Il cinema documentario in Palestina: dai fratelli Lumière all’operazione “Piombo fuso”
Giuseppe Pusceddu
Le prime riprese cinematografiche in Palestina fanno parte degli albori del cinema. Nel 1896 operatori dei fratelli Lumière riprendono la stazione di Gerusalemme, scene di vita di strada, fedeli nella spianata delle moschee, un ebreo che prega al muro del pianto, una processione, insomma situazioni colte in movimento all’interno della città. Le prime prove di “fotografia vivente”, comuni ad altri film della scuola Lumière, documentavano semplicemente aspetti della realtà sociale.
Questo nuovo strumento, così importante e affascinante, che permetteva riproduzioni di situazioni in movimento, attira immediatamente l’attenzione dei sionisti. Nel 1897 in Svizzera, infatti, durante la Conferenza Sionista di Basilea, il terzo articolo in agenda prestava una attenzione straordinaria al ruolo del cinema nella creazione dello stato di Israele, mettendo l’accento sull’importanza che il nuovo media avrebbe avuto nello sviluppo della ideologia nazionalista e nella colonizzazione della Terra Santa, rivendicata come diritto degli ebrei alla “terra promessa”. Dopo la dichiarazione Balfour ha inizio la produzione strategica di una serie di film tesi ad incoraggiare l’emigrazione degli ebrei in Palestina. Nel primo ventennio di cinema sionista i palestinesi venivano così dipinti come villani, barbari e violenti, da fronteggiare con le armi. Oppure un’altra strategia era quella di ignorare, e negare, totalmente l’esistenza della popolazione palestinese.
Se i sionisti avevano le idee molto chiare su come si poteva usare il nuovo rivoluzionario strumento per i loro fini colonialistici, gli abitanti della Palestina a questa duplice scoperta, l’importanza del cinema e l’uso propagandistico che con questo se ne poteva fare, arrivarono molto più tardi, esattamente nel 1935.
Infatti, se si eccettua la produzione del primo film in Egitto del 1927, Un bacio nel deserto a cura dei fratelli Lama (un regista ed un attore di origini palestinesi), il primo documento cinematografico prodotto da un palestinese è dovuto a Ibrahim Hassan Sirhan, che nel 1935 documenta con la sua cinepresa a molla la visita del re Saudita in Palestina: dalle riprese ne viene fuori un filmato di 20 minuti.
Il regista palestinese fu uno dei primi a rendersi che l’uso del cinema fatto dai suoi “colleghi” ebrei, arrivati in Palestina, era esclusivamente propagandistico. Questa scoperta contribuì probabilmente a rifiutare l’offerta di dirigere film per gli ebrei residenti in Palestina.
È il regista iracheno Qasim Hawal, che negli anni Settanta incontrò Ibrahim Hassan Sarhan, oramai quasi sessantenne, che faceva l’idraulico nel campo profughi di Chatila a Beirut, a ricordare questo particolare:
Sarhan si rese tuttavia conto che gli ebrei giunti in città si preoccupavano soprattutto di riprendere le strade sporche e i bambini vestiti con indumenti consunti e che i film da essi realizzati, alternando riprese di terreni incolti con sequenze in cui venivano mostrati coloni al lavoro, sottolineavano la produttività dei nuovi insediamenti ed ignoravano quanto veniva quotidianamente svolto dalla popolazione palestinese.
Hawal conclude ricordando che fu proprio per contrastare la tendenziosità di queste immagini che l’operatore decise di specializzarsi nel documentario.
Generalmente, gli storici del cinema inquadrano la cinematografia palestinese in quattro periodi, che equivalgono ad altrettante fasi della lotta di liberazione nazionale. Il primo periodo, ovvero l’Inizio, parte dal 1935 e arriva al 1948, anno della Nakba. Il secondo periodo viene definito come Epoca del silenzio, e va dal 1948 al 1967, anno della Naksa. Il terzo periodo, che va dal 1968 al 1982, viene inquadrato come Cinema in esilio. Infine il quarto periodo, quello del Ritorno a casa, che va dagli inizi degli anni 80’ sino ai giorni nostri.
Il primo periodo, che parte appunto dal documentario di Ibrahim Hassan Sarhan del 1935 si conclude nell’anno del disastro per il popolo palestinese, la Nakba. Oltre Sarhan, che dopo aver girato altri documentari fu costretto, come migliaia di altri palestinesi, a lasciare la sua terra nel 1948 e a rifugiarsi in Giordania, in questo periodo pre-Nakba la cinematografia palestinese registra un altro nome, Muhammad Saleh Kayali, proprietario di uno studio fotografico. Kayali venne in Italia per studiare cinema e al suo rientro in patria iniziò a lavorare ad un film sulla questione palestinese, lavoro commissionato dai rappresentanti della Lega araba in Palestina. Il film non fu portato a termine a causa della sopravvenuta Nakba, e Kayali si rifugiò in Egitto dove continuò a produrre film sulla questione palestinese.
Il secondo periodo è caratterizzato soprattutto dall’esilio. Nel 1948 la comunità palestinese, come entità sia politica che sociale, cessa di esistere o viene ridotta completamente al silenzio: i sionisti forzano metà della popolazione palestinese a lasciare la propria terra e le proprie case; vengono cancellati più 350 villaggi e gli abitanti diventano profughi. Passano anni prima che i palestinesi si riprendano dallo sconcerto, rompano il silenzio ed inizino ad organizzarsi. Questo compito spetta agli intellettuali, scrittori e poeti (Ghassan Kanafani, Mu’in Bsisu, Mahmud Darwish e Tawfik Zayiad tra gli altri) che, dall’esilio e dalla Palestina, prendono posizione e denunciano anche l’inconsistenza della leadership palestinese.
In questa situazione la cinematografia in Palestina non poteva né svilupparsi né di fatto essere presente a testimoniare la grande tragedia del popolo palestinese: in primo luogo per mancanza di infrastrutture, poi di finanze infine di professionalità. In queste condizioni i registi palestinesi, come il pioniere Ibrahim Hassan Sarhan, cercarono rifugio e lavoro nei paesi arabi confinanti. C’è comunque traccia di un lungometraggio diretto da Salahuddin Badrakhan, Il sogno di una notte, che il regista realizzò prima di lasciare la Palestina per la Giordania. Un altro regista palestinese, che operò in Giordania in questo periodo fu Abdallah Kawash, che diresse nel 1964 il secondo lungometraggio della storia del cinema giordano, Mia patria amata.
Il terzo periodo cinematografico inizia con un altro momento drammatico della storia palestinese: la Naksa, la disfatta della guerra del 1967 e la conseguente occupazione dell’intera Palestina da parte di Israele. I palestinesi organizzano la resistenza e stabilizzano in Giordania l’organizzazione militare e la rifondazione dell’Olp con Yasser Arafat come presidente.
Con la creazione dell’organizzazione di liberazione nasce anche la necessità di documentare la vita politica e sociale della resistenza. Nel 1967 viene fondata da Sulafa Jadallah Mirsal, una giovane fotografa palestinese che aveva studiato fotografia al Cairo, una piccola unità fotografica all’interno dell’organizzazione. Mirsal lavora inizialmente su foto commemorative di feriti palestinesi. Come studio viene scelta inizialmente una cucina, in seguito il lavoro del gruppo si sposta nell’appartamento che ospitava gli uffici di Fatah ad Amman, nasce così il dipartimento della Fotografia. Il lavoro del dipartimento non comprende ancora il campo del cinema, la leadership nutriva dubbi sulla necessità di dare spazio anche a questo strumento, e si pone come obiettivi la documentazione di tutti gli eventi che giustificassero la causa palestinese e la raccolta di servizi per la stampa.
Anche se il cinema non era nell’agenda del dipartimento, a Mirsal si affiancano due giovani palestinesi che avevano studiato cinema, Mustafa Abu-Ali e Hani Johariya, che trovarono il modo di filmare regolarmente manifestazioni e attività politiche e culturali, prendendo a prestito cineprese e pellicole dalla televisione giordana per cui lavoravano.
Nel 1969 il gruppo del Dipartimento documenta con una cinepresa a 16 mm manifestazioni in Giordania e altri paesi contro il piano di pace americano in Medio Oriente, che ignorava completamente il popolo palestinese e la sua organizzazione. Nasce così il primo documentario prodotto dal Dipartimento di fotografia dell’Olp: No alla soluzione disfattista, della durata di 20 minuti con interviste ai manifestanti e il suono in sincrono. La regia è di Mustafa Abu-Ali, Hani Johariya e Salah Abu Hannoud.
Inizia così l’avventura del cinema palestinese in esilio, tra progetti e vicende drammatiche di un popolo in fuga: l’Olp, dopo i fatti di “Settembre nero”, è costretta a lasciare la Giordania per cercare rifugio in Libano. Il dipartimento segue la stessa strada. Nle 1971 il gruppo di Abu-Ali produce un secondo documentario, Con il sangue e lo spirito, girato durante le vicende di “Settembre nero”. Le autorità giordania ne vietano l’esportazione, ma è lo stesso Arafat a portare in giro il film e mostrarlo durante il summit di paesi arabi al Cairo che discutevano di quegli eventi.
Durante questo periodo, sia il dipartimento dell’Olp, che cambia nome in Unità del cinema palestinese, sia le strutture cinematografiche delle più importanti fazioni politiche (il Fronte democratico per la liberazione della Palestina fonda il comitato per l’arte, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina il Comitato artistico che diventa poi Studio di produzione Al Ard), producono più di sessanta documentari. Il Fronte popolare produce anche il primo film di fiction della storia del cinema palestinese: si tratta di Ritorno a Haifa, tratto dal romanzo di Ghassan Kanafani e diretto da Kassem Hawal, un regista di origini irachene.
Il cinema palestinese del terzo periodo, chiamato anche “Cinema della rivoluzione”, si basa soprattutto sulla cinematografia dei cinegiornali, che fa anche largo uso di materiali d’archivio. I film prodotti partecipano ad importanti festival di documentari, come Leipzig nell’allora Germania dell’Est, Bagdad e Cartagine in Tunisia. Nel 1982, dopo l’invasione del Libano da parte di Israele in complicità con le forze Cristiano Maronite libanesi, l’Olp, principale bersaglio degli israeliani, è costretta a trovare rifugio in Tunisia, Yemen e Algeria. L’importante archivio del cinema palestinese rimane a Beirut, malamente custodito, e cessano di funzionare le varie organizzazioni di cinema palestinesi. In questa difficile situazione, il Dipartimento di cultura dell’Olp riesce a comunque produce in Tunisia due interessanti documentari del regista iracheno Kaise al-Zubaidi: La nazione col filo spinato, dove si parla per la prima volta del razzismo dei coloni israeliani, e Palestina: cronaca di un popolo, un lavoro basato su materiali d’archivio che analizza il problema palestinese dal primo comgresso sionista di Basilea sino al 1948.
Mentre il terzo periodo della cinematografia palestinese, rappresentato dalle organizzazioni in esilio, toccava la questione della terra da un punto di vista simbolico (l’unità nazionale della società palestinese), il quarto periodo è quello del “ritorno” a casa, inteso come ritorno alla terra. Generalmente questo periodo inizia con il primo film di Michel Kheifi (uno dei più importanti registi palestinesi che studiò cinematografia in Belgio) girato in Palestina: La memoria fertile (1980). Alle sofferenze patite dal popolo, il trauma per l’esilio e le lotte, affrontate nelle opere precedenti, vengono ora affiancate tematiche più aderenti alla “terra perduta”.
Già un grande film come Gli ingannati (1972) di Tawfik Saleh, tratto dal più bel romanzo della letteratura palestinese, Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani, aveva affrontato il tema della terra, ma dagli inizi del 1980 in poi questa tematica diventa trainante e onnipresente.
Alla fine degli anni ’70, la crisi economica nell’area si ripercuote inesorabilmente sugli abitanti dei Territori occupati e in parte sugli arabi d’Israele; alle difficoltà finanziare si aggiungono i nuovi insediamenti dei coloni ebrei che occupano la terra dei palestinesi, distruggendo loro case e coltivazioni; inoltre, le restrizioni imposte dai militari israeliani alla popolazione civile palestinese si fanno sempre più dure. Sono questi gli ingredienti che portano il popolo palestinese dei Territori occupati alla rivolta popolare contro l’occupazione israeliana: il 9 dicembre 1987 scoppia dunque, nel campo profughi di Jabalya, nella Striscia di Gaza, la prima Intifada, che si estende subito a Gerusalemme e alla intera Cisgiordania.
Giornalisti delle televisioni di tutto il mondo, seguono e documentano gli eventi, rendendo evidente a tutti la brutalità dei militari israeliani. Personale palestinese viene reclutato dalle troupe televisive per svolgere mansioni para-giornalistiche di fixer (faccendiere accompagnatore di giornalisti), traduttore, autista. Iniziano a circolare le prime videocamere Super VHS e i palestinesi diventano anche cameramen, perché i luoghi di guerra sono troppo pericolosi per i giornalisti esteri. Si forma così una tradizione di esperti operatori palestinesi che lavorano sui campi difficili delle battaglie. La storia dei cameraman palestinesi è anche una storia di martiri: dal pioniere Hani Johariya, assassinato mentre filmava un’azione in libano nel 1976, al cameraman della Reuters Mazen Dana, ucciso dai soldati americani nel 2003, mentre faceva delle riprese di fronte alla prigione di Abu Ghraib in Iraq.
All’Intifada seguono gli accordi di Oslo, che dovevano garantire un certo grado di autonomia ai palestinesi della Cisgiordania e della striscia di Gaza: nasce così nel 1994 l’Autorità Nazionale Palestinese, presieduta da Arafat. Ma il cinema palestinese si muove ancora prima nei suoi territori. Nel 1992, nella parte araba di Gerusalemme, si organizza la prima rassegna di cinema dedicata ai film palestinesi: partecipano 32 film prodotti dal 1980 in poi. Per la cinematografia palestinese inizia la stagione dei film documentari che riprendono la vita giornaliera della società civile palestinese, facendo emergere l’identità di un popolo tramite racconti di esperienze private. Nasce una nuova generazione di cineasti che si occupa di documentare la vita in Palestina. Nel 2000 scoppia la seconda Intifada, la vita per i palestinesi si fa ancora più ardua e il compito di molti documentaristi è ora quello di raccontare divisioni, distruzioni, morti, tragedie senza fine. Nel 2003 Israele finisce di costruire il muro dell’Apartheid, con l’obbiettivo di annettersi terra palestinese; continuano, intanto, a crescere e ad espandersi gli insediamenti dei coloni ebrei nei Territori occupati palestinesi, e in questa tragica situazione sociale per la popolazione palestinese, sono tanti i documentaristi che si occupano dei drammi familiari, fatti molte volte di separazioni, di violenze, di lutti.
Dal „ritorno a casa“ di questo quarto periodo, cioè dal 1980 ad oggi (all’operazione “Piombo Fuso”, il bombardamento della striscia di Gaza del dicembre 2008 – gennaio 2009), le terribili vicende del popolo palestinese della Diaspora, di Israele, di Gaza, della Cisgiordania, con tante, differenti storie, sono state raccontate nei film di Michel Kheifi (notevole il suo Route 181, in collaborazione con il regista israeliano Eyal Sivan, girato lungo la linea di spartizione della Palestina prevista, e mai messa in atto, dalla Risoluzione numero 181 dell’Onu), Mai Masri (si è occupata dei bambini del campo profughi di Shatila a Beirut con Children of Shatila), Subhi al-Zubeidi (racconta dell’occupazione quotidiana in Crossing Kalandia, una sorta di video giornale girato tra maggio 2001 e agosto 2002 nel famoso check point di Ramallah durante un anno di Intifada), Nizzar Hassan (con Independence, del 1994, mette l’accento sull’umiliazione subita dai palestinesi cittadini d’Israele che devono festeggiare il giorno della cosiddetta “Indipendenza”), Norma Marcos (nel 1994 ha dipinto, nel documentario Speranza velata, degli splendidi ritratti di donne impegnate a ricostruire l’identità culturale palestinese), Liana Badr (scrittrice oltre che regista, ha diretto Fadwa nel 1999, una bella intervista alla grande poetessa Fadwa Tuqan), Saed Andoni (montatore di professione, ha diretto alcuni interessanti documentari, tra cui Number Zero, girato nel salone di un barbiere a Betlemme nel 2001 durante l’invasione israeliana), Rashid Masharawi (nutrita la sua filmografia, da citare le sue fiction Curfew del 1993, Haifa del 1995 e Ticket to Jerusalem del 2002. Nel 1998 gira il documentario Tension, dove mostra il senso palpabile di tensione giornaliero e le continue umiliazioni che ricevono i palestinesi durante il periodo del “processo di pace”), Abed a-Salam Shehada (gira Little Hands, sul lavoro minorile a Gaza del 1995 e il toccante Debris sull’espropriazione della terra, del 2002), Elia Suleiman (nato a Nazaret, uno dei più importanti registi palestinesi, diventato famoso con i suoi film di fiction come Cronaca di una sparizione e Intervento divino, ha girato nel 1998 il documentario sperimentale Arab Dream, diario di un viaggio personale tra Gerusalemme, Nazaret e Ramallah in mezzo alle ingiustizie quotidiane), Tawfik Abu Wael (giovane arabo di cittadinanza israeliana, laureato a Tel Aviv, si è occupato di Gerusalemme Est in Waiting for Saladin, un documentario che racconta le vite dei residente palestinesi sotto occupazione e senza diritti), Hani Abu-Assad (altro regista di Nazaret diventato famoso grazie a Paradise Now del 2004, ha girato il documentario Nazareth 2000 prima del nuovo millennio, dove narra delle tensioni create dalla disparità tra musulmani e le istituzioni della minoranza cristiana che possiedono la maggior parte delle terre), Muhammad Bakri (famoso attore di teatro e di cinema votato al documentario. Nel 1998 inizia l’attività da regista girando 1948, interviste ad anziani palestinesi deportati brutalmente dagli israeliani durante la Nakba. Alcuni giorni dopo l’attacco e l’invasione del campo profughi di Jenin dei carri armati israeliani, ad aprile del 2001, Bakri si reca tra le macerie non per documentare passivamente gli eventi, ma per descrivere le emozioni degli abitanti e il loro spirito di resistenza e di eroismo. Odiato dagli israeliani, Jenin Jenin è stato il documentario più censurato della storia della cinematografia palestinese da parte di Israele) ed infine Osama Qashoo (ha diretto un toccante My Dear Olive Tree nel 2004 sullo sradicamento degli ulivi e il divertente diario, girato a Cuba, Soy palestino nel 2007). Questo era giusto un elenco sommario di registi palestinesi, e delle loro opere più importanti, che hanno documentato gli ultimi trent’anni di storia palestinese.
Accanto a questi nomi, ci sono tanti altri giovani registi e registe palestinesi che si sono dedicati al documentario. La maggior parte dei film di questi registi vengono prodotti nei Territori palestinesi con budget molto bassi, e tra mille difficoltà; diverse sono invece le produzioni estere: molte europee, alcune di qualche paese arabo e di Israele. Ma tanti sono anche i filmati girati in Palestina, o nei luoghi della Diaspora (Libano, Siria, Iraq, Giordania, Europa, Usa, etc.), prodotti all’estero, diretti da registi non palestinesi.
La storia della cinematografia in Palestina e nei paesi della Diaspora è fatta in buona parte da registi non palestinesi impegnati politicamente. Da Jean Luc Godard, una delle figure più importanti del cinema internazionale, che nel 1968 arriva in Giordania, nelle basi palestinesi, e collabora con Mustafa Abu-Ali e Hani Johariya (il materiale girato verrà da utilizzato dal regista francese in Ici et ailleurs del 1970), ai registi giapponesi Masao Adachi e Koji Wakamatsu, che nel 1971 in Libano entrano in contatto con i leaders del Fronte Popolare, tra cui Ghassan Kanafani e Leila Khaled (da questa collaborazione nasce il loro film, pietra miliare della cinematografia militante The Red Army /PFLP: Declaration of World War), al regista olandese Johan van der Keuken, che documenta nel 1975 gli effetti dei bombardamenti sui villaggi del sud del Libano da parte degli israeliani (il film I palestinesi era stato commissionato da un “Comitato Palestina” olandese), all’attrice e attivista Vanessa Redgrave (finanziò il film The Palestinian, premiato nel 1977 al London Film Festival), alla regista tedesca, residente a Roma da diverso tempo, Monica Maurer, figura storica della cinematografia documentaria palestinese (tra i suoi documentari, premiati in molte rassegne, molto significativi Why? del 1982, film testimonianza sull’assedio di Beirut, e Palestina in fiamme del 1988).
Per arrivare infine ai giorni nostri, al film, di produzione franco-palestinese, di Samir Abdallah e Kheridine Farouk Gaza…Strophe, che riporta le testimonianze della popolazione civile colpita dalla operazione israeliana “Piombo fuso”.
Grazie all’impegno di questi registi, che hanno fatto da apripista per tantissimi altri, cineasti e giornalisti, nel documentare e denunciare la situazione nei Territori occupati palestinesi e nei paesi della Diaspora, oggi siamo in grado di conoscere e valutare meglio la “questione palestinese”.
Abbiamo visto che il cinema documentario in Palestina si occupa obbligatoriamente di diritti dell’uomo, si occupa naturalmente di guerre coloniali e si occupa indiscutibilmente di razzismo: per questo motivo la cinematografia palestinese sta diventando sempre più popolare nel Medio oriente e sta acquistando sempre più prestigio e importanza internazionale.
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ISSN:2037-0857