philosophy and social criticism

Alchimia e dialettica

di Luciano Parinetto

«Per la verità, non mi sono ancora ben rimesso in salute. Ed e ancora qui, nelle mie stanze, il manoscritto che le sta a cuore: perché non dovrei inviarglielo? Che sta a fare questo libro nelle mie stanze? Lo dica? Ella sa che J.V. Andreä fu ritenuto da molti il fondatore dei Rosacroce. Vorrei verificare se di questo sia ricavabile una traccia Nella sua vita. Ma se la sua Societas Christiana, anteriore al 1622, non ha dato luogo a questa diceria, allora non sono in grado di ricavare altrimenti alcuna traccia. Che, d’altronde, non tutti i suoi scritti debbano essere nella Biblioteca, non mi meraviglierei. Se appena potessi guardare un’altra volta nella Biblioteca, Desidero solo sapere che , cosa Le manca, per inviarglielo subito. Mi ricordo di aver visto, di suo, il Geistliche Kurzweil, il Christenburg ed il Kinderspiel».

In questa lettera di risposta ad Herder, che gli aveva chiesto notizie sull’esistenza di un’autobiografia di Andreä e sulla corrispondenza di lui col Brunswick, Lessing mostra di conoscere le opere del presunto fondatore della setta mistico-alchemica la quale, come è noto, influenzò, tra gli altri, il pensiero del giovane Descartes.

E non è strano, tenuto conto del fatto che, in quanto bibliotecario di Wolfenbüttel, non potevano sicuramente essergli sfuggiti i rapporti intercorsi, più di un secolo prima, fra Andreä e il signore feudale di Wolfenbüttel.

Ma non riuscì a sciogliere il mistero di Andreä: una ventina di giorni dopo aver scritto queste, righe ad Herder, Lessing, infatti, moriva.

L’arcano autore – che, come Lessing e Goethe, ci ha lasciato un Faust – probabilmente ha segnato col suo sigillo il pensiero lessinghiano, soprattutto quello dei Colloqui per massoni. Se si sfoglia, infatti, la sua opera alchimistica più nota, Chymiscbe Hochzeit (Nozze chimiche) del 1616, si trova indubbiamente in essa una traccia, non labile, della coppia dialettica Trennung-Vereinigung. E non è affatto un caso, perché l’antico nome della scienza pratico-mistica, antenata della chimica, è appunto quello di arte spagirica, che, come spiega Robert Boyle, nel Chimico scettico (1661), tale fu denominata da Paracelso e dai suoi discepoli in un evidente collegamento all’etimologia greca dei termine, composto da σπάω (separare) e da άγείρω (riunire), esattissimo nel definire «la scienza che si occupa della scomposizione e della ricomposizione dei corpi».

Nelle Affinità elettive, da leggersi molto più con un occhio all’alchimia che non alla chimica (cosa che perfino,un Benjamin non ha fatto fino in fondo), Goethe, vale a dire l’ultimo degli alchimisti, ancora ricorda che i chimici venivano chiamati Scheidekünstler (artisti della separazione), ma subito aggiunge – efficacissimamente – che Das Vereinigen ist eine grössere Kunst (l’unificare è arte ben più grande). E con ciò strumenta sulle fondamentali categorie, originariamente alchimistiche, il riposto disegno dell’intero romanzo, in cui questi termini – e non certo casualmente – appaiono protagonisti.

Anzi, si potrebbe forse considerare alla stregua di un’occulta citazione di Andreä (meglio conosciuto sotto lo pseudonimo di Christian Rosencreutz) la definizione, che in quel romanzo si trova, del rapporto – non certo chimico, ma più , che mai alchimistico – fra i quattro elementi, nel quale «das Verwandtsein, dieses Verlassen, dieses Vereinigen gleichsam übers Kreuz, wirklich darstellen kann» (effettualmente possono essere rappresentate per così dire sulla croce l’affinità, queste separazioni e queste unificazioni).

L’influenza pietistico-alchemico-rosacrociana su Goethe è abbastanza nota e testimoniata, in prima persona, in Poesia e verità; ma giova pur sempre ricordare come uno dei concetti goethianamente più suggestivi e misteriosi, quello eminentemente dialettico del demonico, il quale, come si legge in Poesia e verità, si manifesta «solo in contraddizioni», è specialmente caratterizzato dal fatto che si tratta di un incrocio che, pressoché alchimisticamente, separa e congiunge, sicché, almeno come è esemplificato politicamente nell’Egmont, dalle opposizioni nasce, dialetticamente, per mediazione, una terza cosa.

In alcune plaghe della storia della filosofia moderna, l’influenza occulta dell’alchimia non è meno importante. Si pensi a Descartes.

Ma anche Spinoza ebbe curiosità alchimistiche e si interessò alle trasmutazioni del nitro.

Né e,da trascurare il misterioso accenno hegeliano, ne La filosofia del diritto, alla rosa nella croce; d’altra parte complicato da influenze gnostico-teosofiche, di provenienza schilleriana, nella Fenomenologia.

Simili fonti hegeliane risulterebbero ancora più strabilianti se si riuscisse a confortare di prove storiche una indubbiamente suggestiva interpretazione etimologica del più misterioso e potente elemento-simbolo dell’alchimia: l’Alkahest.

Il chimico scettico Boyle ne provava ancora un reverenziale rispetto, se giungeva ad asserire che, se era vero quanto in proposito affermava Paracelso, riteneva « l‘Alkahest un segreto più importante e più desiderabile della stessa pietra filosofale».

E predicato essenziale dell’Alkahest è quello di essere il «reagente universale», e di avere il potere di scomporre tutto: qualità estremamente dialettica e suggestivamente precorritrice della molla stessa dell’universo hegeliano, se si accede all’etimologia che, tra le altre, ne dava, a metà dei ‘700, l’alchimista Kunkel, derivandolo dal tedesco AllGeist (tutto-spirito).

Il Geist hegeliano, che tutto separa e scompone per tutto riunificare in seno alla diveniente totalità autocomprendentesi, forse avrebbe dunque per non lontano antenato quell’Alkahest che, invano, l’alchimista Glauber tentava di ottenere alcalinizzando il salnitro.

Che l’Alkabest, del resto, fosse di casa nell’epoca e nel paese dello Sturm und Drang e del romanticismo lo dimostra la sua riemersione nel novalisiano I discepoli di Sais, dove sta scritto: «Si direbbe che un alkahest sia diffuso sui sensi degli umani».

Tornando alla Cbymische Hochzeit di Andreä-Rosencreutz, non e certo un caso che la coppia dialettica Trennung-Vereinigung vi campeggi: e proprio, infatti, attraverso questa sistole-diastole alchemica che, nelle sette giornate di cui e composta l’opera, si vanno attuando le sette fasi della preparazione della pietra filosofale; tutta una serie di separazioni-unificazioni che danno luogo alla finale suprema unificazione, simboleggiata, appunto dalle nozze regali.

So wir noch leben/So wird Gott geben/Dass wir die Lieb und gross Huldschafft/Sie theilet hat mit grosser Kraft/Also wir auch durch Liebs Flamm/Mit Glück sie wider bringen zusamm (Siccome ancora siamo al mondo/allora Iddio provvederà a/che noi e l’amore e la grande grazia divina/ch’egli ha ripartito con potenza grande/anche noi con fiamma d’amore/felicemente di nuovo le possiamo riunire).

Oltre che nella citata poesiuola, sinonimi dei termini Trennung-Vereinigung pullulano in tutta l’opera di Andreä.

In questo mistico romanzo alchimistico ogni operazione e simbolicamente evocata, sicché gli elementi alchemici diventano figure e personaggi di una fenomenologica metafora che racconta fatti e storie che li riguardano. Fatti e storie che possono assumere una loro autonomia ed essere letti anche indipendentemente da quanto si incaricano di indicare-celare.

In questa prospettiva – certo parziale – il testo assume anche una dimensione che può essere definita, in senso lato, politica. E senza andare contro le intenzioni dell’autore che, certo non a caso, tradusse in tedesco una scelta di cinquanta poesie di Campanella e scrisse testi utopistici che alla Città del sole e all’Utopia di Moro si richiamano evidentemente: Il cittadino cristiano e la Christianopolis del 1619; senza contare testi già significativi nel titolo, quali La riforma del mondo intero e la Gloria della fraternità e confessione dei fratelli della rosa-croce del 1614.

Qualora si consideri la Cbymische Hochzeit in prospettiva politica e profetico-utopica, non mancheranno le suggestive sorprese.

In una delle poesiuole della prima giornata, per esempio, si può leggere: «Ein frölích zeit die soll bald kommen / Darin einer wírt dem andern gleich / Keiner wirt sein arm oder reich / Wem viel befholen / Muss viel holen / Dem viel vertraut / Dem gehts and’ haut/ Darumb so last euer grosse klag / Was ists umb etlich wenig tag (Un tempo lieto deve giungere presto / in cui l’uno all’altro diverrà eguale / non vi sarà più alcuno povero o ricco / Colui al quale molto si è comandato / Molto dovrà prendere / Colui al quale molto si è affidato / renderà conto / con la propria pelle/Smettete dunque il vostro gran lamento/Mancano ancora solo pochi giorni)».

A questa profezia, che rivoluzionaria mente annuncia il dies iræ per la società in cui alligna la diseguaglianza sociale, è anche collegabile la lugubre, malaugurosa cerimonia della decapitazione dei re, che è certo una metafora della Trennung alchemica degli elementi, la mors regulorum (come dice una nota a margine) in vista della loro Vereinigung (coniunctio) finale, ma richiama e profetizza irresistibilmente ben altrimenti non metaforiche, reali morti regali (da Carlo Stuart a Luigi Capeto), che stavano per essere rappresentate sulla scena della storia, perfino nell’impressionante particolare della decapitazione del decapitatore (Robespierre?).

I re – racconta il testo della IV Dies dell’opera di Andreä – non appena squillata una piccola campana «immediatamente svestirono le loro bianche vesti e vestirono vesti totalmente nere; anche l’intera sala fu rivestita di nero velluto, di nero velluto fu ricoperto il suolo (…) Noi pure indossammo nere cotte; la nostra presidentessa, che era appena uscita, ritornò con sei nere bende di taffetà, con le quali bendò gli occhi alle sei persone regali. Quando esse non poterono più vedere, dagli inservienti furono portate alla svelta nella sala e poste a terra sei bare ricoperte; venne anche posato nel mezzo un basso nero ceppo. Infine entrò nella sala un uomo gigantesco, nero come il carbone, che recava in mano una scure affilata. Venne per primo posto sul ceppo il vecchio re e gli fu rapidamente tagliata la testa e avvolta in un nero panno. Ma il sangue fu raccolto in un grande aureo boccale, che fu posto vicino a lui nella bara, la quale venne rinchiusa e messa da parte. Così accadde anche agli altri (…) Non appena le sei persone furono decapitate, l’uomo nero ritornò fuori, ma fu seguito da un altro che, a sua volta, lo decapitò davanti alla porta e portò con se, assieme al capo, la scure, che fu deposta in una piccola cassa. Furono davvero nozze di sangue».

La narrazione è prospettata in un allestimento scenico funesto e cerimoniale che – da una parte – pare letterariamente preludere ai fasti orrorosi del futuro romanzo nero, e – dall’altra – ha l’aspetto della previsione del fatto culminante di molte imminenti (ma anche lontane) rivoluzioni borghesi, che avranno appunto come apice liturgico proprio il sacrificio della decapitazione regale.

Il fasto mortuario della metafora dell’alchimistico caput mortuum potrebbe costituire il suggestivo veicolo dell’autoadempimento di una profezia. Non si disse che proprio la massoneria (in cui erano, nel frattempo, confluiti i rosacroce) aveva giurato la morte del Capeto?

Risulta proprio così bizzarro- a questo punto – il debutto del poi giacobino Förster come rosacroce?

È solo e semplicemente un caso che nelle Ansichten vom Niederrhein etc. (1791/1794) Förster citasse Nathan der Weise e i Colloqui per massoni di Lessing e che nel suo scritto più giacobino, i Parisische Umrisse (1793-1794) invocasse – in piena rivoluzione francese -di nuovo richiamandosi direttamente alla fine del secondo dei Colloqui lessinghiani, l’avvento dei massoni al di sopra dei pregiudizi nazionalistici?

Nella lessinghiana Educazione del genere umano non e proprio rinvenibile alcuna influenza dell’alchimia rosacrociana? Non parlavano i rosacroce del cerchio dello spirito santo cui l’umanità sarebbe approdata non appena il genere umano si fosse unito in vincolo universale?

Non è collegabile questo tema a quello, lessinghiano, della terza età e a quello lessinghiano-massonico del superamento delle particolarità nazionalistiche in un unico stato universale?

È comunque un fatto che, quando – nel IV dei suoi Colloqui per massoni – Lessing giustifica l’utopico sogno ad occhi aperti, fra i sognatori accettabili pone anche gli alchimisti.

Per lui, anche dall’alchimia si può, ricavare dove va la vera via. Purché anche l’alchimia si ribalti nella prassi (come, del resto, era sempre stato suo programma): «Che sia realmente possibile far l’oro o che sia impossibile, per me fa lo stesso. Ma sono sicurissimo che uomini ragionevoli desidererebbero poterlo fare, solo per conto della massoneria. Il primo arrivato che ottenesse la pietra filosofale, sarebbe, in un batter d’occhio, anche massone».

E quando afferma che, per instaurare l’eguaglianza massonica, già si devono presupporre «uomini al di sopra di ogni scissione» è di una metafora alchimistica che si serve, per illustrare un simile concetto: «Il nitro deve già essere nell’aria, prima di depositarsi come salnitro sui muri».

Se, a questo punto, si rammenta che il nitro era ritenuto il fondamento per la preparazione alchemica dell’Alkahest, dell’universale dissolvente, forse non è un caso che gli uomini al di sopra di ogni scissione gli vengano paragonati, proprio perché sono universalmente sciolti dal condizionamento delle diseguaglianze.

Come non e probabilmente un caso che, in un altro luogo dello stesso testo, costoro vengano definiti massoni appartenenti alla chiesa invisibile – vale a dire non positivizzati in una chiesa (massonica) visibile: invisibili appunto come il nitro lo è nei confronti del salnitro, che, a questo punto, potrebbe anche rappresentare l’ennesima metafora della Trennung, della visibile fissazione della positivizzazione, di contro al nitro, metafora dell’invisibile, non determinabile, non quantificabile (e perciò indivisibile, inscindibile) Vereinigung della universale soluzione.

Lessing si serve ancora dell’alchimia quando vuol giustificare l’arcano massonico: «L’alchimista che e in grado di fare l‘argento, perché non dovrebbe trattare vecchi rottami d’argento, in modo che si sospetti meno che e in grado di farlo?».

Questo «abituale espediente» degli alchimisti l’ha usato anche Lessing, nei suoi Colloqui, occultando l’origine, almeno in parte alchimistica, del tema TrennungVereinigung che sta saldamente alla loro base? E che poi passerà in Schiller, Fichte, Hegel e, infine, anche in Marx, senza forse mai svelare in pieno la propria origine?

Che, tuttavia, è genuinamente effettuale; non proviene, cioè, dai cieli della speculazione teologale, ma da una mistica che tendeva continuamente al ribaltamento nella prassi della sperimentazione della dialettica degli elementi e, in prospettiva, della dialettica degli uomini.

Come fa ben intendere – ne Le affinità elettive – ancora Goethe, quando paragona elementi alchemici e uomini: «Le maggiori analogie con queste creature inanimate le presentano le masse (die Massen) che si trovano di fronte nel mondo: le professioni (die Berufsbestimmungen), le classi (die Stände), la nobiltà (der Adel) e il terzo Stato (der dritte Stand), il soldato (der Soldat) e il borghese (der Zivilist). Eppure (… allo stesso modo con cui queste masse si possono amalgamare (vereinbar sind) mediante i costumi (Sitten) e le leggi (Gesetze), così anche nel nostro mondo chimico esistono elementi mediatori per combinare (verbinden) ciò che reciprocamente si respinge».

Con questa metafora, Goethe mostra di aver molto probabilmente accolto l’operazione lessinghiana, che aveva appunto tacitamente trasferito le dinamiche categorie TrennungVereinigung dal crogiuolo dell’alchimista al crogiuolo del gran mondo.

Non aveva forse usato Lessing il termine chimico-alchemico Aufschliessen, dove afferma che occorre studiare i mali dello stato proporne la soluzione (solutio)? E non sarà questa soluzione un dissolvimento che, per traslazione, insedia l’alchemico Alkahest nella tematica anarchica e marxiana dell’annichilimento dello stato?

[Estratto da Scissione e unificazione in Lessing, saggio introduttivo a Gotthold Ephraim Lessing, Colloqui per massoni, a cura di Luciano Parinetto, Sapere edizioni, Milano-Roma 1975]

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tysm literary review, Vol 5, No. 7,  August 2013

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