philosophy and social criticism

Quando la letteratura supera il giornalismo sul piano della realtà

Marco Dotti

Pierre Bergounioux, Agir, écrire, Fata Morgana, Montpellier 2008.

William Faulkner è uno di quegli autori che riescono a far irrompere «le categorie del vero nel campo dell’arte». Così scrive Pierre Bergounioux nell’Invention du présent, libro del 2006 che si lega in più di un punto alle riflessioni del suo Agir, écrire .

Scrittore e filologo nato sessanta anni fa a Brive-la-Gaillarde, nella regione del Limosino, Pierre Bergounioux è una figura a modo suo appartata, ma per nulla emarginata o fuori dai giochi per quanto attiene le grandi questioni che, di tanto in tanto, fra una chiacchiera e l’altra, agitano se non quello europeo, quanto meno il panorama culturale francese. Rispetto a molti suoi colleghi iper e pluri mediatizzati che sgomitano e si accapigliano al solo fine di mantenere la scena, in un momento in cui lo spazio della scena stessa si riduce drasticamente e nuovi comprimari sono pronti a reclamare il loro ruolo nel circo delle opinioni tacitamente condivise, Bergounioux predilige i tempi lunghi della riflessione, lo scavo silenzioso e paziente negli interstizi di una dialettica sfasata tra il «dentro» e il «fuori» la società che costituisce, per l’appunto, la cifra assolutamente peculiare del suo lavoro.

Un lavoro indubbiamente segnato dalla sua condizione di «provinciale», mai completamente esiliato in periferia e mai completamente integrato dal centro e dal suo portato ideologico e simbolico.La geografia trascende il puro dato biografico e nell’opera di Bergounioux – tanto in quella saggistica, quanto in quella di finzione – assume il carattere di una precisa disposizione critica. In un altro saggio, una conferenza del 2006 poi apparsa per i tipi delle edizioni Pleins Feux di Nantes, e intitolata La puissance du souvenir de l’écriture, Bergounioux si richiamava al cosiddetto «effetto Zeigarnik», ossia la tendenza a ricordare compiti non ancora portati a termine. Ci si ricorda, in sostanza, soprattutto di tutto quello che non è ancora concluso, e non è stato tradotto in azione.

La letteratura, nel suo rapporto col passato e nell’effimero transito di questo passato nel presente, appare a Bergounioux un diverso modo di recuperare gli atti mancati e ripercorrere i sentieri interrotti, al punto che «scrivere si presenta infine come un altro modo di agire» e di passare all’atto. Il resto – che ha «forma in sé» – si «consuma in un presente puro» e senza rimedio, consegnato a un giornalismo senza arte, né parte attaccato al delirio del quotidiano come a un immondo feticcio. Non è un caso che il nome di Faulkner ritorni sempre nelle riflessioni di Bergounioux e vi ritorni a maggior ragione proprio nell’ultimo libro, un libro importante e decisamente schierato, eticamente e politicamente, a favore di questa idea di «realtà». Faulkner è trattato alla stregua di un conquistatore e di un vinto, di un esiliato perenne e di un cantore dell’agire di secondo grado che, dalla provincia dell’Impero americano, perso nel sud più torbido, in un controtempo e con un ritardo epico, riannoda e chiude la ferita inferta millenni prima da Omero nel corpo vivo della storia. Faulkner – e la rivelazione della sua scrittura negli anni Trenta – si presenta quindi come colui che «ha restituito alla letteratura ciò che la letteratura stessa aveva dovuto cedere, al momento della sua origine, per costituirsi come tale». Faulkner ha scosso a modo suo il mondo, proprio perché – non innamorandosi della «retorica del fatto di cronaca» – ha incrinato il piano di realtà, lo ha rimesso in gioco proprio nel campo letterario, servendosi di parole «capaci di coinvolgere nell’ordine sensoriale la profondità tumultuosa, insensata, la divisione e il dubbio che sono al centro stesso della nostra condizione» e, verrebbe da aggiungere, della nostra scombinata soggettività di epigoni del moderno.