Cultura e tecnologia della menzogna
Felice Accame
Anche gli animali – quando ci vuole ci vuole – a quanto sembra non sanno farne a meno. La volpe e il coyote si fingono morti per essere avvicinati da gazze e corvi incauti. Il babbuino vede una femmina che ha trovato del buon cibo, urla come un ossesso come fosse vittima di chissà quali molestie fino ad attrarre l’attenzione di una femmina di rango superiore, questa arriva, usa della propria autorità per allontanare la femmina presuntamene colpevole e il babbuino maschio, furbo, si pappa tutto lui. Il cane di Lorenz non ci vedeva un granché: entrava il padrone dal cancello del cortile e lui gli si avventava contro abbaiando ferocemente. Appena si accorgeva di chi era, dopo un attimo di perplessità, continuava a correre nella stessa direzione, superava il padrone e abbaiava come un ossesso contro estranei inesistenti, al di là del cancello. Esperti in bugie. Mai esperti, comunque, come gli esseri umani.
Nel 1921, l’americano John Larson inventa il “lie-detector”, ovvero la “macchina della verità”. Era il sogno di ogni teorico del controllo sociale: affidare ad un marchingegno – che, come tale, dovrebbe rappresentare il massimo della neutralità – l’individuazione del bene e del male insito nell’animo umano, il giudizio “giusto” che sancisca una volta per tutte la certezza del diritto, l’assoluzione o la condanna priva di eventuali rimorsi tardivi. Anni dopo, Larson dirà: “Ho creato il mostro di Frankestein e poi ho passato quarant’anni della mia vita a cercare, inutilmente, di distruggerlo”. Lui – come tanti altri – si era reso conto che il marchingegno non garantiva alcunché, ma il sistema poliziesco americano continuava a fare spallucce: bando alla curiosa tesi di quel mattoide di un Von Foerster – secondo il quale “la verità è l’invenzione di un bugiardo” – e viva la visione manichea della vita. Una società ordinata necessita del bianco e del nero facendo a meno volentieri di altri colori e sfumature.
Grossomodo, il lie-detector teneva sotto controllo, incrociandoli, i dati relativi al battito cardiaco, al ritmo respiratorio ed alla pressione arteriosa – presupponendo che tali fattori risultino variabili in rapporto alla bugia. In tempi più recenti, si è aggiunto il controllo dell’iride – perché mentendo si rilascia adrenalina e i vasi sanguigni si dilatano – e la sudorazione – con sensori applicati alle dita delle mani. Ma la tecnologia avanza – mentre la cattiva coscienza permane.
Hanno già superato la fase sperimentale apparecchiature che, analizzando il livello di stress delle corde vocali da cui gli improvvisi mutamenti nel tono della voce, mirano ad individuare i bugiardi al telefono. Mentre proseguono sempre più sistematicamente le applicazioni di quella risonanza magnetica funzionale e affini che indaga sulle aree cerebrali attivate in concomitanza con risposte verbali e comportamenti, registrando altresì consumi di ossigeno e di glicogeno. Per la sopravvivenza del bugiardo – o, meglio, del bugiardo povero e alla mercé del bugiardo potente –, dunque, sembra essere soltanto questione di tempo.
Una luce residua, tuttavia, mi giunge da due episodi raccontati dal conservatorissimo francese Paul Bourget in quella sua Fisiologia dell’amore che scrisse più di cent’anni or sono. Il primo concerne Balzac, che aveva l’abitudine di andare ospite a cena portandosi in tasca le ultime pagine uscitegli dalla penna nelle sue interminabili notti di veglia a base di dosi da cavallo di caffé. Una sera legge la lettera che una sua eroina scrive all’amato – un poeta – dopo aver preso la decisione di suicidarsi: gli confessa non so più quali colpe, gli dice che gli lascia settecentocinquantamila franchi (i poeti non aspettano altro) e si dispera per il prossimo futuro: “Chi è che ti farà, come me, la discriminatura nei capelli ?”. Bene, a quanto sembra, Balzac riusciva a piangere – a tavola, mentre leggeva quanto aveva scritto lui stesso.
Il secondo episodio è una pagina di diario dello stesso Bourget. Una volta, assieme a Barbey d’Aurevilly – l’autore de Les diaboliques –, va ad uno spettacolo di acrobati. Vedono “un trapezista mutilato (aveva una gamba sola) che eseguiva volteggi incredibili, a giro di polso, su di una sbarra fissa. Quest’agilità rendeva più scoranti i saltelli d’insetto ferito con cui, finito il suo esercizio, il disgraziato ginnasta tornava al suo posto, sull’unico piede”. Ma, tre anni dopo, Barbey d’Aurevilly, ad una cena, lo interpella dall’altro lato del tavolo:; “Vi ricordate quel danzatore sulla corda che aveva una gamba sola…”.
Un’ultima barriera difensiva della parte più intima di noi stessi, dunque, c’è. Mentire a se stessi, come Balzac – che riesce a commuoversi di una situazione inventata da lui stesso –, o costruirci falsi ricordi – come Barbey d’Aurevilly – che riorganizza la propria esperienza affinché risulti funzionale alla sua ricerca dell’estremo e del paradossale. Ma, senza forse, la soluzione costituisce un costo eccessivo per l’ormai modesto portafoglio della dignità umana.