philosophy and social criticism

Testimoni (dormienti) del terrore nazista

di Francesco Paolella

Charlotte Beradt, Il Terzo Reich dei sogni, Meltemi, Milano, 2020

A quasi trenta anni dall’edizione Einaudi, Meltemi sta meritoriamente per rimandare in libreria un volume, scritto negli anni Sessanta da Charlotte Beradt e che raccoglie decine di sogni fatti da comuni uomini tedeschi fra il 1933 e il 1939. Ne ricaviamo anche oggi il racconto di una feroce distopia nel suo concreto realizzare e della quale, anzi, sappiamo cogliere sempre meglio i contorni man mano che il tempo passa.

 

È il racconto di un terrore che ha saputo uccidere ogni spazio di libertà, anche la più intima, corrompendo persino lo sfogo naturale dei sogni e i desideri che essi sempre manifestano. Si tratta di sogni sognati nel terrore, dominati dall’angoscia più aperta o, comunque, da una inquietudine ineliminabile, una inquietudine che era di tutti, sempre, nella vita quotidiana. La paura della violenza totalitaria sempre più incombente, la sua pervasività, assieme alla pervasività di una propaganda sempre più martellante, hanno provocato una vera e propria tortura psichica, capace di annientare la personalità più forte e di sradicare anche i soggetti più saldi. Tutti, anche i familiari più stretti e fidati, e nascondendosi dietro a ogni oggetto (ogni apparecchio, ogni buco nel muro, ogni macchinario) potevano essere delle spie, pronte a denunciare. E nei sogni, essi lo diventano immancabilmente, demolendo ogni certezza e finendo nell’incubo. Tutti qui sono perennemente osservabili e sospettabili. Ecco, ad esempio, il sogno di una ragazza:

“Sogno di svegliarmi nel bel mezzo della notte per accorgermi che i due angioletti appesi sopra il letto non hanno più gli occhi rivolti al cielo, bensì verso di me e mi osservano attentamente. Mi spavento a tal punto che mi nascondo sotto il letto” (pagina 59).

In sintesi, leggendo queste pagine, la vita sotto l’hitlerismo, con tutti i suoi lati ridicoli e con tutto il suo debordante conformismo, torna visibile e quasi “a colori”. Di più, si ha l’impressione, in alcuni casi, di trovarsi di fronte a veri sogni “profetici” o dettati da uno spirito chiaroveggente: molto più semplicemente – come ha notato Bruno Bettelheim nella postfazione – i sogni sapevano andare al nocciolo emotivo dei problemi, anticipando ciò che necessariamente sarebbe accaduto in un tale contesto di coercizione. Questi uomini vissuti sotto il Terzo Reich, hanno tutti dovuto adattarsi al nuovo “ambiente”, convivendo, in un conflitto inestricabile di paura e desiderio, senso di colpa e fascinazione del potere, con una suggestione irresistibile del regime, la quale a sua volta, nella loro psiche, finiva per farsi poi autosuggestione. Le parole d’ordine del nazismo finivano per far breccia anche nei più disincantati, non fosse altro anche soltanto per riuscire a trovare pace e a far pace con se stessi e con gli altri, tutti convinti nazisti (almeno all’apparenza).

La società tedesca è rimasta indifesa, con ogni resistenza indebolita o del tutto distrutta, davanti a questa forza. Questo dominio perenne dell’angoscia, che ci riporta automaticamente a Orwell, a Kafka e ad Huxley, combatteva, fin nel profondo dei singoli, ogni pluralità, ogni dissonanza e questa “uccisione dei sogni” valeva per tutti, anche per i pochissimi ribelli, per gli “idealisti” finiti semmai nei campi di concentramento. E valeva per gli ebrei, e specialmente per i più assimilati, che sono stati anche quelli più spiazzati dall’antisemitismo di Stato. Anche per loro, l’essere “in colpa” era sempre all’origine, un fatto certo e, al contempo, indimostrabile.

Mancano in questo libro, è vero, i sogni degli altri, dei dominatori, dei nazisti. Ma, ad ogni modo, Charlotte Beradt ci ha portato dentro la mente di una massa di uomini sulla via della nazificazione, mostrandoci – e lo possiamo cogliere davvero bene solo noi oggi – cosa si celasse dietro o sotto gli uomini che, convinti o conformisti, partecipavano alle parate di regime, indossavano con orgoglio od opportunismo le divise e credevano o fingevano di credere nella bandiera con la croce uncinata.

La raccolta di questi sogni del terrore fa tornare in mente l’immagine del piccolo Oskar, il protagonista del Tamburo di latta, che si nasconde sotto la tribuna dove un capo nazista della sua città sta per tenere un discorso. Oskar vede e ci fa vedere il regime (con i suoi uomini e le sue donne tronfi nelle loro divise) dal di sotto, ci mostra il lato nascosto, oscuro della tribuna, quello che non si deve mai vedere. Anche qui, la realtà più urticante fatta di invidie, desideri, paure, conflitti più o meno sepolti, riesce ad emergere. Non mancano poi sogni a carattere più o meno marcatamente erotico, con Hitler o qualche altro gerarca come protagonista. È l’eterna fascinazione del potere, si dirà. Senza dubbio. Ed è l’eterno bisogno di sentirsi vicini, prossimi, di essere amici o sodali di chi sta in alto, di chi “tollera” benevolmente la nostra vita imperfetta e sempre colpevole:

“Sogno assai spesso di Hitler o di Göring. Mi fanno delle proposte, e io non dico: – Ma io sono una donna onesta – bensì: – Ma io non sono nazista, e a questo punto essi mi trovano ancora più attraente” (pagina 109).

 

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