Si stava meglio, quando si stava peggio?
di Carlo Fruttero e Franco Lucentini
Tentiamo invano di vedere il nostro Paese con gli occhi di Dennis, un vecchio amico inglese che conosce poco l’Italia, per anni se ne è tenuto deliberatamente lontano non sentendosi pronto ad affrontare le sue bellezze eccessive, come si può temere l’incontro con una leggendaria ammaliatrice per paura di restare poi con il rimpianto di non avere dedicato la vita a lei.
Su nostro consiglio, Dennis si è infine deciso a cominciare dai gioielli in proporzione «minori», Bergamo e Mantova, Verona e Pavia, in stagioni turisticamente morte, ma tralasciando Venezia; quest’anno, tralasciando Firenze e approfittando di conoscenti motorizzati è passato per Lucca e Siena, si è fermato a bere il caffè entro le mura di Monteriggioni, e si è fatto depositare qui, con la sua sacca Army & Navy e il suo cranio pelato già meritevole, come un’aragosta, di un contorno di fettine di limone.
È un viaggiatore alla Ceronetti, si sposta in treno, in corriera, occasionalmente a piedi, in tassì, ma senza sentirsi in guerra col suo tempo. Gli pare del tutto naturale che tutti abbiano la macchina, ma, quanto a lui, preferisce evitare le noie connesse col «mezzo». Tale flemmatica disposizione, oltre a una parzialità di persona colta per l’Italia, lo rende indulgente verso le cose di casa nostra, di cui riesce sempre a vedere un lato «buono», a noi purtroppo precluso dalla consuetudine e dall’esasperazione.
Con il desiderio di farci persuadere dalla sua freschezza d’approccio gli chiediamo che cosa l’abbia colpito di più, nella terra dei limoni. Risponde senza esitare: la casualità, l’imprevedibilità. I musei, che non si sa mai se saranno chiusi o aperti, o semichiusi o semiaperti, tenuti ora come una nave di S.M. Britannica, ora come una giunca di Hong Kong; i treni, che talvolta spaccano il minuto e talaltra hanno ritardi dissennati, oppure trainano carrozze nuovissime ridotte a pattumiere, mentre altre, decrepite, sono pulitissime; le incomprensibili variazioni di prezzi tra identiche trattorie, tra gelaterie gemelle; i tanti piccoli divieti, qui fatti burberamente rispettare, là ignorati impunemente. E così via.
Lo informiamo con una certa vivacità che questa è solo la millesima parte di ciò che noi dobbiamo sopportare tutto l’anno; se vedesse le poste, se sapesse l’assistenza medica, se immaginasse il fisco, l’edilizia, la giustizia, le pensioni…
Dennis ci lascia sfogare senza scomporsi. Ammette che il suo è un punto di vista privilegiato e limitatissimo, che c’è nel disordine altrui un superficiale elemento «esotico» cui lo straniero curioso può guardare con interesse e divertimento, accettando come un’esperienza insolita un blocco dei traghetti a Genova, per esempio, mentre a Dover lo stesso blocco gli farebbe venire la bava alla bocca; e viceversa. Ma una volta scontata questa percentuale di folklore, il caos italiano gli pare pur sempre una forma istintiva di resistenza alle tendenze orwelliane del mondo moderno.
«Invece di lamentarvi, dovreste vederla come una garanzia che un vero Stato totalitario non potrà mai funzionare, da voi. Il fascismo ci provò, se non sbaglio, e fallì miseramente».
Ma – ribattiamo noi – ci mise vent’anni, a fallire. E i treni correvano davvero in orario, con somma contentezza del popolo italiano: sia per la cosa in sé, sia soprattutto per il suo valore simbolico, che dava ai cittadini l’illusione di essere governati con efficienza e serietà. L’anarchia, da noi, è praticata e sfruttata, ma non amata. C’è sempre stata una specie di nostalgia nazionale per la competenza, l’organizzazione, il rigore, l’ordine, e a questo «bisogno», strettamente verbale e sentimentale, il fascismo dette la risposta perfetta: il vestito della festa, anche letteralmente.
Del resto, tutti quelli che ci hanno vissuto dicono la stessa cosa dell’Urss. Un po’ di parate, di patacche, di solenni parole sui piani quinquennali e le battaglie del grano, e i pecoroni marciano senza far storie nel caos dei giorni feriali. Vedono, sanno, toccano con mano, mugugnano dalla mattina alla sera, ma non ci pensano nemmeno a liberarsi di un regime che, a livello spicciolo, gli permette di continuare ad arrangiarsi secondo la loro anarchica natura.
Ormai è provato: uno Stato totalitario può benissimo combinarsi con la confusione, l’approssimazione, l’inettitudine, l’inconcludenza. Basta tuonare ogni tanto contro il «panciafichismo» e il «menefreghismo», e la gente si persuade facilmente che la situazione è nell’insieme sotto controllo, che «lassù» c’è qualcuno che vede e provvede.
Volete dire l’Ovra, il Kgb, o comunque si chiami la polizia politica, ci rammenta Dennis con un tenue sorriso.
Ribattiamo che il terrore è indispensabile all’inizio, ma poi ne è sufficiente l’eco, il ricordo anche pallido, e qualche «esempio» di tanto in tanto. Mentre il senso di generale impunità che prevale oggi in Italia offende di più, brucia di più, disgusta e allarma di più i cittadini, e sta creando un clima favorevole all’autoritarismo.
Dennis non è convinto. Il nostro gli pare un sistema ingegnoso di «democrazia dell’arte», dove ognuno è in sostanza complice del disordine assumendo a turno il ruolo di ladro e derubato, di escluso e privilegiato, di prepotente e di vittima, di furbo e d’ingenuo. Ognuno se ne va in giro trascinando la sua codona o codina di paglia, e ne risulta uno spettacolo di allegra animazione, di vitalità, fantasia, insopprimibile estro libertario.
Rispondiamo irritati che si tratta di un vecchio cliché, ormai inapplicabile a una situazione di sfacelo galoppante e capillare.
Ribatte serafico che lo sa benissimo, che capisce la nostra irritazione, ma che lui non ci può far niente se gl’italiani corrispondono ancora, fatti i debiti aggiustamenti, a quelli descritti dai viaggiatori stranieri del Sette e dell’Ottocento. Ci rimprovera bonariamente di non voler accettare, per intellectual snobbery, ciò che a noi sembra una banalità; ma forse siamo solo troppo coinvolti, ci manca la distanza necessaria per distinguere le «costanti» classiche del carattere italiano.
Gli diamo aspramente del letterato, dell’esteta, che s’è fatto sui libri una certa idea dell’Italia e la sovrappone a una realtà di cui non capisce niente.
Ci trova italianamente focosi.
Domani deve ripartire, ha appuntamento a Padova con una misteriosa signora, lo accompagniamo al chiosco della Sita, la società pubblica che gestisce la linea Castiglione della Pescaia-Siena-Firenze. C’è una corsa ideale alle 9,30 della mattina.
Ma il chiosco è rimasto senza biglietti, che sono però in vendita anche presso certi bar e tabaccherie locali. Ne facciamo il giro: niente da fare, tutti hanno esaurito da tempo i biglietti e non hanno idea di quando ne saranno riforniti, giorni, settimane, chissà. Torniamo al chiosco. Sarà pur possibile, in via eccezionale, fare il biglietto a bordo? Niente da fare, la Sita non prevede il caso. Ha abolito il bigliettaio, e l’autista non può, sindacalmente, svolgere la doppia mansione; senza contare che i sindacati hanno inteso sollevarlo dalla responsabilità di raccogliere il danaro delle corse per via di possibili errori, furti, smarrimenti, pasticci, agguati, rapine ecc.
Ma allora, come potrà partire Dennis? Sopraggiunge un autista. L’unica – spiega – è che Dennis salga senza biglietto, non sarà lui a lasciarlo a terra; ma certo, viaggerà a suo rischio e pericolo. Quale rischio? Quale pericolo? Di un controllore, di una multa di 80 mila lire; se però gli va bene, viaggerà gratis. Ma è vergognoso, è scandaloso, è completamente pazzesco! Certo che è pazzesco, ma così va la Sita, così va l’Italia. Su questa linea, del resto largamente passiva, la mancanza di biglietti è cronica; l’anno scorso lui si fermava abusivamente lungo la strada, davanti a una botteguccia che, per ragioni mai appurate, ne aveva sempre una buona scorta; gli utenti scendevano, facevano il biglietto a valere da quella sperduta frazione, risalivano e si ripartiva; poi però si arrivava a Siena quasi sempre in ritardo, la Sita finì per preoccuparsene e si dovette abbandonare il sistema.
Ci voltiamo verso Dennis con un sorriso di trionfo. Ma ce l’ha anche lui, il sorriso di trionfo; che gli dura fino all’indomani mattina quando sale sul pullman con il suo cranio «al mattone» e senza biglietto. Come andrà a finire? Ci penserà il controllore a levarglielo dalle labbra, o invece la farà franca e vedrà soltanto il lato buono della Sita? Sempreché lungo la strada non intervenga quell’altra romantica «costante» italica che sono i gentiluomini dell’archibugio. Oggi, è vero, imbracciano il mitra, ma un esteta come Dennis saprà apprezzare lo stesso, beato lui.
[Tratto da La manutenzione del sorriso, Mondadori, Milano 1988]