbiamo capire innanzitutto cosa significa per Agostino la decadenza dell’impero romano. Se vogliamo capire il cristianesimo, dobbiamo vederlo come quel movimento che risponde alle attese, alle ansie degli uomini di quel tempo; ansie, attese nelle quali si riflette appunto la vasta, inafferrabile eppur avvertita, sofferta crisi di tutto ciò che fino allora era stato ritenuto grande, era stato ritenuto principio di vita, orientamento rassicurante della vita umana; per il romano dell’epoca classica essere cittadino romano significava far parte di una vicenda, portare un piccolo, minimo, infinitesimale contributo ad una vicenda che aveva tutto l’aspetto di riassumere in sé la vicenda stessa del mondo. L’uomo era nato per partecipare, attraverso le vie più diverse alla vicenda dei regni, degli imperi diversi, predestinata al finale compimento nella grandezza dell’impero romano, del diritto romano. Vivere in quell’impero, in quella civiltà, significava partecipare ad un’impresa di tali proporzioni da far sì che ognuno si sentisse interessi che non è difficile capire. Nietzsche nutre per Burckhardt, che pure gli è così diverso, un’ammirazione che non ha eclissi, e negli anni della follia, nelle ultime ore di attività intellettuale allucinata, scrive ancora a Burckhardt. E il nome di Burckhardt è uno dei nomi che tornano ripetutamente sulle labbra di Nietzsche demente.
È un legame profondo, che si radica nella comune esperienza del fatto che, risalendo dall’epoca ellenistica all’epoca classica, e studiando a fondo l’epoca classica, anche Burckhardt, come già Nietzsche, si rende ben conto che quel quadro stereotipo, che ci parla della solare, felice armonia greca, è un quadro falso. è vero che in quei tempi, grazie ai poeti tragici, attraverso il teatro tragico e la aristotelica catarsi, il greco riesce ancora a dominare i problemi della vita e della realtà ed a conquistare la celebrata compostezza apollinea; ed è vero che il popolo greco, nell’epoca ellenistica, alessandrina, nell’epoca della diaspora, prenderà più diffusa coscienza dell’infelicità, del disagio, della crisi, della contraddizione che offende la ragione umana. Ma ciò non significa davvero che il greco del tempo di Omero o quello del tempo di Eschilo o quello del tempo di Pericle abbiano una coscienza meno acuta della tragedia con la quale l’uomo è perennemente in lotta. Proprio la ragione greca sfonda il diaframma di tutte le apparenze e vede al fondo delle cose la invincibile minaccia della Medusa, delle Menadi, delle Erinni; vede l’insidia della bellezza di Dioniso.
Buckhardt svolge quel suo immane corso sulla storia della civiltà greca; scrive 2.300 pagine e dice: questo è solo un abbozzo di quel che si può dire sui Greci; su queste cose si possono scrivere altre migliaia di pagine. Premette un’introduzione dove polemizza con coloro che pretendono di risolvere le questioni con la filologia, con la scienza e con il suo rigore risolutivo. In questa prospettiva l’arricchimento è evidentemente un fattore estremamente positivo; è vero che tutto quanto arricchisce la prospettiva, la valutazione delle cose, mette in crisi quadri precedenti; ma ciò non significa diminuire il nostro potere di conoscenza, ciò significa anzi esaltarlo, farlo più profondo, più ricco: è questo quel continuum che è la smisurata storia degli uomini. Allora il concetto di decadenza si complica perché non è un concetto del quale ci si possa sbarazzare in poche parole di condanna. Se vogliamo andare a leggere Agostino, occorre che questi temi si facciano questioni vive e che la lettura de La città di Dio non metta capo a sintesi schematiche fin troppo facili. Uno schema dice: l’impero fu potente, ricco di attività e di cultura, fino a tanto che si valse dei propri dei; ha cominciato a decadere quando ha abbandonato i propri dei, ha lasciato che i suoi templi venissero disfatti e sostituiti dal culto cristiano, culto che veniva dall’Oriente; un culto dimissionario, un culto che pone il vero significato della vita nell’al di là invece che nell’al di qua, un culto che svaluta le istituzioni umane, quindi letale.
Oppure invece – altro schema -Agostino conferisce evidenza plastica a quella metánoia che trasforma l’impero romano, incapace, inadeguato a reggere la ricchezza della cultura della civiltà umana che progredisce e che condanna alla rovina le sue istituzioni inadeguate, in impero cristiano dove, per rivelazione, il cristianesimo interviene con un nuovo spirito, una nuova coscienza, una nuova forza ideale, capace di reggerlo, di dargli unità, di renderlo coerente alla vita e di garantire felicità agli uomini ed entusiasmo per l’avvenire. Un avvenire che si protrae fin nell’al di là, ma che non per questo cessa di essere intanto avvenire di questo mondo.
In italiano si usa il termine francese décadence appunto per dire «Decadentismo»; non propriamente decadenza nel senso oggettivo, come valutazione di un’epoca. C’è tanta verità, diciamo così, nei secoli della décadence, e non c’è nessuna verità che stia ferma, nessuna verità immobile. Lo storicismo è l’aspetto più intrinseco del fenomeno della «décadence», perché se tutto è vero solo nella storia, nulla è vero in se e per sé al di sopra e al di là del periodo storico. La verità nel senso di scoperta, acquisizione, impossessamento, esplorazione, padroneggiamento dell’esperienza, è tanta, è estesa e vasta, ma in essa sempre più vengono meno, sempre più si risolvono gli ultimi punti di riferimento, immobili, capaci di costituire luogo di incontro e di identità. Burckhardt è uomo, da questo lato, tipico; il piacere, innanzitutto, diciamo pure la gioia della cultura; l’esperienza entusiasmante di quanto è capace la coscienza, la cultura umana nel suo procedere sempre insoddisfatto e sempre disposto a lasciarsi dietro le spalle ciò che pur per un certo tratto è sembrato essere essenziale e definitivo; la gioia di una cultura che acquisisce, che introduce nella coscienza è giustificato, motivato, sia che applicasse una legge in un tribunale, che scrivesse una poesia, che affrontasse il combattere, o che comunque partecipasse alla realizzazione di quell’enorme edificio. Nel momento in cui entra in crisi quell’edificio, tutti gli individui entrano in crisi, tutti si trovano senza l’orizzonte che contiene il motivo vero per il quale vale la pena di vivere.
Burckhardt si occupa dell’impero romano, della sua decadenza, ma se ne occupa da uomo che conosce e vive il senso della crisi delle grandi civiltà, anche e soprattutto perché vive nell’ambito della crisi di una grande civiltà; la grande civiltà borghese che già sperimenta la sua crisi, la contraddizione con sé stessa. Nata per rendere gli uomini liberi e fratelli essa si trova ad essere società nella quale gli uomini sono sottomessi a poteri più incalzanti di quelli ai quali erano sottomessi nell’età signorile; i pacifici e cinici conflitti economici dell’età di Burckhardt, preannunciano quel che sarà il XX secolo, con le guerre terrificanti che hanno segnato la nostra vita, il nostro passato recente.
La decadenza dell’impero romano è stata vista e sentita lungo i secoli del Medioevo e ancora, in più d’un caso, nell’epoca moderna, come una specie di introduzione alla rivelazione; come una prova per assurdo che gli uomini non ce la fanno a conoscere la verità, a fondare una morale, a fondare la vita civile, non ce la fanno da soli, con la loro ragione; occorre la rivelazione. Anche per Burckhardt, uomo laico, figlio di un pastore protestante, che porta dentro di sé una formazione calvinista, e che con il cristianesimo avrà sempre un rapporto di forte, di seria implicazione, anche per Burckhardt in fin dei conti, l’antichità, la decadenza dell’antichità, resta una introduzione al cristianesimo; nella prospettiva sua il cristianesimo prende avvio storicamente radicato e giustificato, dalla decadenza romana, dal crollo di quei valori sui quali la civiltà dell’impero si era, per millenni, fondata. Fino a quando il cristianesimo si dimostra capace di dare unità e fondamento alla verità europea, i popoli del Medio Evo vivono in una prospettiva specularmente opposta, ma del tutto analoga a quella romana. Se i romani consideravano l’Impero il punto di arrivo – la pax romana, il diritto romano, ecc. – i cristiani medievali considerano la romanità come punto di partenza del cammino che porta alla città celeste.
A questo punto, la decadenza dell’impero romano, diventa problema che va ben al di là dell’interesse storico; non si tratta di sapere infine perché l’impero romano è decaduto, perché altri imperi, altre civiltà son decaduti, in altri continenti. Non è più la decadenza dunque l’oggetto vero dell’interesse; essa si offre come momento di estrema importanza, strumento di giudizio, sul valore delle facoltà umane, e sul destino dell’uomo universale. E non possiamo tacerci che Burckhardt conduce questa indagine da uomo che si sente anch’egli protagonista, culturalmente, di un tempo che gli si prospetta comunque come tempo nel quale si può ben parlare di decadenza. Perviene così, inevitabilmente, ancor giovane, a interrogare quell’epoca che noi diciamo epoca di Agostino, o più esattamente l’epoca che immediatamente precede il tempo di Agostino. Con Agostino la curva della decadenza porta a quel giorno in cui Roma viene ìnvasa e devastata dai Goti; quando Agostino decide appunto di scrivere la Città di Dio, quell’opera nella quale intende offrirci la dimostrazione clamorosa che la decadenza della civiltà, della città terrena, giunge ai suoi appuntamenti oggettivi, vitali, in termini radicali, estremi.
Il tema della decadenza prende dunque in questa prospettiva significato eloquente. Ma ciò che bisogna ancora sottolineare è che per un uomo come Burckhardt il termine decadenza non ha ancora il significato che assume per noi. Noi usiamo il termine decadentismo per definire tutta una cultura, tutta una civiltà che assume oggi nomi diversi, perché si manifesta in movimenti, in forme di stile, di cultura, assai diverse.
Per Burckhardt ciò che noi chiamiamo decadenza e decadentismo, ha ancora profili estremamente ambigui; e Burckhardt vive profondamente questa ambiguità. Decadenza per lui è anche arricchimento, è sviluppo smisurato delle capacità critiche e dei terreni e degli spazi di conoscenza. Ad un certo punto, dopo essersi occupato della decadenza romana, è del tutto comprensibile che la sua ricerca si volga prevalentemente alla cultura greca. L’ellenismo è il terreno al quale bisogna votarsi; così per quindici anni – dal ’70 all’85 – Burckhardt tiene a Basilea i suoi corsi sulla storia della civiltà greca. Ed ho già detto l’interesse spiccatissimo, che a questi quindici anni conferisce anche il dialogo con Nietzsche. Nel ’72 esce il volume sulla Nascita della tragedia greca di Nietzsche, e questo saggio sulla tragedia apre un dialogo a distanza tra Nietzsche e Burckhardt. Tra i due si stabilisce, su questo terreno, un rapporto di reciproca simpatia, di comuni degli uomini un volume di emozioni, di informazioni, ma soprattutto un incalcolabile volume di possibili esperienze, di possibili vite, e quindi una ricchezza presente, intima, attiva, goduta.
Abbiamo detto che è di Burckhardt l’aver capito tutto il peso di infelicità, di pena, di tragedia, che caratterizza il mondo greco, cioè l’aver capito che l’apparente serenità olimpica dei Greci è una serenità appunto apparente; ma dire apparente non significa svalutarla fino al rifiuto; Burckhardt fa sua la stessa illusione greca, cioè la capacità di dominare, nonostante tutto, con la luce della coscienza, con la felicità e la gioia della coscienza, la tragedia intrinseca alle contradizioni che nessuna verità certa può risolvere e dirimere nell’ambito dell’esperienza umana. L’esperienza umana ha a che fare con una tale e così aperta ricchezza di esperienze da non poter mai godere di una certezza; ma questo disagio, questa infelicità di fondo, viene lenita ed in definitiva riscattata, come sopraffatta, avvolta in un velo di felicità, in quella atmosfera, in quella luminosa nebbia in cui opera la disponibilità sovrana della coscienza che non ha limiti, che può muoversi in ogni direzione. In questo senso Burckhardt è l’uomo adatto a capire un’epoca come quella della decadenza ellenistico-romana.
Leggiamo dunque qualche pagina di questo Burckhardt, da L’età di Costantino. Epoca nella quale l’impero romano è già stato lungamente provato. L’inizio della crisi economica e sociale si fa risalire pressapoco agli anni che seguono la morte di Marco Aurelio, al regno di Commodo, ai primi del III secolo. Con Diocleziano e con Costantìno l’Impero viene in qualche modo riorganizzato, secondo criteri che rispondono alla situazione nuova e che riconoscono un nuovo peso alle Province nella struttura istituzionale dell’Impero. Naturalmente il farsi avanti delle Province è uno degli aspetti che assume il processo di diffusione e moltiplicazione delle culture nell’area della civiltà romana. Le Province che si fanno avanti, significano capitoli culturali diversi, significano concezioni religiose, significano tradizioni autoctone di costume che ritrovano via via forze e stimoli nuovi; l’Impero diventa sempre di più un abito nel quale tutto ciò deve diventare componibile; in questo Impero sempre più ricco di apporti sincretistici. Sotto i Severi, per esempio, all’inizio del III secolo, la moglie dell’imperatore Alessandro Severo dà incarico a Filostrato di scrivere la Vita di Apollonio. Chi è Apollonio? Dirlo un «santone» del I e del II secolo d.C. sarebbe mancare nei suoi confronti. Non è stato un riesumatore di superstizioni, bensì un uomo di straordinaria saggezza e intelligenza, capace di assimilare nella sua cultura, elementi di gran peso tratti dalla sapienza indiana, dalla sapienza egiziana, dalla sapienza misterica in genere.
Dopo i Severi viene Elagabalo, con il culto siriaco, il culto solare. Tutto ciò nella vecchia tradizione romana, greco-romana, porta elementi che sono di enorme disagio e sono al tempo stesso elementi di ricchezza. In Roma c’è ormai rispetto e anzi venerazione non solo per gli dei greci anticamente riconosciuti, ma anche per molte altre divinità diverse. D’altronde in questo Impero nel quale viene meno una verità mitica e religiosa in qualche modo unificante, cresce la venerazione per l’Imperatore. Un popolo che sempre meno ha verità certe, avverte sempre di più il valore, il significato unificante dell’Imperatore; è l’Impero, la forma, la forza che contiene. Ed è questo d’altronde uno dei punti di conflitto col cristianesimo; il più incisivo anzi dal punto di vista istituzionale.
I cristiani rifiutano di venerare l’Imperatore perché venerano un solo Dio. Su questo punto si coagulano i motivi diversi del conflitto e si mette in moto il processo persecutorio. Da questo punto di vista l’Impero assume un aspetto sempre più ripugnante. Penso alle «arene», ai «colossei» sparsi per tutto il mondo, a questi monumenti spaventevoli che grondano sangue di ogni razza, nei quali par ancora dì avvertire l’eco delle urla, delle passioni più innominabili e più atroci. Questo grande Impero, man mano che avanza, costruisce da tutte le parti questi enormi edifici, sulla povertà indicibile delle popolazioni, e trova modo di applicare queste corone orrende sulla testa di tutti i popoli umiliati. Non penso tanto a quel limitato numero di miserabilì che per fame, per disperazione o per pura costrizione, si prestavano a questi orribili giochi, ma all’eccitazione, all’entusiasmo della folla sulle gradinate: questo è lo spettacolo orrendo, indissolubìlmente legato alla vista di quei monumenti tanto ammirati.
L’impero che va da Diocleziano e Costantino in avanti certo è un impero riassestato, un impero che ancora porta su di sé, dopo Traiano, l’immagine della sua vastità e persino, come nota Burckhardt, della sua relativa tolleranza. «Codesto famigerato regime imperiale che faceva così poco conto della vita del singolo individuo, che imponeva balzelli così opprimenti, che provvedeva così male alla sicurezza pubblica, si limitava però ai suoi scopi essenziali e lasciava che quelle Province che un tempo aveva dovuto sottomettere con torrenti di sangue conducessero senza impacci la loro vita locale».
Torrenti di sangue, ma poi anche la tolleranza; la ricchezza, la ricchezza di cultura, di sapienza; e i balzelli, le prepotenze di ogni genere, dì ogni tipo: è questa realtà contradditoria che affascina l’uomo di fine Ottocento e che affascina ancor di più i tempi nostri; questo modo di affrontare le cose, condotto in termini tali da rendere tutto possibile e accettabile, tutto; e quindi nulla è vero, importante e significante, nulla è capace di dar un senso a quell’impero. È questa la décadence di Burckhardt.
E questo il senso dell’impero che cresce: inglobare, includere tutte le contraddizioni possibili, senza risolverle. Ma viene il momento nel quale l’uomo si sente distrutto dall’interno, proprio da ciò che è stato accolto, da ciò che èstato recepito senza giudizio integratore, senza conciliazione organica, come somma e quantità e ricchezza illimitate.