Antropologia di Salah Abdeslam
Raffaele k. Salinari
Facendosi catturare vivo nel suo quartiere a Bruxelles e decidendo di collaborare con gli inquirenti, evenienza che ha forse causato come risposta gli attentati di ieri nella capitale belga, Salah Abdeslam ha illuminato per un momento lo specchio che vede le azioni del Califfato come rovesciamento di quelle agite in Occidente. Salah non si era fatto saltare in aria come previsto, e questo lo rende un soggetto emblematico nel panorama della guerra asimmetrica, quanto feroce, che contrappone il Califfato all’Occidente: un segnale da cogliere, in questo scontro, prima ancora che di armi e propaganda, di valori contrapposti. Come in uno specchio deformante, infatti, l’immaginario del terrore si riproduce nell’opposizione alle pratiche occidentali, evidenziandone e nutrendosi al tempo stesso di tutte le sue contraddizioni.
Chissà cosa direbbero Foucault e Fanon nel vedere questi professionisti del terrore applicarne i «dispositivi» in una sorta di biopolitica rovesciata. Nata dal cuore stesso dei «dannati delle terra», essa tematizza le aporie del paradigma occidentale tanto da far rinascere come se fosse un novus assoluto, la narrazione di un mondo arcaico, la cui tradizione oscurantista si esprime però con gli stessi mezzi della modernità che avversa.
Da una parte, dunque, la biopolitica occidentale come governo dei corpi in nome della plusvalenza che si trae dalla loro nuda vita, dall’altra un credo che li utilizza come simbolo religioso, siano essi quelli dei combattenti o degli sgozzati o ancora, nel caso delle donne, semplicemente invisibili. In Occidente i migranti vengono censiti secondo categorie precise, mercantili: migranti economici da rispedire indietro, a meno che non servano per i lavori in nero, o la loro scelta, come fece la Germania, volendo sul suo suolo solo carne scelta. Un triage indegno, miserabile, cui corrisponde la speculare strategia del terrore di colpire nel mucchio, indiscriminatamente, cioè senza discriminare. Un modo drammaticamente «democratico» di rispondere alle nostre discriminazioni. Ecco allora che gli attacchi in Costa dAvorio ammazzano i bagnanti, corpi tutti uguali davanti alla morte, come quelli che ballavano nelle luci stroboscopiche del Bataclan. Il loro rovescio, il loro ri-tratto, sono i rifugiati che si accalcano alle nostre frontiere; quelli che vanno schedati e filtrati, che non sono, né mai saranno, tutti uguali.
In Occidente la merce diviene spettacolo e lo spettacolo merce. Il corpo si esibisce e si fa spettacolo stesso. E allora i luoghi della merce diventano quelli da colpire: supermercati, teatri, resort turistici, metropolitane, stazioni ferroviarie; l’accusa di apostasia si estende a tutti i frequentatori dei siti impuri. Una apostasia ipostatica dunque; mentre nello spazio del Califfato i luoghi sono rovesciati: il vero credente frequenta la casa nella sua intimità inviolabile e la moschea, le donne sono sempre velate per non essere violate, l’esibizione si limita alle armi e alla ferocia assassina.
Anche l’idea spaziale viene così rovesciata: da noi il territorio ha dei confini precisi, una mappa che tende alla sua continuità, anche culturale; il Califfato, invece, è potenzialmente onnipresente ed inclusivo: ovunque ci sia un credente vi è l’ombra benevola del Califfo, non ci sono confini. In Occidente i «non luoghi» più controllati diventano il centro degli scambi e della mobilità: l’aeroporto, il porto, sono gli imprescindibili strumenti logistici; noi ci passiamo, sì ma non li riconosciamo. Nel Califfato invece gli uomini della jihad popolano i loro luoghi conoscendoli palmo a palmo, pietra su pietra.
Ecco che, anche se i mezzi di comunicazione e proselitismo del Califfato sono modernissimi ed il loro uso sapiente e calibrato, il sottofondo del messaggio è per noi incomprensibile, perché ha una eco messianica che la nostra sensibilità secolarizzata non riesce più a cogliere: qui sta l’arcano, la vera differenza simbolica. Siamo troppo attaccati alla vita materiale del nostro corpo e delle cose che ci danno il senso dell’esistenza per capire la presa che tutto questo può avere su chi si sente palingeneticamente immerso in una corrente storica che si nutre delle nostre ipocrisie.
La sfida, allora, prima di essere diplomatica o militare, economica o mediatica, è nella coerenza tra ciò che dichiariamo e ciò che pratichiamo. Nella bandiera nera del Califfato rischia di scomparire tutta la luce ambigua dei valori Occidentali, non perché assorbita da quel non colore, ma perché l’abbiamo spenta noi. La sfida, allora è quella di far tornare quei valori nelle vite di tutti, rivendicando sino in fondo ciò in cui un tempo credevamo.
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 30, issue no. 33 april 2016
issn: 2037-0857
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