philosophy and social criticism

Decisione come volontà o come scelta

Ágnes Heller

Fu lo stesso Carl Schmitt a coniare il termine «decisionismo» per caratterizzare le teorie politiche che condividono almeno tre tratti distintivi: attribuiscono un’importanza fondamentale alla decisione nelle questioni politiche; concepiscono la sovranità come potere ultimo di decisione; vedono nella condizione eccezionale (lo stato d’emergenza) la manifestazione più pura, oltreché il modello operativo, del potere ultimo. Inoltre, Schmitt attribuì un’antropologia pessimistica ai filosofi e ai giuristi decisionisti.
Ecco, a mio avviso, un’interpretazione abbastanza precisa e puntuale dell’approccio teoretico favorito da Schmitt. Con l’eccezione d’una tradizione cattolica profon­damente conservatrice (e spesso non ortodossa), Schmitt include solo pochi grandi filosofi fra i ranghi dei decisionisti: Hobbes, il Rousseau del Contratto sociale, il Machiavelli del Principe. Anche qui, Schmitt non si preoccupa d’un’interpretazione testuale, bensì usa con libertà le idee. Un buon esempio è la sua frequente citazione del motto di Hobbes: «Auctoritas, non veritas facit legem», come parola d’ordine del decisionismo. Va da sé, la suddetta frase, coniata per smascherare pie menzogne e per riassumere la saggezza quotidiana sulla realtà delle cose, non contiene un grammo di decisionismo. Infatti, solo la risposta all’ulteriore domanda: «Quid (quis) facit autorita­tem» può stabilire la tendenza decisionista (o antidecisioni­sta), teoreticamente e praticamente. Il decisionismo è tutto frutto dell’ingegnò di Schmitt, ed egli stesso sarebbe l’ultimo a negarlo.

Tutti i punti principali del credo decisionista sono polemici e fortemente connotati politicamente. Ancora una volta, questo era già nelle intenzioni di Schmitt: la scienza, e la scienza politica in particolare (o la politica basata sulla scienza) per lui sono, come la democrazia di massa, un serio sintomo di degenerazione. Di questo crimine, egli si dichiara innocente. Nel suo pensiero, decisionismo e dogma sono intimamente legati e, anche se gli esempi che egli adduce al proposito non sempre convalidano tale collegamento, Schmitt (sulle orme di Donoso Cortés) ne sostiene l’esistenza. Quand’anche la teoria di Schmitt sull’origine teologica di tutto il vocabola­rio della politica moderna fosse, come suggerisce Blumen­berg, completamente sballata, la tesi della secolarizzazione occupa in realtà un posto fondamentale nell’autolegittima­zione teoretica di Schmitt. Egli infatti non pretende mai d’aver trovato una base secolare per le sue proprie categorie; come ha evidenziato Heinrich Meier, Schmitt resta impegnato a favore della dottrina cattolica (pur liberamente interpretata). Più che essere veramente since­ro, Schmitt fa sfoggio della propria sincerità. Detto per inciso, non si può trascurare come l’autolegittimazione per «sincerità», o schiettezza, sia un tratto comune al radicali­smo tanto di destra che di sinistra. Ma, a differenza degli ideologi del nazismo, del bolscevismo o del fascismo, la pretesa sincerità non fu in Schmitt, almeno per quanto riguarda le sue capacità di teorico della politica e della legge, fraudolenta.

Ogni volta che Schmitt parla di decisione, egli identifica la decisione con la funzione o la manifestazione della volontà. E il più delle volte, Schmitt fonde totalmente decisione e volontà. E poiché la volontà è strettamente personale, anche la decisione non può che essere personale. E, poiché la volontà è ben lungi dall’essere buona volontà, data la natura pervertita della nostra specie, la decisione non può fondarsi né su Dio né sulla Verità, quale che essa sia.

Autore altrimenti non sempre coerente, Schmitt si rivela fortemente coerente nell’uso del termine «decisionismo». E’ così che il termine «decisionismo» ha cominciato a godere di cattiva fama presso i razionalisti di diverso credo.

Nulla mostra meglio l’impatto di Carl Schmitt sulla filosofia tedesca dagli anni venti in poi della diffusissima accettazione del termine «decisionismo». Dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto in Germania, «decisionismo» stava per irrazionalismo, soggettivismo, ed era sinonimo di tutti i possibili vizi filosofici. Naturalmente, c’erano forti ragioni politiche per rifiutare il decisionismo di Schmitt, sospettato di bandire totalmente il problema della decisio­ne dal campo della filosofia, o di farne una macchia sull’onore della famiglia razionalista. La scelta fra sfere di valore proposta da Weber era per molti il marchio di qualità della teoria razionalista; e la teoria di Popper, secondo cui la stessa razionalità è oggetto di scelta, veniva ampiamente considerata una superflua concessione al nemico irrazionalista. Poiché il decisionismo doveva morire, morì anche la decisione. Ma una volta che il concetto (o la teoria) della decisione sia stata scartata, scompare completamente anche la teoria (e la filosofia) politica. Perché chiunque abbia praticato la politica, specie quella d’oggi, sa per esperienza dell’esistenza di decisioni che non possono essere totalmente fondate sulla razionali­tà, e della loro importanza nella vita politica. Inoltre, l’esperienza comune ci insegna che quanto più una decisione politica è cruciale, tanto maggiore è l’elemento d’incertezza, tanto maggiore è il rischio nell’atto dello scegliere, tanto maggiore è il salto. Sembra che Carl Schmitt non fosse del tutto fuori strada.

Riprendiamo le tre proposizioni principali della teoria decisionista di Schmitt. La prima afferma che la decisione è l’evento politico fondamentale. Tale tesi non prevede che la decisione sia l’unico evento politico. Ogni evento costituito o regolato dalla categoria binaria «amico­nemico» è, o può essere, politico, inclusi gli eventi che precedono o seguono una decisione, per esempio la guerra. Ma l’esistenza stessa di tutti gli eventi politici dipende da decisioni. La decisione è la concentrazione del potere politico.

La decisione è contrapposta alla discussione, all’applica­zione delle regole, e, da ultimo, all’applicazione dei risultati d’un’indagine scientifica. La prima contrapposizione è un fiero attacco al liberalismo, la seconda una sfida tanto al liberalismo che al positivismo, e la terza serve a confutare il positivismo. Ciascuna di queste tre contrapposizioni ebbe una forte presenza nelle teorie politiche degli anni venti, sia pur separatamente.

Conosco solo un altro teorico, oltre a Schmitt, che le abbia considerate tutte e tre, vale a dire Karl Mannheim. Le osservazioni di Mannheim sull’inevitabilità della scelta e del rischio sono analoghe a quelle di Schmitt, tuttavia egli era intellettualmente ed emotivamente devoto ad altre divinità. Nell’ambito di quest’indagine, è possibile eviden­ziare solo le principali differenze fra i fondamenti ontologici di Schmitt e di Mannheim. Per Mannheim, la decisione non può essere una questione personale, anche se tutte le persone decidono per proprio conto, dato che gli uomini e le donne che li rappresentano sono proprio le rappresentazioni estreme e condensate d’una coscienza collettiva (di gruppo). Nella filosofia della coscienza, il potere è sempre il potere d’una collettività, mentre nella filosofia della volontà il potere è in definitiva personale. Ovviamente, anche se Mannheim e Schmitt parlano di decisione e dell’inevitabilità della decisione nella vita politica, essi intendono due cose diverse col termine «decisione», benché entrambi indaghino i medesimi eventi. Perché la decisione di Mannheim, anche se innovativa, non può essere il principale evento politico, giacché è solo la punta dell’iceberg. Dietro tutte le scelte e le decisioni aperte e ponderate, sono al lavoro le immagini semiconscie della «coscienza di gruppo». Il caso di Mannheim non è che un esempio per suffragare la mia ipotesi secondo cui si possono dare resoconti molto diversi dell’atto della decisione a seconda delle posizioni ontologiche assunte. Dal punto di vista teoretico, mettere resoconti così divergenti nello stesso mucchio è un’operazione in perdita.

Il colpo inferto dalla tesi di Schmitt è forte, ma la sua posizione non è unica. Schmitt emargina la discussione come evento politico per schiaffeggiare i liberali che, stando alle apparenze, amano le discussioni solo perché politicamente timorosi e decadenti. Lenin, nel Che fare, ha un analogo piglio di fustigatore intellettuale. Alla discus­sione Lenin contrappone l’azione, mentre Schmitt oppone la decisione. Entrambi sono mossi dalle stesse ragioni; fra le altre, il preferire l’omogeneità all’eterogeneità. Dal punto di vista teoretico, la concezione di Lenin è ben più nebulosa di quella di Schmitt. La decisione come evento personale da un lato, l’omogeneità dell’atto politico dall’altro, si fondono se decisione s’identifica con Volontà. Ma gli interessi di classe e l’azione di classe non offrono lo stesso solido sfondo teoretico per un’analoga fusione.

La seconda tesi di Schmitt vuole che la sovranità poggi sul potere ultimo di decisione. Finché la decisione viene intesa come una manifestazione della Volontà in quanto volontà personale, il modello di sovrano perfetto è la personale singola. Fu Hegel a chiarire efficacemente questo punto. Nella sua Filosofia del diritto (paragrafi 275-279), Hegel parla della sovranità come dell’individua­lità dello Stato che dovrebbe essere incarnata in un individuo singolo, cioè il Monarca. Questo potere di sovranità del principe comprende la «modalità della decisione ultima», in particolare nella «situazione d’emer­genza». Hegel si scontrava con questo problema, perché egli era a favore dell’eterogeneità, non dell’omogeneità. La dialettica produce qualcosa che senza dialettica non esisterebbe. La singola Volontà decide, ma volontà personale non significa volontà d’una persona poiché, nella visione di Hegel, il potere del principe possiede in sé l’eterogeneità e la diversità della costituzione nel suo complesso. Da questo punto di vista Hegel ammette che la sovranità del principe è sovranità popolare. Schmitt accoglie l’intero apparato dell’argomentazione di Hegel,

ma non la dialettica. A suo modo di vedere, un corpo politico eterogeneo è inadatto alla politica. Il Monarca creato a immagine di Dio è l’esempio perfetto di sovrano. Ma se la monarchia diventa sorpassata? In questo caso, Schmitt non dà che due soluzioni, una alternativa all’altra: dittatura o democrazia fondamentalista; dittatura totalita­ria o democrazia totalitaria.

La sovranità è la volontà dello Stato. La definizione alternativa di sovranità, cioè sovranità come fonte di tuttii i poteri, per Schmitt è inaccettabile e non solo per motivi filosofici, come per Hegel. Se la sovranità è la fonte di tutti i poteri, la delega del potere diventa un’opzione ragionevo­le; rappresentanza e parlamentarismo diventano forme politiche praticabili, il contrasto di interessi, la discussione, il compromesso diventano eventi politici ammessi. Non solo Schmitt, ma tutta la filosofia radicale in generale disprezza questa concezione alternativa di sovranità. La Arendt, per esempio, elogiò la Rivoluzione americana per la presunta assenza del concetto di sovranità nella sua cornice istituzionale. La Arendt, a differenza di Schmitt, difese fieramente eterogeneità e discussione. Tuttavia, ed è rimarchevole, non riuscì mai a superare l’identificazione di decisione e volontà. Ecco la ragione principale per cui la Arendt dovette trascurare nella sua filosofia politica il problema della decisione. Concentrò la sua attenzione piuttosto sulle azioni pure e semplici e assegnò agli attori politici l’umana capacità di giudizio.

S’assuma che la sovranità è la fonte di tutti i poteri. S’assuma l’esistenza della sovranità popolare (che cioè l’intera popolazione sia la fonte di tutti i poteri). Secondo quest’interpretazione, una popolazione scombinata, etero­genea, pervasa da interessi e conflitti può benissimo essere sovrana, ma è assai difficile che abbia un’unica Volontà. E’ lo stesso problema che affrontò Rousseau con la «volonté de tous». Nondimeno, in tale corpo politico vengono prese delle decisioni. Quelle decisioni possono essere gli eventi politici più importanti, così come possono implicare rischi, determinazione e molte altre tendenze normalmente considerate funzioni ascritte alla capacità umana che la filosofia ha istituito e battezzato come la «Volontà».

Ho già notato come l’identificazione (non dialettica) di decisione, volontà e sovranità, abbia lasciato ai tempi moderni due opzioni politiche: dittatura o democrazia fondamentalista. In Schmitt, le due opzioni non s’escludo­no a vicenda. Il collegamento con la dittatura è una mossa ovvia e teoricamente in perdita. La vera forza teorica della tesi di Schmitt poggia sulla sua calzante distinzione fra liberalismo e democrazia.

L’omogeneità della volontà fa della democrazia una reale opzione politica. Un popolo può essere sovrano d’uno Stato, posto che decida come una persona unica dotata d’un’unica volontà. L’entità singola, l’Uno, sta per omoge­neità (anche nella misteriosa realtà dove prende il nome di «sistema di partito unico», o «ein Volk, ein Reich, ein Fúhrer» ). Senza tanti ritocchi, Schmitt si serve del concetto rousseauiano di «volontà generale» per seguire un suo scopo. Il gesto più tipico ed encomiabile della sovranità popolare è l’esclusione dell’Apro, del Diverso. La volontà può essere una, se la visione delle cose è una, se la morale è una, se lo stile di vita è uno. L’estraneo, l’altro, mette in pericolo l’unità di quella volontà. Schmitt cita l’esempio della politica dell’Australia bianca (benché con gli anni venti egli avesse sotto mano esempi anche più efficaci).

Se la decisione democratica dovesse manifestare la volontà generale, e manifestarla interamente, il liberalismo sarebbe certamente non democratico. La diversità non solo è riconosciuta, ma protetta da diritti, né si richiede vigilanza e attività politica da parte della maggioranza o della minoranza. La democrazia liberale, 01a democrazia di massa, o la democrazia plebiscitaria sono tutte in qualche modo carenti di spirito democratico in questo senso stretto. C’è tanto di vero quanto di falso nelle appassionate critiche di Schmitt alle democrazie moderne. Ma le alternative sono malposte. Sostenere che nelle democrazie di massa vi sia carenza di democrazia in questo senso stretto può essere vero, ma non certo per eccesso di liberalismo. Non c’è dubbio che i rimedi proposti da appassionati ogomeneizza­tori come McCarthy o Le Pen ucciderebbero il paziente. A mio avviso, il dilemma ruota attorno a un problema filosofico, anche se a tenerlo in vita sono considerazioni d’ordine politico. Finché s’identificano Volontà e decisio­ne, è difficile trovare all’impasse una via d’uscita soddisfa­cente dal punto di vista teorico.
Con la terza tesi schmittiana ci troviamo di fronte all’eccezione che illumina il caso generale. Il potere di decidere lo stato di emergenza (e il potere durante tale stato) è la manifestazione ultima della sovranità.

I pensatori radicali degli anni Venti e Trenta erano tutti infatuati delle situazioni limite; lo era anche Carl Schmitt. La situazione limite è lo spartiacque fra la vita e la morte. E’ qui che si prendono le decisioni ultime, è qui che gli uomini hanno bisogno di raccogliere la loro forza di volontà e d’agire col massimo di vigore e di forza. Le situazioni limite sono la verifica ultima; qui gli uomini mettono alla prova se stessi, il loro valore viene alla luce nel contesto in cui Schmitt inserisce lo stato d’emergenza. Lo stato d’emergenza è un sottocaso di situazione limite, è la suprema situazione limite politica. In tal caso a venire alla luce non sono il valore o la pochezza morale d’una persona, bensì l’autentica sovranità d’uno Stato sovrano.

Lo stato d’emergenza è un’eccezione, così come sono un’eccezione le situazioni limite in generale. Ma Schmitt intende dimostrare qualcosa di più di quest’equazione che è un luogo comune. Schmitt vuol provare che: la situazione eccezionale si manifesta solo nelle situazioni limite; lo stato generale, lo stato comune, può essere compreso attraverso le modalità d’una situazione limite (l’eccezione); le situazioni limite (e fra esse lo stato d’emergenza) sono condizioni tipiche di eventi tipici.

A sostegno della sua teoria, Schmitt cita Kierkegaard. Anche in questo caso, Schmitt ha qualche trascuratezza nello scegliersi gli alleati. Eccezion fatta per un’unica correlazione, Kierkegaard sostiene tutto il contrario di quel che gli fa dire Schmitt. Come tanti altri, anche Schmitt segue la linea indicata dal motto francese:  «je prend mon bien où je le trouve»: non si può certo condannarlo per questo. Tuttavia le reali intenzioni teoriche di Kierkegaard offrono un buon terreno per seminare il dubbio sui modi facili di Schmitt nell’affrontare certe questioni.

Kierkegaard effettivamente osservò come l’eccezione illumini il caso generale. Tuttavia nel pensiero di Kierke­gaard ogni persona è un’eccezione, e quindi l’eccezione stessa è il generale; l’individuo, il singolo, l’eccezione sono l’universale. Uomini e donne possono essere tipici in qualsiasi situazione: le situazioni limite non godono d’alcuna situazione specifica. Piuttosto, è vero l’esatto contra­rio: l’uomo etico e il cavaliere della fede vivono una vita ordinaria. L’aspetto straordinario delle loro vite consiste nella coscienziosità, nella spiritualità, nella libertà interna dell’attore, non nella spettacolarità delle sue azioni. La decisione è l’evento principale della vita d’una persona; ma questo non è lo stesso tipo di decisione che Schmitt affronterà poi. Kierkegaard identifica decisione con scelta, non con volontà. Ci sono diversi tipi di decisioni. Quella fondamentale è scegliere se stessi, o non riuscire a compiere questa scelta; e ce ne sono altre, di maggior o minor importanza. Ogni decisione è un salto; ma i salti sono qualitativamente diversi per carattere. La scelta esistenziale è un balzo enorme, eppure ve ne sono altri, e alcuni banali.

Mi si lasci brevemente tradurre nel linguaggio della poltica la versione che Kierkegaard dà della decisione. La scelta esistenziale (il salto fondamentale) non rientra direttamente :zel campo della filosofia politica poiché è, e resta, una scelta personale, non politica. Gli uomini e le donne scelgono se stessi e solo se stessi. Ma la filosofia della scelta esistenziale ha ancora una certa attinenza con i presupposti antropologici della teoria politica. Il decisioni­smo di Schmitt è radicato invece nel pessimismo antropo­logico. Schmitt distingueva (a ragione) fra due tipi di pessimismo antropologico: il tipo Hobbes-Nietzsche e il tipo cristiano, in particolare di matrice luterana; e si sentiva
affine a entrambi. Perché, per quanto riguarda la filosofia politica, non fa grande differenza se gli uomini siano bestie sanguinarie per natura o se affondino nell’abisso della completa depravazione a causa del peccato originale. Schmitt dà il suo meglio quando mette in ridicolo certi ottimismi antropologici. Ma è sempre a disagio quando affronta antropologie più complesse, per esempio quella di Kant. Ho preso come riferimento Kierkegaard anziché Kant perché nella filosofia di Kant la decisione non gioca un ruolo (l’imperativo categorico non è oggetto di scelta). Eppure, Kierkegaard, pur nutrito di tradizione luterana e convinto che il peccato fosse il maggior problema teologico-filosofico, rifiutò il dogma della caduta dell’uo­mo. Gli uomini in genere non sono né buoni né cattivi, possono scegliersi come buoni, così come possono fallire la scelta. Possono anche scegliersi esteticamente, per restare aperti all’influenza del male al quale può darsi soccomba­no, come può darsi il contrario. In conclusione: la filosofia della scelta esistenziale non pregiudica la filosofia politica, lascia aperte tutte le opzioni.

Ora torniamo brevemente alle tre tesi principali della teoria politica decisionista di Schmitt. Ma, questa volta, non identificherò decisione con volontà, bensì con scelta. Che cosa accadrebbe della sua teoria dopo questa sostituzione?

Sono necessarie ancora due considerazioni preliminari. Primo, per scelta intendo un’autentica decisione politica, una determinazione d’un tipo che include rischi e che continua a essere un salto, forse non un salto nel buio, ma talvolta certo nel crepuscolo. Evidentemente, si possono fare delle scelte interamente fondate sulla razionalità. Ma sono tipi di scelte tecniche (burocratiche) e non tanto politiche, anche se s’attuano nell’arena politica. In senso strategico, nessuna vera scelta politica è interamente razionale. Ciò resta vero anche quando identifichiamo la razionalità con la razionalità di comunicazione. Quando si raggiunge un consenso completamente razionale, non c’è più scelta (tale è il caso descritto da altre teorie come omogeneità della volontà). Ma di rado si raggiunge un cc mpleto consenso razionale, giacché le decisioni politiche

non possono essere postposte ad infinitum; così, anche qui, la decisione possiede una componente non razionale. Ripeto, agire su basi puramente razionali è un atto interamente non-politico, oppure preclude le scelte (il primo capita sovente, il secondo è un evento raro). Ma la decisione e la scelta in politica sono qualcosa che riguarda la mobilitazione delle risorse nazionali disponibili: e tali risorse sono eterogenee, talvolta indicano strade diametral­mente opposte. L’antica questione platonica, se la politica sia un’arte o una scienza, ancora non ha perso rilevanza. Perché è nel momento della decisione che i due elementi vanno tenuti nel giusto squilibrio.

In quella che è una delle maggiori tradizioni filosofiche, la scelta veniva collegata all’atto della volontà. In tale contesto non posso sottoscrivere il rifiuto di questa tradizione. In ogni caso, la filosofia greca ignorava tutto della volontà. In Aristotele la decisione viene interpretata come scelta e segue all’atto della riflessione. Questo è il modello che io ritengo accettabile.

Dopo questa digressione, torniamo alle tre tesi di Schmitt. Ricordiamo la prima: la decisione è l’evento fondamentale della politica. Se l’atto della decisione è atto di scelta e non atto della volontà, decisione non è contrapposta a discussione. Ognuno può riflettere e dire: questa è la mia scelta. Ma evidentemente non è questa l’unica forma d’attiva partecipazione politica. Ci si può formare delle opinioni, avere dei punti di vista, esprimere le proprie necessità senza per questo pronunciare sentenze definitive per ognuno e per ciascuno dei casi in questione. Talvolta si prendono decisioni personali, talvolta no; talvolta occorre tempo per prendere una decisione. La discussione pubblica non sostituirà mai la decisione, può tuttavia diventare una componente rilevante nel corso del processo decisionale.

La seconda tesi è quella secondo cui la sovranità poggia sul potere fondamentale di decisione. Se l’atto della decisione non è un atto della volontà, bensì un atto di scelta, la sovranità è possibile anche in condizioni di diversità sociale e d’eterogeneità. La fonte di tutti i poteri è anche la fonte del potere (dei poteri) fondamentali di decisione. Eppure, questa fonte di tutti i poteri (per esempio, l’intera popolazione d’uno Stato) non può agire come il potere fondamentale (i poteri) di decisione. Si tratta, effettivamente, del più vecchio argomento contro la possibilità della democrazia nei grandi Stati; l’argomento è ancora valido. Ma la fonte di tutti i poteri (la sovranità) può ancora determinare il carattere dell’istituzione (delle istituzioni) entro cui vengono prese le decisioni finali, e può eleggere le persone che andranno a occupare le posizioni più rilevanti nel processo decisionale. Questo l’ideale della democrazia moderna. E se non funziona come dovrebbe, la colpa non è nel modello.
La terza tesi, ricordiamolo, dice che l’eccezione illumina il generale. La sovranità ultima si manifesta nello stato d’emergenza. La rilevanza o l’irrilevanza delle tesi di Schmitt dipende dal carattere delle istituzioni politiche. Non tutte le costituzioni comprendono disposizioni per la dichiarazione dello stato d’emergenza. Eppure talvolta
governi o presidenti prendono iniziative come se lo stato d’emergenza sia già in atto (senza in realtà dichiararne
l’esistenza, e anche nell’assenza di clausole costituzionali finalizzate a tale dichiarazione). Schmitt ha descritto piuttosto efficacemente la realtà delle cose. Nella sua visione, la realtà esprime l’idealità. Tuttavia, se la decisione non è l’atto d’una (singola) volontà, bensì atto di scelta, così come io ritengo sia, allora non vi sono ragioni filosofiche per vedere nella realtà delle cose così come si presentano all’osservazione empirica Ragione, Essenze, Concetti e simili. Meglio sostenere il principio che tutte le decisioni debbano essere sottoposte in ultima istanza alla giurisdizione del popolo sovrano. Se s’adempie pienamente a questo principio della democrazia moderna, sovranità reale e nominale coincidono.

Certamente, le decisioni prese in condizioni eccezionali sono le più rilevanti. Ma non è l’automanifestazione d’una sovranità ultima che esemplifica nel migliore dei modi il significato politico delle decisioni. Una delle condizioni eccezionali è la «rivoluzione politica», nel corso della quale una nuova sovranità si sostituisce alla vecchia. Le decisioni prese nel corso d’un simile processo sono assimilabili a una scelta esistenziale come solo nell’ambito politico è possibile. Un dramma politico di questo tipo si sta svolgendo sotto i nostri occhi nell’Europa orientale. Possiamo riconoscervi l’azione d’una volontà singola, omogenea, per usare gli stessi termini di Schmitt? Sì e no. Sì, perché ognuno vuole la libertà; no, perché la gente sceglie cose diverse, o semplicemente la condizione per poter scegliere quelle cose. Non c’è bisogno di decidere che cosa si vuole (la libertà), si deve però decidere che cosa si è pronti o non si è pronti a scegliere.

Dalla rilettura della difesa del decisionismo di Schmitt è dunque possibile trarre qualche lezione positiva. Le decisioni politiche non sono mai interamente razionali, ancorché secondo le condizioni e la pressione del tempo sia necessario posseggano un certo grado di razionalità. E’ sbagliato e miope vedere questo solo come una limitazione, una macchia o un’imperfezione. Gli elementi innovativi delle decisioni tengono conto dell’im­maginazione umana. Le istituzioni liberaldemocratiche devono porre dei limiti al potere d’immaginazione così che non siano consentiti esperimenti sociali senza un autentico consenso dei partecipanti. Entro questa cornice c’è una grande abbondanza di elementi innovativi; essi sono presenti ovunque: nelle azioni al di là della mera applicazione delle regole tecniche, nei giudizi, nel linguag­gio, nell’invenzione. E anche nella decisione politica in senso stretto. La politica continua a essere imprevedibile, affascinante, creativa; ma non sempre nella medesima misura. Ed è necessario che sia così. Le eccezioni spettacolari costituite dalle situazioni limite (proprio come i cambiamenti di sovranità) vanno e vengono; è pericoloso renderle croni­che. Ma è pericoloso anche dimenticare che l’eccezione è inscritta nel generale. Schmitt soccombette al primo di questi due pericoli; i suoi avversari talvolta soccombono al secondo.

(Traduzione di Laura Noulian)

[testo apparso su Mondoperaio, n. 7, luglio 1990]

Creative Commons License This opera by t ysm is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 3.0 Unported License. Based on a work at www.tysm.org.

ISSN:2037-0857