Thomas Heise: uno sguardo d’oltrecortina
Maria Pia Cinelli
Un sabato qualunque nella RDT dei primi anni ’80. In un sala di rappresentanza del Municipio di Berlin-Mitte sull’Alexanderplatz un pubblico ufficiale dai tratti grotteschi di sacerdotessa laica unisce in matrimonio due nubendi un po’ straniati alla Kaurismaki. In sottofondo le note diffuse da un giradischi. L’atmosfera spartana contrasta con il solenne discorso di rito che sancisce la nuova famiglia, piccola cellula basica che andrà a inserirsi nel grande progetto del socialismo reale. Talmente evocativa da far pensare più a una rielaborazione strutturata al fotogramma che non a una ripresa dal vero, la sequenza è sintomatica della capacità di Thomas Heise di far emergere dai fatti la verità che essi sottendono. Stiamo parlando delle ultime scene di Das Haus (1), documentario del 1984 che descrive una settimana di vita d’ufficio nel palazzo comunale. Come Volkspolizei-1985 (2) dell’anno successivo si tratta di un lavoro commissionato dalla Staatliche Filmdokumentation der DDR(3), non destinato alla diffusione bensì alla produzione di materiale per l’Archivio di Stato. Suddivisa per giorno, ciascuno dedicato a uno specifico reparto (elezioni, affari interni, politiche abitative, anagrafe etc.) la semplice cronaca per i posteri perde nelle mani del regista berlinese la natura di videocopia e si organizza in racconto dalle sfumature orwelliane e kafkiane. Il susseguirsi di episodi di ordinaria quotidianietà a contatto con l’apparato amministrativo – da richieste di alloggio popolare a problemi di alcolismo e sospetti di tentato espatrio – disvela lo scarto fra cittadino e potere, un dialogo mancato ove il linguaggio burocratico assurge a strumento di dominio e non già d’interazione, mettendo a nudo l’insussistenza della comunione ideale fra Stato / Società / Partito vagheggiata dal sistema.
Sia Das Haus che Volkspolizei-1985 non risultano graditi ai committenti e rimangono bloccati fino al 1990(4) con ripercussioni negative sull’attività futura dell’autore, che potrà tornare dietro la macchina da presa solo a distanza di quattro anni – coincidenti fra l’altro con l’evoluzione del comunismo internazionale messa in atto da Gorbačëv, alla quale il governo Honecker rimase sordo fino alla caduta.
Nato a Berlino Est nel 1955 con ascendenze ebraiche da parte del padre Wolfgang – filosofo e studioso di letteratura – Heise approda appena ventenne alla DEFA(5) di Postdam-Babelsberg come assistente alla regia dopo aver frequentato una scuola tecnica per tipografi, mentre gli studi cinematografici veri e propri avvengono nel periodo 1978-82 alla Hochschule für Film und Fernsehen Konrad Wolf(6), dove il rapporto con la censura si fa problematico già a partire da Wozu denn über diese Leute einen Film, cortometraggio dell’anno accademico 1979-80 considerato il suo esordio effettivo. L’oggetto sono due giovani fratelli del quartiere berlinese Prenzlauer Berg, entrambi con precedenti penali per piccoli furti, amanti della musica occidentale e con una forte passione per i Kiss. Esseri umani in una difficile fase di maturazione, non diversi da molti coetanei, ma certamente lontani dallo stereotipo del ragazzo fattivo auspicato dal partito, panni sporchi di andreottiana memoria che verranno lavati in pubblico solo dopo la riunificazione.
Il titolo – [t.l.: Perché un film su questa gente] – più che una domanda suona come una dichiarazione d’intenti sul punto d’osservazione che il documentarista tedesco andrà a privilegiare lungo tutto il suo percorso. Le vite comuni sono infatti la base di partenza di ogni sua avventura cinematografica, storie di person(aggi) come tanti, portatori comunque di una singolarità tesa ad affermarsi, che intrecciandosi ad altre storie nello spazio e nel tempo ricostruiscono un tessuto contestuale fra le cui pieghe vengono alla luce contraddizioni e dissonanze di più vasta portata, inevitabile richiamo per l’intervento censorio. Oltre alle pellicole, a risentirne è anche l’attività radiofonico-teatrale svolta in parallelo, benché Heise non sia un oppositore del regime in senso stretto, né i suoi lavori rientrino apertamente nelle opere di denuncia, ma un osservatore disincantato che tale rimarrà anche quando la scomparsa della barriera con l’occidente lo vedrà agire in uno scenario modificato.
Sul limite fra le due ere si colloca Imbiß-Spezial – realizzato dopo la lunga parentesi infruttifera seguita al dittico su ordinazione – che nella carriera di Heise marca, oltre a quello cronologico quale ultima produzione sotto la Germania Est, un confine soprattutto estetico, introducendo un approccio più aperto alla sperimentazione e l’uso del colore. Ritenuto il portabandiera dei film della svolta(7), il cortometraggio è ambientato nella tavola calda del titolo, situata nella stazione metropolitana Berlin-Lichtenberg, all’alba del 7 ottobre 1989 allorché stanno per iniziare i festeggiamenti del 40° anniversario della RDT. Come in Das Haus la Parola è il principale significante: il tenore propagandistico e magniloquente dei messaggi celebrativi emanati dal televisore si contrappone agli interventi incentrati sul vissuto sia del personale di cui fa parte anche il fratello Andreas, sia della clientela, a dimostrare lo iato fra esistenza ipotizzata dal potere ed esistenza reale, mentre le voci dissociate dalle immagini di pertinenza e montate su scene di attività lavorativa nel ristorante riflettono il clima di spaesamento ed incertezza di un preciso momento politico, foriero dell’onda di protesta che di lì a undici giorni porterà alle dimissioni del granitico Honecker e il 9 novembre successivo all’abbattimento del muro intertedesco. Lo stacco in chiusura dalla parola ‘FINE’ allo slogan della Deutsche Bank ‘Aus Ideen werden Märkte’ [t.l.: Dalle idee nascono i mercati] passa il testimone al Capitale che verrà.
Nel dopo assorbimento l’autore berlinese dispone di un margine di manovra più ampio, approda subito al formato lungo e a una certa regolarità, andando verso la pienezza artistica e un proficuo tragitto festivaliero internazionale. Nel 1991 esce Eisenzeit girato a Eisenhüttenstadt(8), sulla scia di un film interrotto sul sorgere dieci anni prima dalle autorità.
La riesumazione di progetti abortiti(9), così come l’insistere sulle medesime persone o luoghi da un documentario all’altro nonché l’impiego di vecchio materiale divengono cifra costante, legata alla non-linearità di Tempo e Storia fulcro della poetica heiseniana.
La compresenza di ieri e oggi è strutturale in Eisenzeit, che sviluppa in divenire l’originario ritratto di alcuni giovani, figli dei fondatori della prima città socialista nella RDT, sorta nel 1950 come Stalinstadt e rinominata Eisenhüttenstadt nel 1961. Alla ripresa del lavoro il gruppo focalizzato in partenza è ormai adulto e più che dimezzato: Frank, vittima degli stupefacenti, si è trasferito a Berlino, Mario e Tilo sono morti suicida. Di Tilo resta la voce, prestata alle canzoni di Neil Young che accompagnano lo scorrere della macchina da presa sulla città operaia-modello ispirata ai criteri urbanistici sovietici, incombente protagonista / antagonista in quanto simbolo della nazione stessa. Spetta dunque ai due superstiti – Anka, moglie del tossicodipendente, rimasta a Eisenhüttenstadt con la figlia, e il suo ex fidanzato Karsten – il viaggio nella memoria di sopravvissuti e assenti, rievocazione malinconica e toccante di un fallimento corale, un come eravamo / come non siamo potuti diventare di chi ha sublimato in alcol, droga e perdita di sé l’impossibilità di conformarsi ai canoni educativi socio-politici e familiari. Fra racconto di (de)formazione e affresco storico, il lungometraggio rappresenta una tappa fondamentale nella filmografia del regista e ne racchiude le dominanti: la rivis(itaz)ione a distanza, la specificità del luogo che contestualizza dati eventi (sono spesso lunghe panoramiche circolari a delimitare il territorio), il malessere di adolescenti senza futuro e senza padre (reale o ideale che sia), la Storia come insieme di storie di persone comuni (in tedesco die kleinen Leute = la piccola gente), l’attenzione per il lato intimistico-sentimentale.
Quest’ultimo prevale nettamente in Mein Bruder-We’ll meet again(10), mediometraggio del 2005 sul riavvicinamento fra Thomas e Andreas Heise, che non si erano più visti dalla morte del padre. Il fratello vive con la nuova partner francese nei Pirenei, ospite della ex moglie divenuta in seguito compagna del suo migliore amico, Micha, ex informatore della Stasi(11) sull’attività degli Heise.
Il coinvolgimento personale non impedisce al regista di mantenere il consueto metodo di lavoro, non dimostrativo di una tesi a monte bensì aperto a qualsiasi direzione la materia filmata vada a condurre e senza influenzarne il corso con i propri interventi, limitati allo stretto necessario. Un metodo che permette ai volti e alle voci, ripresi in maniera non aggressiva, per lo più con camera fissa, di articolarsi in una sorta di drammatizzazione spontanea.
Mein Bruder vede riavviarsi il dialogo fraterno proprio sul passato collaborazionista di Micha. Un’atmosfera da comunità simil-hippy con sede nell’alberghetto gestito dalla ex moglie dove Andreas funge da cuoco è il teatro di un ennesimo ritorno su fatti difficili da scrollarsi di dosso, ma scenari catartici di pentimento, perdono o quant’altro la sinossi possa far presagire non abitano qui, né si chiedono giustificazioni. Micha, con il suo disagio e la sua reticenza ad affrontare l’argomento, è posto sullo stesso piano degli altri, piccola gente immersa negli eventi che cerca una vita possibile stabilendo delle priorità, dove l’amicizia nata da bambini ha la meglio sulla delazione di chi adoperava le chiavi di casa tua per cercare indizi utili da riferire, la stessa priorità concessa a sigarette e birra di cui Andreas continua a far uso considerevole in barba a cinque bypass. E nel semplice ‘Perché non ho fatto l’informatore? Non so, non mi è stato chiesto’ risiede forse la chiave interpretativa di un fenomeno che si presta a un giudizio morale univoco per osservatori esterni.
Heise invece non giudica, mostra. Un atteggiamento senza presa di posizione apparente che ha dato spesso adito a critiche se non a malintesi, nello specifico il polverone alzatosi nel 1992 per Stau – Jetzt geth’s los, il primo film della trilogia su Halle-Neustadt, compresiva di Neustadt (Stau – Der Stand der Dinge) del 2000 e Kinder. Wie di Zeit vergeht del 2007(12). Stau indaga sui giovani neonazisti di Neustadt e lo fa come sempre per voce dei ragazzi stessi, colti nella normalità di una famiglia operaia o seguiti nelle trasferte. Lasciati liberi di esporre tesi, motivazioni, finalità, forniscono un’immagine cruda di un’altra generazione in preda a una rabbia nuovamente figlia di un’inadeguatezza sociale che, invece di implodere come in Eisenzeit, trova nella violenza esterna il mezzo per togliersi le vesti di paria che si trova a indossare (‘Non siamo solo i rossi poveri dell’est’), chiamando in causa il nesso fra l’attecchire dell’estremismo destrorso nella classe lavoratrice e gli attriti della recente convivenza. Dare la parola ai naziskin tuttavia non è ben recepito da molti e il regista viene tacciato di fascismo, con manifestanti che assaltano il cinema in occasione della prima – senza aver visto il film, secondo la prassi – o nel migliore dei casi di aver remato contro il processo integrativo.
Ancora panni sporchi, che stavolta mettono il dito nella piaga di una riunificazione più simile a un’annessione, con da una parte il disappunto di una società florida alle prese con la zavorra orientale in grado di stravolgere un modello economico vincente e dall’altra quattro decenni che ristagnano nelle ceneri di un’industria in disarmo, nella disoccupazione e nel flusso verso Ovest. La sconfitta di un’utopia non apre a un’età dell’oro ma a una transizione lenta e problematica, che puntualmente si manifesta sia nella trilogia citata, sia in Im Glück (Neger)(13) del 2006 e soprattutto nel monumentale Material del 2009. Come suggerito dal nome, il recente lavoro consiste in un assemblaggio di materiale, ovvero di riprese effettuate con vari formati da fine anni ’80 al 2008 in origine scartate o per altro uso, qui rimontate senza alcun ordine cronologico se non quello di una metà iniziale sulla RDT e una seconda sul dopo svolta. Spezzoni di storia, sintagmi di tempo, che nella concezione heiseniana – ‘Man kann sich die Geschichte länglich denken. Sie ist aber ein Haufen’ [t.l.: Possiamo figurarci la storia come oblunga. Ma è un ammasso] – si definiscono solo in virtù della coabitazione in un unico presente dinamico e solo in prospettiva si offrono a un’interpretazione, messa eternamente in gioco dal variare dei sintagmi che cambia il punto di fuga, quindi soggetta a verifiche. Lo stesso concetto che sta alla base del suo discorso cinematografico: un continuo ritornare sulla cosa vista per ‘mettere in dubbio o in crisi ciò che si filma’(14), nell’ultimo documentario portato all’estremo con la riorganizzazione in nuova forma di immagini in precedenza rigettate o destinate ad altre visioni, a significare le molteplici possibilità di qualsiasi tipo di sguardo. Ritratto di una Germania in trasformazione al di là dei luoghi comuni e della retorica mediatica, Material consacra definitivamente l’autore fra i migliori talenti del cinema tedesco contemporaneo e segna un’altra pietra miliare in un corpus filmico ragguardevole, per il quale sarebbe lecito coniare il termine ‘Heisenzeit’, vale a dire ‘L’epoca di Heise’, un’epoca che Heise è riuscito (e ci auguriamo perseveri) a comprendere a fondo e a restituirci in tutta la sua complessità.
(1) [t.l.: La casa]
(2) [t.l.: Polizia del Popolo-1985]. Il film tratta del funzionamento della Polizia, documentato sia in interni (una stazione di Berlin-Mitte a breve distanza dal muro) che in esterni in fasi di pattugliamento.
(3) il reparto di Documentazione Filmica Statale della RDT, ramo dell’Archivio di Stato
(4) dalla riunificazione (3 ottobre 1990) i negativi – e i diritti – di entrambi i mediometraggi appartengono all’Archivio Cinematografico Federale e il regista ha perso la causa intentata per rientrarne in possesso. Nel 2001 sono stati ottenuti – a un costo monetario considerevole – i diritti di ricostruzione, avvenuta su Digibeta, dopo di che è stato possibile diffonderli in Tv. Secondo Heise l’interesse a non mostrarli è sopravvissuto alla scomparsa della RDT.
(5) ovvero Deutsche Film-Aktiengesellschaft, la casa cinematografica statale della Germania Est, fondata nel 1946 e disciolta nei primi anni ‘90, cambiando spesso denominazione nel tempo.
(6) ‘Accademia per Film e Televisione Konrad Wolf’, a Postdam-Babelsberg. Nel 1982 Heise lascia la scuola rifiutandosi di apportare al film d’esame Erfinder 82 [t.l.: Inventore 82] le modifiche richiestegli dopo il montaggio preliminare. Il documentario verrà in seguito distrutto dalle autorità.
(7) in tedesco Wendefilme. Vengono così chiamati i film realizzati nella (ex)/Germania Est tra fine anni ‘80 e inizio anni ’90.
(8) il titolo, [t.l.: Età del ferro], gioca sul nome della città, [Eisenhüttenstadt = città di lavorazioni del ferro] – allora sede del più grande complesso siderurgico della RDT, base dell’industria pesante – unendo il significato mitologico di civiltà in declino con quello di età di Eisenhüttenstadt ovvero della Germania Est. In effetti il progetto di dieci anni prima aveva un titolo ben diverso, Anka und … [t.l.: Anka e …] dal nome di una protagonista.
(9) deriva da un’idea bocciata nel 1989 anche il notevole Vaterland [t.l.:Patria] del 2002, ambientato a Straguth nella Sassonia-Anhalt, sede in epoca nazista del lager per mezzosangue ebrei dove erano stati internati il padre e lo zio del regista.
(10) [t.l.: Mio fratello – C’incontreremo ancora]
(11) abbreviazione di uso comune per Ministerium für Staatssicherheit [Ministero per la Sicurezza di Stato], che aveva arruolato più di 100.000 persone in qualità di IM (Inoffizieller Mitarbeiter) ossia d’informatore non ufficiale. Uno studio specifico sulla figura dei delatori Heise lo aveva affrontato nel 1997 con Barluschke – Psycogramm eines Spions [t.l.: Barluschke – Psicogramma di una spia]. Di recente la Stasi è salita all’attenzione del pubblico internazionale nel pluripremiato Le vite degli altri (Florian Henkel von Donnersmarck, 2006).
(12) [t.l. rispett.: Stallo – Si parte / Neustadt (Stallo – Lo stato delle cose) / Figli. Come passa il tempo]. Neustadt è un sobborgo operaio della città di Halle nella Sassonia-Anhalt, edificato dalla RDT per ospitare i lavoratori della locale raffineria Leuna, in seguito acquisita dalla francese Total.
(13) [t.l.: Nella fortuna (Negri)]. Negri fa riferimento alla frase ‘Sono un negro’ pronunciata nel ritirare un premio dal drammaturgo Heiner Müller – mentore e amico di Heise con il quale vanta numerose collaborazioni, teatrali e non. Müller si riferiva allo status dell’intellettuale, qui designa la marginalità economico-sociale dei protagonisti. ‘Nella fortuna’ può intendersi anche ‘nella prosperità’.
(14) Jean-Louis Comolli, ‘Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta’, Donzelli Roma [2006]
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