Lo shock della follia manicomiale
di Francesco Paolella
Cosa rimane oggi dello shock provocato dalle fotografie, dalle inchieste, dai reportages giornalistici sullo scandalo dei manicomi? E con che sguardo possiamo affrontare quello che scandalo che – così si dice almeno – oggi è stato del tutto superato?
Con le sue fotografie, Berengo Gardin (assieme a Carla Cerati, in Morire di classe,1969), riuscì a far entrare gli occhi di tanti sani dentro i cortili e i padiglioni sporchi e desolati dei manicomi. Quelle sue fotografie, come tante altre scattate fra il 1968 e il 1970, rappresentano benissimo oggi tutta la nostra distanza dall’atmosfera e dal “contesto” di 50 anni fa, e dalle passioni allora dominanti. Non si tratta ora di rifugiarsi nella nostalgia, né di sbrodolare le solite lamentele sul vuoto del nostro presente.
Si tratta, si tratterebbe semmai, di riconoscere l’urgenza di apertura e di cambiamento, che quelle immagini testimoniano tuttora.
Sono passati diversi decenni dal momento in cui iniziò a sgretolarsi la rimozione collettiva che consegnava all’invisibilità (e al terrore dell’invisibilità) i “matti” italiani. Soprattutto nel corso degli anni Sessanta (e non degli anni Settanta, come stranamente ricorda il sottotitolo di questo volume) cominciarono ad apparire immagini e voci degli invisibili. Una stagione – quella dei movimenti anti-istituzionali – che oggi può apparire completamente incomprensibile e che invece sarebbe utile tenere a mente. Anche qui, non per un ennesimo culto della memoria, ma per ritrovare le ragioni di quella urgenza, le ragioni del perché l’esistente fosse così intollerabile.
Che effetto fanno oggi quelle foto, e specialmente a chi non le conobbe, non le scoprì “dal vivo”, e che semmai ignora tutto di quelle vicende? L’effetto di una straordinaria lontananza. E non si può dire nemmeno che la vittoria rappresentata dalla legge 180 sia davvero un fatto acquisito. Di nuovo sotto silenzio, di tanto in tanto, riappaiono le “cattive pratiche”, violente e squallide, fin troppo simili a quelle denunciate allora.
Abbiamo ancora bisogno di testimoni, e di testimoni nuovi, non di ripetitori delle vecchie battaglie. E di inchieste, combattive e (nel senso migliore della parola) gratuite. Abbiamo bisogno di fuggire la banalizzazione, che si fa anche del bene (ossia, in questo caso, dei meriti della legge 180 e dello spirito che ne è all’origine).
Le fotografie di Berengo Gardin sono testimoni della partecipazione, allora concreta, nel progetto di smantellamento, una pietra alla volta, dell’istituzione, così come nel progetto di ripulire l’aria dal veleno che quella istituzione spandeva ovunque, anche fra i “sani”.
Quella rivoluzione anti-istituzionale beneficiò anche delle fotografie, come delle inchieste apparse sull’“Espresso”, dei libri di Laing e Fanon, dei film di Agosti e Bellocchio. Quella rivoluzione, la “vera rivoluzione italiana”, sottrasse al potere psichiatrico anche la fotografia: fino ad allora, infatti, quali immagini uscivano dai manicomi? Immagini faziose, “tranquille” eppure violente: cortili, mense e ambulatori ordinati, puliti, luminosi, ma ovviamente sempre senza la presenza di persone, senza la presenza dei malati. La fotografia era stata, fin dalle origini, uno degli strumenti per la missione scientifico-poliziesca affidata alla psichiatria.
E tanto più grottesche appaiono, a rileggerle oggi, le proteste che i direttori facevano contro i fotografi che rubavano la verità, entrando nei loro manicomi: le proteste di quei medici che, in assoluta buona fede, volevano difendere la dignità (sic!) dei malati, proteggerli da estranei fastidiosi e, ma in un altro senso, davvero pericolosi.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 28 september 2015
issn: 2037-0857
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