philosophy and social criticism

Teatro e letteratura

Umberto Artioli

Analizzare i rapporti tra, teatro e letteratura vuoi dire anzitutto interrogarsi sulle ragioni di un dirottamento etimologico, lo stesso per cui nella cultura occidentale una voce (“théatron”) carica di inflessioni visive si è progressivamente allontanata dal suo statuto originario, finendo col gravitare nelle zone dell’auditivo. Da spettacolo, da evento legato ai codici della visione, il teatro, attraverso un esercizio di auto-amputazione, è divenuto rappresentazione della parola, rituale in cui unico officiante è il Verbo e in cui i residui elementi espressivi assolvono a un ruolo del tutto ancillare; ovvero, negata del tutto la rappresentazione con il suo inelimitabile retaggio di visività, è divenuto letteratura, rifiuto dello spazio fisico della scena per quello mentalistico della pagina.

Ma cosa significa questo imperialismo della parola, sia che lo si intenda come iperfetazione del verbale consumata “dentro” la rappresentazione, dunque legata ancora a una parvenza di spettacolarità, a un margine visivo sia pure accreditato di funzioni vassalle, sia che lo si legga, più clamorosamente, come apologia della parola scritta rispetto a quella parlata, come primato del testo sulla rappresentazione, della scrittura drammatica sulla creazione scenica?

Tutte le volte in cui il teatro è stato qualificato in quanto genere letterario e la ricognizione critica ha insistito sui valori stilistici presenti nell’apparato testuale considerato in sé e per sé, e non come parola che aspira allo spazio della scena, come indice non “già” integrale ma “da” integrare con altri indici provvisoriamente assenti, è la presenza di un’estetica ostile alla fisicità dei mezzi rappresentativi che è lecito ravvisare.

In fondo leggere in quella forma artistica che si è soliti denominare teatro i segni di una divaricazione, riscontrare nella precedenza cronologica del testo drammaturgico rispetto alla sua spettacolarizzazione un poderoso limite alla compiutezza estetica del fatto teatrale, significa semplicemente prendere coscienza di una situazione di fatto, magari battersi, come farà la teorizzazione scenica novecentesca, per una concentrazione dei poteri che, abolita la distinzione tra autore e regista, deleghi, totalizzandola, a un’unica entità la funzione creatrice.

Ma tramutare una priorità cronologica in una priorità assiologica, reperire nello spartito drammaturgico l’essenza stessa del fatto teatrale, sostenere la sovranità del Logos – tanto più pura quanto meno incrostata di materialità, tanto più appariscente quanto più legata ad indici scritturali piuttosto che al corpo vivente dell’attore, all’indice gestuale della vocalità – significa accreditare il teatro del vecchio a priori occidentale secondo cui lo Spirituale sarebbe statutariamente superiore al Fisico, l’Anima al Corpo, il Concetto e l’Idea all’apparato percettivo-sensoriale.

Dire che d’essenza del teatro è la parola; che lo spettacolo, la messa in scena, la rappresentazione sono forme d’arte inferiori in quanto composte da elementi fisici; ritrovare nella spazialità tutelatrice del Libro l’autentico sostituto della scena, vuol dire in definitiva far solidarizzare una certa concezione del teatro con i presupposti della metafisica d’occidente.

Di fronte alla luminosità aurea della parola, autentica metafora della luce, il movimento del corpo sulla scena – la sua spazializzazione – è visto come indice impuro, dunque materia informe, caos, elemento irrimediabilmente opaco e ingovernabile.

Esporre questa parola sulla scena, incarnarla in un corpo, depositarla nella voce di un attore, intriderla di affetti e di sensorialità, è assoggettarsi alla degradazione.

Per questo il Libro, nelle sue modalità di cornice protettiva, di diaframma imposto al mondo della fisicità, è fatto funzionare a un tempo da alambicco e da scrigno. Del gesto pre-verbale, dell’accensione dionisiaca di cui la parola parlata conserva ancora generosamente le tracce – e dunque i fermenti e i sussulti – qui, nello spessore diafano della scrittura, non restano in effetti che i pallidi simulacri stilistici, un laboratorio di figure e di “topoi” che occorre attentamente – e pazientemente – auscultare per cavarne, dietro l’apparato delle mascherature, i residui della “dynamis” originaria.

Non deve pertanto stupire il fatto che nella tradizione occidentale, da Aristotele sino a Mallarmé, l’ipotesi che il Libro possa – addirittura debba – sostituire la scena, circoli con così pervicace ossessione. «Poiché la mimesi – scrive nella Poetica il filosofo greco – è fatta da persone che agiscono direttamente, ne segue anzi tutto che uno dei fattori della tragedia dovrà pur essere l’ordinamento materiale dello spettacolo». Ma subito dopo perentoriamente: «L’apparato scenico […] ha senza dubbio una grande efficacia sull’animo degli spettatori, ma non ha che far niente sulla nostra ricerca sull’essenza della tragedia, e nemmeno con la poetica in generale. Perocché il fine proprio della tragedia è conseguibile anche senza rappresentazione scenica e senza attori». Nel momento stesso in cui Aristotele concede alla messinscena la capacità di trascinare gli animi, ammettendo così esplicitamente il carattere di “presenzialità,” di azione concreta su un pubblico concreto proprio del teatro come rappresentazione, riduce tuttavia tale motivo a una cifra eminentemente psicologica, di cui si premura di sottolineare l’inessenzialità.

L’ “ordinamento materiale dello spettacolo”, questo duplicato sensibile del testo, questa spazializzazione ingombrante del segno verbale, è per lui semplicemente qualcosa di aggiuntivo, di irrilevante dal punto di vista estetico, si che una sua eventuale cancellazione non costituirebbe attentato all’essenza del genere tragico. L’essenza della rappresentazione non mette dunque in crisi le strutture della teatralità, non minaccia dal profondo un prodotto il cui essere o non essere non è fatto dipendere da essa, ma unicamente dalla partitura letteraria.

A differenza dello spettacolo, in cui la parola assume necessariamente una configurazione visiva appoggiandosi a un corpo e a uno spazio fisicamente percepibili, in cui nemmeno l’espediente del chiudere gli occhi sottrae lo spettatore all’impatto d’una vocalità la cui intonazione scandisce volta per volta gli affetti del locutore – ed è chiaro come la vocalità resti pur sempre un atto di violenza perpetrato nei confronti del testo, proponendosi essa come la particolare interpretazione che “quel” attore offre del testo in “quel” determinato momento – la lettura offre una sequenza di segni la cui decifrazione è di pertinenza esclusiva del lettore. «Qualcosa di Amleto – ha scritto Maeterlinck è morto in me il giorno in cui l’ho visto morire sulla scena. La rappresentazione di un capolavoro per mezzo di elementi umani e accidentali è contraddittoria». Il rifiuto dell’attore, della scenografia, dello spazio scenico, più in generale del concetto stesso di rappresentazione quale è stato portato avanti con estremo rigore dall’ala mallarmeana del Simbolismo francese, nasce appunto di qui, da quest’esigenza di liberare il rapporto tra opera e fruitore da ogni presenza intermediaria, così da consentire a ogni ipotetico lettore di reinventarsi il proprio Amleto, il proprio castello di Elsinore, senza essere vincolato dagli indici offerti da qualsiasi messinscena.

Se per Mallarmé il momento della rappresentazione costituisce una presenza alienante, è perché gli elementi su cui essa è strutturata assumono una funzione normativa: essi sono là, fissati una volta per sempre, colmi della loro insormontabile fisicità. Al posto di uno spazio flessibile, aperto alle sconfinate tentazioni dell’immaginativa individuale, essi non fanno che delimitare una partitura di segni ben lontana dalla polivalenza semantica, dalla liquidità di atmosfere, dalla verginità incantatoria proprie della parola.

La visività di cui è portatrice la misura scenica è intesa non solo come qualcosa di accidentale e aggiuntivo, ma addirittura come la perversione del vero teatro. Ed ecco allora esplicitarsi un’idea di teatro che ha il suo prototipo nel Libro, visto come difesa da ogni incrostazione esterna, così che la sua struttura, sciolta dall’arbitrio del Caso e nello stesso tempo rigorosamente depurata da ogni grumo esistenziale che l’individualità dello scrivente possa lasciarvi depositata, si costituisca quale rivelazione del mistero dell’universo: «Che rappresentazione! Il mondo vi è compreso. Un libro nelle nostre mani, se enuncia qualche idea augusta, supplisce a tutti i teatri, non perché ne causi l’oblio, ma al contrario impetuosamente richiamandoli. Il cielo metaforico che si propaga intorno alla folgore del verso, artifizio per eccellenza al punto di simulare a poco a poco e di incarnare gli eroi (giusto quel che basta percepire per non essere impacciati dalla loro presenza, un cenno), questo sfondo d’estasi spiritualmente e magnificamente illuminato è veramente il puro sfondo di noi stessi, che portiamo sempre pronto a sgorgare, all’occasione che nell’esistenza o fuori dell’arte manca sempre».

Un’arte dell’allusione e dell’elisione, del rivelare occultando, solo la parola può praticarla. Solo il Verbo può avventurarsi nel mondo delle essenze, non già il linguaggio della scena, affidato alla fisicità dei corpi e degli oggetti, di tutto ciò che cade immediatamente in una sfera di fruizione visiva. Il teatro non è fatto per essere visto, se per sguardo si intende quella modalità del sensorio che ci permette di percepire gli enti finiti, le delimitazioni della materia, l’accidentale, il fenomenico, il contingente. Al “guardare” con gli occhi occorre sostituire la profondità di uno sguardo “mentale,” quello sguardo che solo la parola letteraria riattiva, riproponendo la visione al di là d’ogni indice sensibile: l’autentica scena è una scena interiore, un teatro dello spirito.

Contro la pretesa grossolanità dei parametri scenici la teorizzazione simbolista ripropone dunque il senso della dicotomia platonica: la parola, questo indice del soffio e del respiro, questa entità incorporea e smaterializzala, è più pura e perciò più vicina all’Idea. Si tratta di una posizione-limite che tuttavia, proprio per il suo carattere di rigorosa radicalità, condensa in sé tutte le sparse indicazioni che una secolare interpretazione idealistica del teatro aveva sciorinato.

Battersi per una de-teatralizzazione del fatto teatrale, vale a dire negare all’accadimento scenico uno statuto specifico per un suo riconducimento alla misura letteraria, significa infatti accreditare il fatto rappresentativo di un’impossibilità estetica, dimostrare che alla sua esistenza di fatto non corrisponde minimamente una esistenza di diritto.

Riassumiamo, sia pure schematicamente, l’insieme delle argomentazioni che i fautori di una v i s i o n e  l e t t e r a r i a  d e l  t e a t r o oppongono all’edificazione di un’arte scenica autonoma, definitivamente sganciata da ogni soggezione estrinseca:

a) l’insopprimibile “fisicità” dei mezzi scenici d’espressione costituisce una sorta di duplicazione grossolana e degradata degli indici verbali;

b) la rappresentazione, essendo per sua natura legata al mondo dell’effimero, non consente quella durata nel tempo, diciamo pure quella”`eternità,” che sembra essere requisito della grande letteratura drammatica;

c) la parola drammaturgica aspira a una libertà espressiva che solo il duttile spazio della pagina le garantisce. Al contrario la rappresentazione, essendo legata a coordinate spaziali ben determinate, si costituisce come vincolo e coercizione, impedendo al testo di rifrangere tutta la propria interna ricchezza poetica;

d) la rappresentazione assume un inevitabile carattere di ridondanza. Nel caso si tratti di messinscena filologicamente fedele al testo, essa è un semplice sostituto della lettura, con per di più l’aggravante della perdita da parte del fruitore di quell’atteggiamento intimo e squisitamente individuale che contraddistingue ogni rapporto col medium della scrittura: dunque qualcosa di perfettamente inutile. Nel caso di messinscena filologicamente infedele, si tratta di una prevaricazione nei confronti dell’Autore, di una perversione della “texture” originaria: dunque di qualcosa di dannoso;

e) la messinscena non offre garanzie dal punto di vista estetico, sia perché limitata da insopprimibili necessità di carattere commerciale, tali da imporre sovente la resa ai gusti del grosso pubblico come una delle condizioni sine qua non della propria sussistenza, sia perché esposta ai conflitti di potere che la presenza di più operatori (l’attore, lo scenografo, il musicista, ecc.), in uno spazio non regolamentato da un codice rigorosamente unitario, irrimediabilmente comporta. Di questa serie di argomentazioni le più facili a smontare, ,proprio perché la negazione di una legittimità estetica del linguaggio della scena vi è postulata come rifrazione di una matrice filosofica precisa, appaiono quelle legate alla dicotomia idea/sensorialità, retaggio – come si è detto – di una tradizione spiritualistica ormai discosta dall’orizzonte “fenomenologico” novecentesco, presso cui alla nozione di “spirito” non è più deputato uno spazio a sé, perfettamente tutelato dalle degradanti contaminazioni della materia, ma lo stesso concetto di coscienza vi è viceversa inteso come impegnato in un corpo e in un mondo, come mantenimento di tutti i connotati fisici dell’uomo. Se all’antico concetto teologico e ultramondano di Bellezza come mediazione tra il sensibile e il sovrasensibile, come contemplatività, ordine, misura, come eternità, il Novecento, soprattutto dopo la lezione di Nietzsche, ha opposto l’apologia dell’effimero e del perituro, è perché il dominio del gesto, del corpo, del mondo sensibile, vuol essere completamente affrancato dalle antiche soggezioni, restituito alla Terra, alla “volontà di potenza.” Far dominare sul palcoscenico – ha scritto A r t a u d il linguaggio articolato, cioè l’espressione mediante parole, sull’espressione oggettiva dei gesti e di tutto ciò che dallo spazio arriva allo spirito attraverso i sensi, equivale a volger le spalle alle esigenze fisiche della scena e a ribellarsi alle sue facoltà. Bisogna infatti ribadire che la sfera teatrale non è psicologica ma plastica e fisica. E il problema non consiste nel sapere se il linguaggio fisico del teatro può permettere le stesse soluzioni psicologiche del linguaggio verbale, se può esprimere sentimenti e passioni bene quanto le parole, ma se non esistono nel regno del pensiero e dell’intelligenza atteggiamenti che le parole non sono in grado di cogliere, e ai quali i gesti, e tutto ciò che partecipa del linguaggio spaziale, possono arrivare con maggior precisione.

Nell’attacco artaudiano alla “,psicologia,” i cui vistosi precedenti si collocano in area futur-dadaista, è l’intero senso dell’opposizione idea/sensorialità ad essere capovolto. La “psicologia” è il regno dell’analitico, del chiaro e distinto, luogo dove l’ipertrofia d’una Parola sottoposta alla rigida economia del comunicare ha da tempo represso l’espressione, sostituito il desiderio col bisogno, il calore della Vita con la cristallina purezza del Concetto.

La “psicologia” è il regno della separatezza, strumento la cui comparsa sulla scena ha trasformato il palcoscenico nell’equivalente metaforico del Gabinetto Scientifico, e cioè luogo dove una soggettività diventa oggetto nei confronti di un’altra soggettività che la spia, dove il pubblico è ridotto a una moltitudine di compiaciuti “voyeurs”.

Sottoporre il teatro alle leggi della psicologia, alla normatività del linguaggio articolato, significa ancora una volta assumere la scena come “analogon” della pagina, derogare dal suo antico statuto di cerimonia collettiva per ricondurlo, al più, a raffinato oggetto di degustazione individuale.

Che cos’è infatti il libro se non lo spazio del dissanguamento e dell’asfissia, luogo dove l’imperialismo del significante s’accanisce contro la Forza e la Vita, dove il flusso dell’energia è ridotto a un mormorio monocorde e indistinto, dove il dispositivo costringente della scrittura, fieramente soggetto ai nessi grammaticali e sintattici, scandisce istante per istante tutta da distanza tra il mondo luminoso dell’Idea e le oscure soglie della sensitività?

Psicologizzare il teatro, trasformare la scena in cassa di risonanza della parola scritta, vuol dire cerebralizzare il rapporto con lo spettatore, assumere quest’ultimo non già come corpo, come organismo, come energia, ma semplicemente come intelligenza, un’intelligenza che si è separata dalla vita, che ha ucciso la vita. «Lasciamo ai pedanti – scrive ancora Artaud – la critica testuale, agli esteti la critica formale, e riconosciamo che ciò che è stato detto non è più da dire; che un’espressione non vale due volte, non vive due volte; che ogni parola pronunciata è morta, e non agisce che nel momento in cui viene pronunciata; che una forma, quando sia stata impiegata, non serve più e invita soltanto a ricercarne un’altra, e che il teatro è il solo luogo al mondo dove un gesto fatto non si ricomincia due volte». L’unicità del gesto contro la sua serializzazione, il calore intensivo dell’emozione contro il neutralismo dell’intelligenza, l’hic et nunc della presenza vivente contro l’ossessione della distanza e della separatezza: dietro Artaud sta Nietzsche ed il suo recupero del corpo, la sua riattivazione dell’estetico nel senso etimologico del termine, e cioè come apertura al mondo della sensorialità represso da secoli di demiurgismo razionalistico.

Il testo, questo apriori che vincola la teatralità d’occidente facendo della scena la ripetizione del già-detto, della rappresentazione una ripresentazione, deve cessare di far regnare la sua pesante ipoteca.

La parola scritta porta impresso in sé il sigillo di una morte. Staccata dal suo Autore, recisa dal gesto vivente che l’ha prodotta, è in realtà il congelamento della dynamis, la contraffazione dell’energia. La sua supposta eternità è l’eternità dell’immobile, segno che può essere indefinitamente iterato perché indifferente al divenire, trasparenza di una Forma che ha smarrito ogni contatto con la Forza.

Intendere il teatro come riflesso di un testo scritto, significa dimenticare che l’istituzione scenica è «l’ultimo mezzo al mondo che ci rimanga per toccare direttamente l’organismo», per raggiungere lo spirito attraverso il corpo, per riabilitare le potenze del sensibile. Il linguaggio della scena deve essere il linguaggio del corpo e dello spazio.

Il gesto dell’attore, lungi dal proporsi come semplice supporto dei valori semantici espressi attraverso la parola, deve aprirsi da solo il tragitto verso l’altra corporeità in agguato al di là della scena, e cioè quella dello spettatore. In quanto presentificazione di energia, manifestazione dell’hic et nunc, è avvolgimento e coinvolgimento, fisicità che impatta e soccorre altre fisicità. Al contrario del linguaggio articolato, che implica una repressione della sensorialità, l’espressione gestuale investe la totalità dell’organismo ripercuotendosi sulle zone subliminali della coscienza. Mentre la parola definisce e analizza, in uno sforzo incessante di riconduzione dell’ignoto al noto, la gestualità o, più in generale, ogni forma di linguaggio dello spazio dissimula quel che contemporaneamente esprime. Ma questa azione che si muove nei modi dell’obbligo e dell’inesplicito, che scava cortine di silenzio, ha come contrappeso un’intensificazione massima dell’energia psico-fisica dello spettatore, chiamato a secernere un senso dentro un apparato di segni, il cui carattere di non-discorsività rende impossibile una decodificazione di tipo squisitamente logico. Per questo l’uso della parola a teatro deve abbandonare i parametri della discorsività per investire le risorse concrete e spaziali del linguaggio: una parola intesa come gesto fonetico, come accento e intonazione, come possibilità vibratoria, come capacità di percussione. Contro ogni pronunzia de-teatralizzante del teatro, contro ogni sua riconduzione a categoria letteraria, la visione artaudiana, presa qui come esempio di pervicace difesa dello specifico scenico, punta decisamente in direzione di un “teatro-teatrale,” affidato ai parametri della presenza vivente e contraddistinto dal ricorso a un tipo di linguaggio rigorosamente fisicizzato.

Assistiamo così a un macroscopico capovolgimento di termini rispetto alle posizioni in precedenza delineate. Quella fisicità che i fautori di una concezione letteraria del teatro vedevano come degradazione diviene la quintessenza della teatralità: un modo per raggiungere direttamente l’organismo dello spettatore, per riattivare il rapporto palcoscenico-platea non già su basi separatorie e individualistiche, ma coinvolgenti e comunitarie. Al feticismo della scrittura, all’apologia del testo scritto in nome dei suoi valori d’ “eternità”, si sostituisce una concezione dell’accadimento scenico come evento irripetibile, come manifestazione di energia presente solo nel momento del suo apparire, come presentificazione e non come “rappresentazione.” Alla vexata quaestio sulla fedeltà o infedeltà della messinscena rispetto alla partitura drammaturgica, si oppone l’impertinenza della domanda, fondata su un apriori – la presenza normativa del testo – incompatibile con una visione fisicizzata del linguaggio teatrale. Come nella stragrande maggioranza dei riformatori novecenteschi della scena occidentale, da Appia a Craig a Mejerchold, sino alle esperienze del Living e di Grotowski, l’abolizione del testo, o per lo meno la sua degradazione a semplice canovaccio nelle mani dello specialista della scena – il Regista nella sua qualità di demiurgo dello spettacolo – è qui invocata a salvaguardia dell’unità estetica del fatto teatrale. Arriviamo così all’ultimo punto invocato dai propugnatori di una visione letteraria del teatro a sostegno della propria tesi, e cioè l’ibridismo della rappresentazione, la sua impossibilità a dar vita, proprio per le lacerazioni intestine da cui è affetta, a un solido organismo strutturale, unica garanzia per una sua sussistenza estetica.

Se la nascita della regia nel senso moderno del termine ha risposto a questo genere di obiezioni, trasformando gli sparsi indici dello spettacolo (letterari, figurativi, mimici, orchestici, musicali, ecc.) in una concertazione di segni contraddistinti da una rigorosa logica unitaria, occorre anche rilevare come questa aspirazione all’unità, così prepotentemente affacciatasi nel corso del Novecento, sia stata prerogativa di tutte le grandi epoche della teatralità d’occidente. Non vorremmo essere equivocati: non si vuol dire qui che il fenomeno registico con tutta la consapevolezza critica, con tutto l’alto grado di perizia formale che ha saputo imprimergli la sperimentazione novecentesca, sia fenomeno estensibile al passato. Una scrittura della scena, intesa come organismo dotato di una coerenza e di una autonomia strutturali del tutto analoghe a quelle che si era soliti riconoscere allo spartito drammaturgico, è senza dubbio una conquista recente.

La teatralità anteriore ci ha offerto lo spettacolo, non certo i supporti di una sua rigorosa fondazione estetica. Quel che si vuole viceversa dire è che quell’aspirazione all’unità, quella volontà di por fine al dissidio tra una concezione letteraria del teatro e l’esigenza d’una traslazione della parola nello spazio reale della scena quale si è realizzata nel Novecento ad opera della Regia, è propensione macroscopicamente leggibile in tutte le grandi epoche della teatralità. Quest’ultimo punto va sottolineato in maniera particolare.

L’adozione di un certo tipo di spazio teatrale non riguarda infatti semplicemente la storia della scenografia o delle architetture teatrali, come si trattasse di problema puramente tecnico tale da essere esaminato indipendentemente da quel piano più complesso in cui va collocata la stessa storia del dramma o, in senso ancor più ampio, del divenire storico-sociale.

Ciò sarebbe vero se lo spartito drammaturgico, la parola teatrale, non rappresentasse che uno spezzone di letteratura pura, neutrale rispetto alla scena che l’ospita, capace di vita propria anche al di fuori dello spazio teatrale. Al contrario, la scrittura drammaturgica delle grandi epoche della teatralità non solo mostra evidenti i segni di un’aspirazione allo spazio della scena – e ciò nella misura in cui il teatro è fra le arti quella che più prepotentemente incarna il senso dell’esserci qui e ora, evento concreto di fronte a un pubblico concreto – ma è altresì concepita in funzione di un “certo” tipo di scena, sia esso quello previsto dalle convenzioni vigenti, uno spazio dunque in qualche modo istituzionalizzato, sia quello di un’ipotetica scena avvenire, spazio per eccellenza antagonistico e dissacratore. È questo un rilievo assolutamente da meditare. Molto spesso nella storia del teatro talune etichette di letterarietà e, conseguentemente, di irrappresentabilità, di cui sono stati gratificati certi impianti drammaturgici, oppure, al contrario, talune accuse di grossolanità estetica promosse nei confronti dei testi di grande valore, nascondono in realtà una forma mentis che nell’atto stesso di giudicare un testo si arrocca, consciamente o inconsciamente, su modelli di gusto ispirati alle convenzioni sceniche vigenti.

Per i teorici del classicismo francese, tanto per citare un esempio, lo sconvolgimento delle unità aristoteliche proprio di quelle letterature drammatiche, che avevano trovato il loro nodo focale nel palcoscenico multiplo a luoghi deputati della sacra rappresentazione o nella scena a sperone elisabettiana, era sinonimo di aberrazione, di perdita di unità e misura, di degradazione estetica.

Una fondamentale incapacità di concepire forme di teatralità, che non fossero quelle contenute o contenibili nello spazio chiuso della scena all’italiana, della scena a prospettiva in profondità, è alla base di questa stroncatura.

Quando la scena cubica s’impone in qualche modo “universalizzandosi,” essa funziona da spazio costrittore, normativo, tale da reprimere ogni ventata insubordinativa.

La scarsa considerazione goduta da Shakespeare nel ‘700, ove si escluda Lessing, è un segno paradigmatico di questa propensione. Ma il recupero shakespeariano di Lessing, la sua rilettura della Poetica di Aristotele in chiave polemica rispetto alle interpretazioni canonizzate dal classicismo francese, va appunto inteso come uno dei primi e piú violenti attentati all’egemonia della scena cubica, detentrice di quell’ideale di compostezza e misura che aveva trovato il suo corrispettivo in un teatro privo di spontaneità e di azione, chiuso nell’intellettualismo di una regolamentazione astratta. Eppure la scena all’italiana, nella versione impressale dal classicismo francese, si era rivelata un formidabile supporto per la canalizzazione di una certa immagine dell’uomo ottenuta ponendo il palcoscenico come luogo di rivelazione di “passioni” e “sentimenti,” la cui esplicazione rinviava a un campo di forze psichiche decifrabili interamente attraverso il linguaggio dei segni verbali. Tutto il teatro di Racine rivela questa perfetta sintonia tra un certo tipo di poetica drammaturgica e un certo tipo di spazio teatrale. Ma quando all’orizzonte della drammaturgia d’occidente s’affaccia quel gruppo di autori tedeschi (Lenz, Kleist, Hölderlin, Büchner) deliberatamente ostile all’immagine dell’uomo di cui la “boîte,” la “scatola magica,” la scena a prospettiva in profondità, era stato il contenitore indiscusso, quel gruppo di autori per cui “i movimenti dell’anima”, il proliferare misterioso della passione, non rappresentano altro che inutili e artificiose sovrastrutture, la normatività delle istituzioni sceniche vigenti nega loro letteralmente la parola. Icasticamente G o e t h e definisce la loro drammaturgia “teatro invisibile”: teatro, cioè, privo di scena, di spazio fisico di collocazione, proprio perché estraneo, da un punto di vista drammaturgico, a quell’insieme di convenzioni che sole ne avrebbero reso possibile l’inserimento nella scena all’italiana. Teatro invisibile, drammaturgia senza spazio scenico: esempio più macroscopico non poteva esserci del potere costrittivo esercitato da una scena nei confronti della creazione drammatica, del nesso esistente tra il teatro e il suo spazio. Fino a che le pareti della “boîte” non scoppieranno attraverso la rivoluzione novecentesca, e con essa la normatività di un’immagine teatrale dell’uomo ritenuta la sola possibile, la drammaturgia di Lenz, di Büchner, di Kleist, di Hölderlin, drammaturgia antagonista per eccellenza, sarà destinata al buio del non-essere.

Se il Novecento ha potuto intraprendere un processo di rilettura di questi autori, scoprendovi una dimensione drammaturgica che il secolo precedente aveva ignorato, ciò è avvenuto attraverso la liquidazione progressiva di quell’insieme di convenzioni di cui la’ scatola cubica aveva rappresentato l’ “analogon” fisico. Restituire cittadinanza sulla scena a tipi di scrittura eterodossi rispetto al loro tempo ha voluto dire per la regia moderna riformulare le leggi dello spazio teatrale, indagare i risvolti interni di quella scrittura per estrarre da essa, e da essa soltanto, i parametri della sua significazione scenica.

Man mano ci si avvicina alle soglie del Novecento, e cioè all’esatto punto in cui la regia acquista consapevolezza di sé, ponendo sul tappeto il problema della propria sussistenza quale arte autonoma a partire dalla necessità di una strutturazione unitaria del fatto teatrale, è proprio questa preoccupazione dell’unità, intesa come fondamentale apriori estetico, ad orientare gli uomini di teatro verso una nuova qualificazione del rapporto tra una certa forma drammaturgica e lo spazio scenico, da risolversi in maniera che tra l’uno e l’altra si istituisca un nesso di perfetta adeguazione. Fino a che punto, infatti, Shakespeare può patire le costrizioni della scena all’italiana, della scena a prospettiva in profondità, senza che il particolare “ritmo” della sua drammaturgia, creato in funzione del simultaneismo del palcoscenico elisabettiano, non venga irrimediabilmente distrutto?

Discorso che, se vale per Shakespeare, vale in pari misura per Sofocle o per il mistero medievale e, più in generale, per tutte le drammaturgie concepite per una cornice spaziale irriconducibile, se non a prezzo di patimenti esiziali per quel che concerne l’efficacia poetica, al dispositivo della “boîte”.

In questo senso per molti registi del primo Novecento il contatto con il palcoscenico ha rappresentato anzitutto la presa di coscienza di una duttilità dello spazio, capace di contrarsi o dilatarsi in relazione alle necessità dell’opera rappresentata, cosa impossibile fin tanto che le

rigide pareti del quadro di scena proprie del teatro all’italiana imponevano la loro normatività pregiudiziale. Proprio nel preciso istante in cui la scrittura scenica tende a rivendicare una sua autonomia creativa e il regista rinuncia al ruolo di “interprete” per offrirsi tout court come creatore, il problema della ricerca di una nuova spazialità al di fuori delle costrizioni imposte dalla “boîte” tende a identificarsi con quello della messa a fuoco di una libertà demiurgica di espansione. È chiaro: la presenza di uno spazio obbligato, di un dispositivo costringente, rappresenterebbe un apriori invalicabile per le ambizioni di quanti vorrebbero il regista come deus ex machina di un materiale informe, da modellare a proprio talento.

Si potrebbe così sostenere che, a una deflagrazione della “boîte” agita nell’intento di stabilire un nesso più intimo tra spazialità teatrale e struttura interna dei drammi rappresentati, subentri progressivamente una ricerca dello spazio non più richiamata dalle linee vettrici del testo, ma dall’esigenza di una sorta di teatralità pura, di un linguaggio fisicizzato che possa differenziare la scena non solo dalla letteratura, ma da tutti i restanti mezzi artistici di espressione, soprattutto tenuto conto della riscoperta del pubblico in quanto ingrediente di fondo del fatto teatrale.

L’evoluzione del concetto di spazio scenico, così come si è attualizzata a partire dalla fine del secolo scorso, si iscrive di conseguenza di diritto in quel processo attraverso cui la scrittura della scena afferma progressivamente la propria autonomia, prima mediante la decifrazione della propria “impurità” estetica, poi con la rimozione o il tentativo di rimozione di tutte le componenti di tale “impurità,” al fine di offrire all’operatore scenico un campo d’azione svincolato da ogni ingerenza estrinseca. Nello stesso tempo in cui il nuovo demiurgo della scena, il Regista, si libera della tirannia dello spazio, imparando ad usare di quest’ultimo come di una categoria mobile e plasmabile, e questo spazio riscoperto usa come supporto per la conquista di un tipo di linguaggio che non è più letterario ma squisitamente teatrale; in altre parole, nello stesso tempo in cui attraverso lo spazio riscopre il Teatro, avverte tutta la vacuità di una concezione che distinguendo – o meglio ancora opponendo – Autore Drammatico e Operatore Scenico, mortifica nell’atto stesso del suo nascere il fatto teatrale.

L’ “unificazione dei poteri” su cui concordano esplicitamente un Appia, un Craig e un Artaud, la necessità cioè che a una sola Entità, al di fuori d’ogni dicotomia, venga demandato il compito della creazione teatrale, è una conseguenza diretta non solo dell’acquisita coscienza che non possa esistere teatro al di fuori dello spazio fisico della scena, ma altresí del tradimento perpetrato dall’Autore Drammatico tutte le volte in cui opta per un tipo di linguaggio passibile di esistenza anche al di fuori della scena, un tipo di linguaggio “de-teatralizzato’ perché frutto di strategia letteraria di composizione.

[Tratto da Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, vol. 37: Letteratura 2, a cura di Gabriele Scaramuzza, Feltrinelli, Milano 1976, pp 569-584]

ISSN:2037-0857