L’immagine insondabile o dell’apocalisse: Tarkovskij
Di Marco Dotti e MIka Satzkhin
Nota su: Andrej Tarkovskij, L’Apocalisse, traduzione di Andrej A. Tarkovskij, collaborazione di Maria Pia Pagani, premessa di Mario Luzi, Edizioni della Meridiana, Firenze 2005.
A una variegata unità di tratti certi e dettagli incerti si lega la vicenda artistica di Andrej Tarkovskij, con le sue ossessioni, le sue figure, i suoi bianco e nero, la sua composta reticenza attorno alla forza muta dell’immagine messa in gioco dal piano visivo del fare, e vivere, intensamente il cinema.
«Una immagine può essere accolta, si può entrare in un’immagine, quando uno non è distolto da niente, quando percepisce un’empatia con quella immagine».
Con queste parole, nel luglio del 1984, a margine di una sua conferenza alla St. James Church di Londra, l’artista russo rispondeva all’insistente domanda di un ascoltatore che gli chiedeva: «fino a che punto i suoi film possono essere interpretati?» Una domanda particolarmente maliziosa, se si considera che Tarkovskij aveva appena terminato di esporre le proprie idee attorno all‘immagine di per sé insondabile dell’Apocalisse.
Il testo della conferenza, e il relativo dibattito, sono stati proposti all’attenzione del lettore italiano dalle fiorentine Edizioni della Meridiana, in un volumetto titolato L’Apocalisse che permette di cogliere la posizione dell’autore attorno a questo tema controverso e capitale. Posizione, come sottolinea Mario Luzi, propriamente e nobilmente «registica».
In quali termini, con quali lenti, verrebbe allora da chiedersi, legge l’Apocalisse un regista? Probabilmente, suggerisce Luzi, «non si tratta in questo caso di un regista, ma del regista, per la sua speciale sensibilità avvinto dal tema», e «la risposta di Tarkovskij è, appunto, assolutamente registica»: l’Apocalisse è immagine, immagine assoluta. Per questa ragione «l’interpretazione, al contrario di quel che accade con i simboli, non vi ha accesso».
Nella prospettiva tarkovskijana la proprietà fondamentale della figura cinematografica risiede nella sua insondabilità, nel limite, costitutivo ed essenziale, della sua non interpretabilità.
L’immagine come particella elementare di senso che, secondo l’artista, non è «né una costruzione né un simbolo, ma qualcosa di non decomponibile, unicellulare, amorfa». Un nodo gordiano assolutamente non districabile, un koan, per usare una immagine di quello zen tanto caro a Tarkovskij.
«La vera arte è basata sulla vera immagine e non è soggetta all’interpretazione», commenta il regista a margine della sua conferenza sull’apocalittica, «semplicemente perché racchiude in sé un numero infinito di possibili interpretazioni. In tal senso, il mio punto di vista si può dire più vicino a quello orientale, per esempio allo Zen». Nello zen, l’immagine non circoscrivibile diventa «il modello dell’infinito. Diventando realtà nella nostra percezione. Provate a tenere una sfera di cristallo tra le mani. Con un piccolo sforzo di immaginazione potremmo sentire e credere al fatto che questa forma sferica rappresenti l’infinito. Non lo simbolizza, ma lo esprime». Esattamente come indicato da Tsuzumi Tsuneyoshi nel suo Die Kunst Japans (Insel-Verlag, Leipzig, 1929) l’arte appare qui come «forma senza forma, altezza senza altezza, profondità senza profondità». Le sue conquiste sono fragili, le sue immagini precarie, ben radicate alla terra, ma protese al tempo stesso verso il cielo. È questa duplicità di immanenza e trascendenza, questa «trans-immanenza», ad alimentare – da sempre – il fascino senza pari dello zen e dell’arte giapponese.
Prima di giungere alla conclusione che la figura cinematografica coincide con la figura della vita stessa, e quindi come questa ultima vada colta in un fluire non frammentato da interpretazioni, non mediato da deduzioni logiche, è significativo osservare il fatto che il regista si richiami – costantemente, in più punti del suo lavoro e della sua riflessione – a un’altra poetica orientale, quella dello haiku giapponese. Gli haiku sono composti da diciassette sillabe distribuite in tre versi: il primo e il terzo di cinque, il secondo di sette. Basil Hall Chamberlain, nel suo fondamentale lavoro su Basho and the Japanese Poetical Epigram (in: “Transaction of the Asiatic Society of Japan”, vol. XXX, 1902), li definiva «epigrammi lirici».
Frammenti o briciole, chiosava Jean Paulhan, che aggiungeva: «la poesia giapponese di tre secoli consiste, o quasi, in queste briciole». È noto come già Eisenstein, sia nelle sue digressioni sulla forma del cinema, sia in fase tecnica di montaggio, si fosse richiamato a questa per noi insolita composizione poetica. Anche Tarkovskij riprende, in più punti del suo lavoro e della sua riflessione il tema a lui caro dell’essenzialità non mediata dello haiku.
In Scolpire il tempo, ad esempio, Tarkovskij scriveva: «l’immagine è come una osservazione… Come non ricordare nuovamente la poesia giapponese?! In essa mi affascina il deciso rifiuto persino dell’allusione a quel significato finale dell’immagine che, come una sciarada, dovrebbe lasciarsi gradualmente decifrare».
Al contrario, lo haiku «coltiva le proprie immagini in maniera tale che esse non significano nulla, all’infuori di se stesse, esprimendo tuttavia nello stesso tempo così tanto, che è impossibile coglierne il significato complessivo».
In altri termini, «l’immagine in esso corrisponde tanto più esattamente alla propria destinazione, quanto più impossibile risulta farla entrare in qualunque forma concettuale e intellettuale. Chi legge la poesia haiku deve dissolversi in essa come ci sin dissolve nella natura, sprofondarsi in essa, perdersi nelle sue profondità come nel cosmo dove non esistono né alto, né basso».
Né alto, né basso, ma visioni della fine. L’Apocalisse si presenta a Giovanni come succedersi di «visioni», come sacrificio della parola, come critica implicita al logocentrismo fondato sulla rappresentazione e sulla logica binaria. In un ben noto passo dell’Apocalisse, a un certo punto, si legge: «Quando i sette tuoni parlarono io mi accingevo a scrivere, ma intesi una voce dal cielo che mi diceva: “Tieni chiuso in te ciò che i sette tuoni hanno detto e non scriverlo”». Che cosa tiene segreto Giovanni?
Perché dichiara di nascondere qualcosa? «In questo dettaglio», chiosa Tarkovskij, «c’è una nobiltà incredibile, non umana, davanti alla quale l’uomo si sente come un bambino: inerme e protetto allo stesso tempo». Perché «nella non-conoscenza umana risiede la speranza». E la speranza, scriveva Nietzsche, rinasce solo dopo che ogni male è stato nominato. Rinasce dal silenzio, nell’assenza.
«Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, nel cielo per circa mezz’ora regnò il silenzio» (Apocalisse, 8,1). In questo caso, anche «l’assenza dell’immagine diventa essa stessa un’immagine più forte di tutte quelle che si possano immaginare».
Così in Sacrificio, mentre la minaccia atomica incombe e il disastro sembra imminente, Alexander dichiara: «Tutta la vita ho aspettato questo. Tutta la vita in attesa che succedesse questo».
Poi sarà il silenzio, non parlerà più. Per lui parleranno il fuoco e l’acqua e il vento. Il cielo si aprirà di nuovo, la vita riprenderà il proprio corso e l’albero secco – un ikebana? – che il bambino muto forse non ha mai smesso di innaffiare vedrà rinascere le proprie radici. Sapremo allora che la follia di Alexander è un sacrificio d’amore. Un sacrificio andato a buon fine.
tysm literary review
vol. 16, issue 21
january 2015
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