Marx e l’alchimia
LUCIANO PARINETTO
Intervista con Carlo Amore
Con Faust e Marx. Metafore alchemiche e critica dell’economia politica. Satura inconclusiva non scientifica (Luciano Pellicani editore 1989; nuova edizione: Mimesis, Milano 2004), Luciano Parinetto tende a effettuare una doppia operazione: da una parte una rivisitazione della lunga tradizione del sapere alchemico che rompe sia con generici “esoterismi”, sia con il pregiudizio storicista che riconosce nell’alchimia il ruolo di “mezzana” tra la chimica come scienza normale e i saperi premoderni; dall’altro, una lettura coerente di modelli e metafore di chiara impronta alchemica nell’opera marxiana.
Come si motiva questo tipo di impostazione del tuo libro?
È ben noto che chi sia completamente inserito in una totalità (e soprattutto in una totalità alienata, come è il caso di quella che va sotto il nome di capitale) è ben difficile che trovi il punto archimedeo sul quale far leva per poter iniziare a considerarla criticamente, proprio perché ogni posizione assunta rischia di risultare interna e coerente a quella totalità. Nel caso dei mio ultimo libro, l’alchimia rappresenta dunque un possibile punto archimedeo, trattandosi appunto di una visuale talmente remota dal capitale che, non solo esso la disconosce in quanto sapere, ma le oppone polemicamente le proprie scienze, ancorate al quantitativo, castrate dell’immaginario. Il confronto dunque col sapere dell’alchimia può permettere di porre un piede fuori dalla totalità alienata del capitale, mettendo in contrasto due concezioni dell’uomo e della natura completamente altre.
Che l’alchimia rappresenti un sapere arcaico rispetto a quello del capitale non fa problema: Marx stesso ricorda che la rivoluzione di Cromwell ricorse ai fantasmi di Abacuc e quella francese a quelli delle poleis greche e della repubblica romana per progettare l’istituzione di un regime diverso come quello borghese. Non dovrebbe dunque meravigliare che, in un momento storico in cui non si può dire che l’autocoscienza proletaria sia limpida a se stessa (e dunque possa prescindere dalle ideologie), l’ideologia dell’alchimia possa incaricarsi di stimolarla, almeno in parte, con le sue imagines, trasmutandosi in utopia che, almeno in parte, può sovrapporsi a quella marxiana, evidenziandola coi suoi colori.
D’altra parte, è lo stesso Marx che rimette in gioco il discorso sull’alchimia, servendosene in metafore che lo aiutano a illuminare l’alienazione dell’economia politica dei capitale, ma anche a sottolineare la pietra filosofale del non-ancora-potere del proletariato. Che un ritorno all’antico possa costituire, nella storia, un superamento non retrovolto (nonostante le apparenze) del presente, gli storici lo sanno molto bene. Certo, l’utopia di cui tratto forse rappresenta la presentificazione di strati di possibilità che, al tempo del fulgore dell’alchimia, permanevano potenziali e che solo oggi si evidenziano, rappresentando un blochiano esempio di non-ancora nel passato. Forse per questo una simile lettura potrà piacere poco ai tradizionalisti. Ritengo tuttavia che la trama utopica che nell’alchimia ho individuata (e cui è stato dedicato un secondo libro, Alchimia e utopia) non sia facilmente smentibile.
Lo stesso titolo del tuo libro sembra motteggiare una formula magica. Una spiegazione di esso (compreso il sottotitolo) puo introdurre direttamente al tipo di ricerca svolto…
Occorre non dimenticare che il nucleo originario di questo mio testo risale alla fine degli anni ’70, quando l’alchimia non era alla moda come oggi. E il suo titolo, come tu dici, era Rebisfragmento: cioè frammenti concernenti il Rebis, categoria principe dei testi alchemici, anche figurativamente dialetticissima, perché rappresenta un maschio/ femmina, cioè l’Aufhebung e del maschile e del femminile. Siccome si trattava di frammenti, ne era uscito il titolo misterioso di Rebisfragmenta.
Passando dal dattiloscritto alla stampa, si è preferito il titolo Faust e Marx meno ostico, ma non meno rappresentativo del contenuto, perché la figura di Faust (cara a Lessing, a Goethe e a Thomas Mann) à la condensazione della tradizione alchemica occidentale (e, infatti, Goethe si era ispirato, per il suo Faust, soprattutto a Paracelso, oltre che all’Aurea catena Homeri, un ben noto testo alchemico), intesa soprattutto nella grande prospettiva dei dialettico rapporto uomo/natura (oggi spaventevolmente deteriorato, anche a causa della chimica, che, tra l’altro, non è l’erede dell’alchimia!). Un confronto, su questo tema, con Marx, mette in luce non solo la sostanziale consonanza (per mediazione goethiana) della concezione marxiana della natura con quella alchemica, ma permette anche di individuare, nell’alienazione economico/politica la causa principale dell’attuale catastrofe nei rapporti uomo/natura.
Il Marx che qui si confronta agli alchimisti è quello che i “chimici” della politica hanno da tempo confinato in solaio (assieme alle analisi critiche della mortuaria efficacia dei capitale, che, per non essere più da loro nominato, non per questo risulta meno operante e micidiale, sia in paesi dove vige la proprietà privata, che in quelli dove il capitalismo è di stato, ma capitalismo rimane). Si tratta dunque di un Marx volutamente inattuale, che, proprio per questo, forse, ha, come un vecchio alchimista, ancora qualche cosa da dire a chi non sia intossicato dai “chimici” della politica, che stanno pertanto il mondo al dies iræ.
Il suo uomo diverso e diseguale riserva, poi, forse ancora un messaggio (all’interno della società dei consumi, in cui sopravvivono non-uomini omologati) agli emarginati, ai non integrati, ai diversi (se ancora ve ne sono), che, simili anch’essi agli alchimisti, non venerano ciò che è dato, ma la trasmutazione. È dunque con profonda ironia che l’alchimia viene qui incaricata di dire ai contemporanei ciò che essi, immersi nell’accecante consumismo, rischiano di non vedere, cioè che la fine dei mondo si avvicina, se non si cambia radicalmente rotta; Marx, a sua volta, parlerebbe della rovina di ambo le classi in lotta, che dà luogo all’irreparabile disfacimento. Quanto ai sottotitoli dei libro, il primo (Metafore alchemiche e critica dell’economia politica) riguarda effettivamente una parte dei lavoro, dove si indaga sul perché di tante metafore, che si richiamano all’alchimia, nei testi marxiani: e non si tratta solo di metafore ironiche (come quelle che investono criticamente l’economia del capitale e, appunto, l’alambicco della circolazione) perché, come ho detto, pietra filosofale, per Marx, è anche il non-potere, utopicamente aperto sul futuro, del proletariato parigino, dopo la rivoluzione del ’48, la cui sfingea apparenza riemergerà più tardi, e con quale forza, nella Commune. Ma, poi, il materialismo, l’articolazione dialettica, il compito che l’alchimia si propone, di rinnovare uomo e natura, da essa considerati, come da Marx, in una inscindibile interdipendenza, sono tutte tematiche che, seppure in contesto diverso, si ritrovano in Marx, permettendo quel cortocircuito Marx-alchimia che il libro si propone di illustrare.
Anche l’opposizione di alchimia e scienza contemporanea (rappresentato qui soprattutto dalla fisica e dalla chimica), che nel libro si ritrova, non è certo un invito al retrovolgimento della scienza verso un’utopia confinata in un passato pre-scientifico; vuole invece essere, con vigore polemico e con provocazione, un memento che sottolinei i pericoli dell’abbandono, che si è operato o partire dalla nuova scienza, della prospettiva qualitativa della natura e dell’uomo. Ernst Bloch ha benissimo osservato che «deve esistere qualcosa che ( … ) corrisponda alla scienza naturale matematico-quantitativa e matematico-funzionale, giacché, in caso contrario, non si sarebbe in grado di volare sulla luna, né si sarebbe potuto risistemare il mondo come è avvenuto negli ultimi decenni». Ma, «ammesso che un settore della natura corrisponda alla matematica scienza della natura, si tratta solo di un settore e non dell’intero cerchio»! Se il confronto coll’alchimia giovasse anche solo a stabilire che l’attuale scienza della natura è puramente una parte che vuole valere per il tutto (e che questa è la sua maggiore alienazione), già sarebbe un bel raggiungimento. Il fatto che gli scienziati (come diceva, in un suo libro su Berkeley, Mario Manlio Rossi) pretendano di monopolizzare la verità, perché «riescono a farci saltare in aria» non è ragionamento molto accettabile perché, «per il filosofo, questo è una risposta insoddisfacente al problema della natura della realtà».
L’alchimia, in quanto primariamente interessata al qualitativo, serve dunque, nel mio testo, a lumeggiare i limiti di una visione parziale della natura, che, tra l’altro, nella prassi, sta portando, sotto gli occhi di tutti, il mondo alla rovina. Cernobyl non è facile da dimenticare; così il buco dell’ozono; casi la sparizione del lago d’Aral ed altri innumerevoli episodi che sottolineano l’attuale stato di agonia che è stato procurato alla natura e all’uomo che in essa si trova a vivere. Che questa agonia non sia sganciata dalla prospettiva dell’incremento e dello sviluppo, anche mediante la scienza, del capitale, pare ovvio; ed è dunque giustificabile anche la sovrapposizione, a questo punto, di tematiche alchemiche e di tetiche marxiane.
Quanto al secondo sottotitolo (Satura inconclusiva non scientifica), esso allude a quello che Bachtin ha nominato stile menippeo/carnascialesco, che affiora in tutto il lavoro ed è portatore delle invettive più crude contro tale situazione politico/sociale, sottolineandone la dimensione anche ironica. Ovvia anche la citazione deformante, in questo sottotitolo, dei titolo di una ben opera kierkegaardiana, con la quale, credo, Faust e Marx abbia tuttavia in comune solo l’apertura con un esergo platonico, comunque proveniente da contesti simili. Il termine inconclusiva non è poi solo il rovescio di un termine kierkegaardiano, ma riguarda il carattere frammentario del testo, che, anche per questo, si vuole non dogmatico. “Non scientifica” è espressione che ironicamente allude all’alchimia, che il testo esclude dall’orizzonte di un sapere che, in qualche modo, avrebbe introdotto alla nuova scienza, e che, anzi, contrappone alla scienza contemporanea, con evidente intento polemico, proprio per lumeggisarne alienazioni e pericoli.
In che misura ti senti affine all’impostazione dell’archeologia foucaultiana? “Corpo” e “rivoluzione” sono i due poli che mi sembrano rendere sovrapponibili certe tue tematiche alla ricerca più tarda di Foucault e in qualche occasione hai anche sottolineato la vicinanza del tuo approccio o quello di Deleuze e Guattari. In che misura ritieni motivati questi accostamenti?
Ne Le parole e le cose Foucault afferma che «al livello profondo del sapere occidentale, il marxismo non ha introdotto alcun taglio reale; figura piena, tranquilla, confortevole, e, in fede mia, soddisfacente per un certo periodo (il suo), si è situato senza difficoltà all’interno d’una disposizione epistemologica che lo ha accolto con favore (essendo essa, appunto, che gli faceva posto) e che esso a sua volta non aveva né l’intento di turbare, né soprattutto il potere di alterare, fosse pure di un pollice, dal momento che poggiava interamente su di esso. Il marxismo è nel pensiero dei XIX secolo come un pesce nell’acqua». Per lui, insomma, il marxismo si situa pacificamente all’interno dell’archeologia, fa da pendant all’economia borghese ed i loro eventuali contrasti non sono che «tempeste solo per vasche da bambini»! Almeno come l’ho letto io, Marx non ha nulla da condividere col marxismo quale lo delinea Foucault; e mai è stata più vera, a questo proposito, l’affermazione di Marx di non essere marxista.
È ben vero che, poi, Foucault (in Microfisica del potere) ha distinto la comunistologia (il modo dei partiti d’autorizzare una lettura per loro ortodossa di Marx) dal pensiero di Marx, senza il quale, secondo lui, «è impossibile fare storia oggi». Ed ha pure affermato (in una intervista raccolta in Dalle torture alle celle) che «fare della politica diversa da quella dei politicanti, è tentare di sapere con la maggiore onestà possibile se la rivoluzione è desiderabile. Significa esplorare quel terribile scavo di talpa su cui la politica rischia di traballare». Con questo Foucault devo dire che sono d’accordo. Forse non con quello che, nell’Archeologia del sapere, procede ad una opposizione fra storia delle idee (nella quale comprende, fra altre «filosofie umbratili che ingombrano le letterature», anche la storia dell’alchimia) e la propria nozione di archeologia: non mi pare sia il caso di soffermarmi qui su simile distinzione. La mio lettura dell’alchimia non si rifà, comunque, a quella opposizione, né d’altronde allo strutturalismo, col quale, del resto, lo stesso Foucault s’è mostrato non molto tenero. Di Foucault mi hanno invece non poco interessato singole analisi, delle quali, nel mio testo, è percepibile talvolta l’eco; e si tratta di cose, come dici, soprattutto appartenenti alla tarda ricerca foucaultiana.
Qualcosa di simile va detto anche per tematiche rinvenibili negli autori dell’Anti-Œdipe: sono singole loro prospettive che possono avermi sollecitato, ma tagliate fuori dal contesto teorico generale. L’accostamento di questi testi, nel mio libro, è tematico e non coinvolge necessariamente il loro contesto teorico.
Nell’opera sui Passages parigini, Benjamin avrebbe voluto procedere, come è noto, a un montaggio di pure citazioni, che avrebbero ricevuto télos e senso dal vicendevole loro accostamento. Non voglio dire che, in Faust e Marx, l’uso abbastanza massiccio delle citazioni vada nello stesso senso; va, invece, distinto, mi pare, in questo testo, l’uso della citazione come “autorità” destinato a dare attendibilità al discorso (con l’implicito rimando all’orizzonte teorico dell’autore citato), dall’uso tematico delle citazioni, che le raduna in una costellazione di per sé significativo, senza per questo coinvolgere la totalità dellà teoria degli autori richiamati. Direi che le citazioni di Foucault e degli autori dell’ Anti-Œdipe si riferiscono a questa seconda specificazione.
La tua interpretazione dell’alchimia ritorna sistematicamente alla tematica dello corporeità e dell’analità. Esso è connessa a una lettura eterodossa di Freud. Potresti esplicitare questo nodo?
Analità e corporeità avevano suscitato il mio interesse già in Corpo e rivoluzione in Marx, un libro del 1977. Si trattava, in quel testo, di scoprire in Marx, in accordo ai movimenti di liberazione di allora, tutta una riconsacrazione dei corporeo (Sinnlichkeit), che sicuramente era presente nel suo pensiero ed era aspetto essenziale del suo materialismo, ma che ben pochi avevano letto o sottolineato. Quella riscoperta mi pare ancor oggi merito indiscutibile di quel libro. L’analità non solo fa parte della corporeita, ma, della corporeità è, in situazione capitalistica (e nelle società che al capitale, che è una totalità, volenti o nolenti, si collegano) l’espressione più chiaramente repressa e rimossa: è la libido cui si connette l’energia più in grado, pare, quando è repressa/rmossa, di spiegare, per quanto concerne il profondo, certe alienazioni tipiche dei capitale. Vedo, a questo proposito, con piacere, che Baudrillard, per esempio, ancora oggi illustra il consumismo imperante ricorrendo, nei suoi libri, a categorie anali.
Da Freud in poi, le categorie della analità sono state largamente esplicate ed impiegate. Nel suo Psychoanalyse des Geldes (un’utile antologia di testi di Freud, Dattner, Ferenczi, Coriat, Jones, Abraham, Harnock, Reik, Desmonde, Ròheim, Posinski ed altri ancora, tutti sul rapporto denaro/analità) Ernst Bornemon chiarisce molto bene quel nesso e, tra l’altro, contrappone all’oralità della cultura feudale «il carattere anale che caratterizza la borghesia», riprendendo l’affermazione di un testo, del 1928, di Géza Ròheim, secondo il quale non v’era dubbio che «noi ci troviamo attualmente in una società anale».
Bornemon ricorda anche la novità (nel 1923!)costituita dal testo sulla Struttura psichica del capitalismo classico e dello spirito finanziario, in cui Oskar Pfister metteva, per la prima volta, in rilievo l’interpretazione del capitalismo come nevrosi ossessiva (e dunque regressione alla fase anale). Impostazione utilizzata anche nella versione primitiva dell’Analisi del carattere di Wilhelm Reich e tema centrale di Fuga dalla libertà di Erich Fromm (per non parlare degli sviluppi che questa impostazione avrà da Marcuse a Norman Brown).
«Siccome – scrive Borneman – viviamo ancor oggi nell’era boghese», la scala anale dei valori «ha marchiato del suo sigillo non solo la borghesia stessa, ma anche l’universo mentale dell’opposizione anti-borghese». Sicché la storia del socialismo reale, dello stalinismo, delle repubbliche popolari è interpretabile, a suo avviso, mediante le stesse categorie psicoanalitiche che smascherano il carattere anale della struttura e della cultura borghese. Se è così, è quanto mai interessante che, da una parte, Abraham parli del vampirismo di chi è affetto dalla nevrosi del danaro (cioè, di nuovo: fissazione o regressione alla fase oral/anale); dall’altra che Marx scriva del vampirismo del capitale. Ancor più rilevante che, in una lettera a Fliess (24 gennaio1897), dove Freud intrattiene il suo interlocutore sul danaro che il diavolo donava alle streghe e che diventava sempre merda, «trasmutandosi dunque nella sostanza da cui proviene, venga fatta allusione all’alchimista Cagliostro, definito cacaducati.
Qui fra Freud (psicoanalisi) e Marx (critica dell’economia politica) si inserisce precisamente l’alchimia! È una simile triplice sovrapposizione che – tra l’altro – ho cercato di evidenziare in Faust e Marx. Tenendo anche conto che, sempre secondo Borneman, «l’erotismo anale non inibito, non sublimato e non rimosso non ha posto alcuno nella nostra società borghese»; e sottolineando, d’altra parte, l’approccio non represso/ rimosso che l’alchimia ha con la merda, è stato dunque possibile anche opporre, in Faust e Marx, alla tematica della sovrapposizione analità rimossa/capitale, quella dell’alchimia/diversità/liberazione sessuale/rivoluzione.
Chiaro che, maneggiando simili categorie, vi sia anche il pericolo di cadere, come dice Foucault, in reichiate e in marcusate (con tutto il rispetto per il ruolo storico di quegli autori; d’altra parte mi sembra plausibile il tentativo di impiegare, magari su altri piani di indagine, categorie che non sempre anche i loro autori hanno coerentemente connesso alle loro teorie generali: si veda come la nozione di libido, per esempio, sia leggibile in maniere diverse, permettendo di porre fecondamente Freud contro Freud, come ho fatto in Corpo e rivoluzione.
Non molto diverso è il caso di Jung, mi pare: il primo che sia ricorso (dopo Silberer) ampiamente a categorie alchemiche per applicarle alla psicologia del profondo. Il suo ricorso all’alchimia è sicuramente suggestivo e intrigante; purtroppo mette da parte completamente l’aspetto materico di esso, senza il quale l’alchimia mi pare tradita nella suo complessità. Freud e i freudiani, da un lato, Jung dall’altro sono così erviti talvolta da buoni compagni di strada, quando il percorso del mio libro si muoveva in una certa direzione, ma sono stati abbandonati, come mi sembra giusto, quando il sentiero a Marx si discostava dal loro.
Il materialismo dell’alchimia, la sua concezione del nesso dialettico uomo/natura, la suo aspirazione prometeica ad un uomo nuovo, disalienato è, a mio avviso, quanto la può maggiormente avvicinare a Marx. Liberare l’uomo dai suoi condizionamenti alienati e alienanti, liberarlo anche nella corporeita e nella materialità (oggi quanto mai prigioniere di scienze, tecniche e capitale) era uno dei compiti dell’alchimia; accanto all’utopia della pietra filosofale essa poneva infatti quella dell’elisir di vita, intenzionando un uomo integro anche nella Sinnlichkeit. Non è un caso, poi, che il termine trasmutazione sia incastonato, nei testi alchemici, in una rosa di termini (fra i quali spicca quello di alienazione) dialettici, sicché esso si presenta come uno dei più vicini e suggestivi precursori dei termine Aufhebung. L’alchimia è, cioè, anche un sapere dialettico; nello stesso tempo, per essa, il materico è qualcosa di fondante ed è proprio da esso che la sua dialettica ha origine: perciò si tratta di un sapere più vicino a Marx che non a Hegel (di cui, peraltro, si conosce la simpatia per l’alchimista Böhme!). Per essa, la materia della pietra è ricopertoa di escrementi: si tratta, per rinvenirla, di operare dunque obsque repugnantia, avendo cioè tolto di mezzo, in fin dei conti, la rimozione dell’anale (e dunque dell’escremenziale). Solo togliendo quella rimozione,per essa, si può giungere all’oro, che non è, tuttavia, aurum vulgi. L’oro del possesso freudianamente è merda rimossa e simbolicamente traslata; l’oro dell’alchimia è raggiunto, invece, se si sa che esso si colloca originariamente nella merda.
Quando Marx ricorre, nelle sue opere di critica dell’economia politica, anche a metafore anali, per illustrare la propria teoria che ha un piede fuori della totalità alienata del capitale, è dunque in posizione analoga a quella degli alchimisti, anche se ovviamente i rispettivi contesti sono specificamente diversi e talvolta paiono lontanissimi. La tematica di Corpo e rivoluzione in Marx è dunque ribadita in Faust e Marx, anche se gli anni passati hanno certamente influito sulia presentazione più distanziata dei discorso e se l’immissione della tematica alchemica apre, ritengo, prospettive sicuramente nuove e più originali. Intorno a Corpo e rivoluzione in Marx è stato fatto, a suo tempo, il vuoto. Ciò potrebbe accadere anche per Faust e Marx (anche se ovviamente mi auguro il contrario): ma se i temi che queste opere agitano sono essenziali, ila loro cancellazione certo non sara di giovamento a nessuno di chi voglia prevedere l’exodos del capitale.
Pur muovendoti con lo scrupolo filologico dello storico, nei tuoi scritti mantieni un chiaro intento di critica dei presente; come opera la ricerca da te svolta sull’alchimia nel potenziarne gli strumenti?
Anche uno storico, penso, non può tirarsi su coi propri capelli dal presente nel quale vive, con la pretesa di essere “oggettivo”. Anzi, sono del parere che ogni momento del passato, che si decide di indagare, è profondamente coinvolto nel presente perché è appunto un interesse del presente individuare un passato piuttosto che un altro, avendo, tra l’altro nell’oggi nuovi stimoli e strumenti per leggere questo passato piuttosto che quello, sicché, nella pluristraticità, per esempio, della storia della stregoneria, si individua uno strato che emerge proprio perché investito da un interesse che è solo attuale. Si potrebbe quindi sostenere, non che la storia è soggettiva, ma che ciascun periodo storico (e la personalità sempre diversa che in esso si trova collocata) ha un suo irripetibile modo di essere contattato dal presente, sicché, quando si tratta di capire il passato (che è anche un modo per capire il presente), è assurdo mettere fra parentesi il presente, visto che è proprio esso che permette di proiettare fasci di luce nuova su angoli bui e inesplorati di ciò che è accaduto, facendoli emergere.
Ovvio, dunque, che la mia rilettura dell’alchimia sia stata sollecitata dall’oggi: viviamo fra rifiuti e polluzioni mortiferi, in una natura in agonia, la morte ecologica e nucleare incombono angosciosamente in una società talmente alienata che in esso perfino la morte per droga pare preferibile al sonnambulismo di un vivere privo di qualità e di télos; meraviglia che, in simile situazione, la concezione alchemica della natura, qualitativa, che prevede non la violenza ma la collaborazione fra uomo e elementi naturali, in vista del rinnovamento anche dell’uomo, oltre che della materia, si presti suggestivamente (ma anche senza ironia) a permettere un punto di vista altro rispetto al solito (e francamente ormai noioso) elogio delle magnifiche sorti e progressive della società de capitale (e della scienza che in esso si dispiega), che ormai portano il mondo al dies iræ?
Per vedere al completo un panorama occorre arretrare, perché solo questo passo indietro permette la prospettiva. Il ritorno all’alchimia è quanto ha reso possibile, in questo caso, una visuale dal di fuori della totalità alienata in cui viviamo.
Ovviamente si tratta di alchimia sui generis, perché inestricabilmente connessa alla tematica marxiana e all’utopia, come si può vedere anche nel secondo testo che ho recentemente pubblicato che ha per titolo, appunto, Alchimia e utopia. È noto come i riformatori del cristianesimo, per investirne criticamente la realtà alienata, lo confrontassero con un cristianesimo “primitivo”, che tuttavia era tutt’altro che archeologico, bensì utopico, perché in esso venivano proiettate le aspirazioni al mutamento in avanti di quei riformatori. Si tratta di un tipico proteron hysteron storiografico! Così a me l’alchimia è stata utile a prospettare un investimento critico della società di oggi, basato sul quantitativo e su una falsa logica (Begriffslos, direbbe Marx!), unitamente a Marx, anch’egli dai più considerato archeologico, ma che, a parer mio, dal futuro illumina l’odierna situazione di alienazione. Basterebbe pensare al suo concetto di uomo onnilaterale, diverso per definizione; alla critica globale del capitale, che è una critica del quantitativo che sopraffà il qualitativo, diventando qualità alienata e mortifera. Per non dire della sua radicale critica del politico…
È paradossale (ma ahimè vero) che, per ironia, non un qualsiasi punto di vista del pensiero contemporaneo, ma l'”arcaica” alchimia si sia prestata a sottolineare suggestivamente aspetti del discorso marxiano ignorato o trascurato o sommerso. Si tratta della sovrapposizione – tra l’altro – di aspetti che qualcuno potrebbe anche definire spregevolmente “profetici”, ma non vedo come, alla vigilia di una probabile fine del mondo, si possa considerare con disprezzo il profetismo o, peggio ancora, l’utopia! Forse perché non agganciati – in questo caso – ad un tradizionale ambito religioso?
Ma il capitale ha ormai divorato le religioni (nonostante gli fossero, in parte, stampella) e solo il lascito umano di esse (la denuncia profetica, la previsione apocalittica, l’improperio escatologico), quando diviene strumento di opposizione, conserva un qualche valore, sempre che sia collegato a ciò che Marx nomina critica dell’economia politica e a tutto il contesto teorico/pratico che la rende possibile: cioè a ciò che un tempo si sarebbe chiamato un punto di vista di classe, col quale mi sono impegnato, credo, a rileggere – assieme a Marx – l’alchimia.
[Testo tratto da “Marx e l’alchimia: per una lettura non convenzionale. Intervista a Luciano Parinetto a cura di Carlo Amore”, La Balena bianca, anno I, numero 1 (settembre 1990), pp. 63-68].
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 23, issue no. 33, february 2016
issn: 2037-0857
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