philosophy and social criticism

Dopo le passioni tristi. Incontro con Miguel Benasayag

M. D.

Nell’Epoca delle passioni tristi (Feltrinelli), il libro scritto con Gérard Schmit, lei osservava come la nostra società anziché elaborare la crisi che le fa da scenario, ne abbia tratto una sorta di ideologia, tanto pubblica quanto privata, capace di insinuarsi in ogni tipo di discorso, tanto pubblico quanto privato. Come vede le cose oggi, quando «crisi» sembra diventata una di quelle parole d’ordine che, come in un racconto di Céline, non servono neppure più ad aprire la porta di casa?

Credo esistano fenomeni di crisi molteplici, articolati intorno ad una crisi centrale, la crisi del cosiddetto «zoccolo» della modernità. Da questo punto di vista, possiamo dire che ciò che caratterizza una crisi è proprio l’effetto della correlazione intima tra la parte e il tutto, cioè tra individui e fenomeni sociali e storici. Allo stesso modo – ad esempio – possiamo dire che la vita degli individui nei periodi di crisi, si trova assai legata, direi addirittura troppo legata ai fenomeni sociali e storici; e non esiste quasi più spazio per quello che definiamo come minima incoerenza. Ogni gesto di un individuo e la realtà che lo condiziona esistono in una forte coerenza con l’insieme sociale al quale appartene. E questo avviene tanto nelle società in cui viviamo che in altre realtà nazionali a noi poco vicine. Questo è l’effetto della crisi in generale che si declina nelle crisi molteplici di cui la crisi economica attuale fa parte.

La crisi attiene e coinvolge anche una dimensione temporale e progettuale: il futuro…

La questione del futuro riguarda ciò che per molto tempo è stato assimilato a un futuro che noi chiamiamo lineare; il futuro era il domani e il dopo domani, situati cronologicamente. In realtà tutte le altre culture possiedono un certo equivalente a questo futuro che oggi viene chiamato: la «funzione-futuro». Tale «funzione» consiste nel «desaturare», nello svuotare il presente, dire cioè che questo presente in quanto realtà non è tale, non è totalmente vero, lasciando quindi spazio alla realtà e alle sue dimensioni virtuali che aprono qui e ora dei nuovi mondi possibili. Ed è così che per alcuni secoli il futuro è stato cronologicamente determinato e concepito come un elemento alquanto positivo (il futuro come promessa), quello stesso futuro cronologico è diventato oggi negativo (il futuro come minaccia).Il nostro impegno attuale, dunque, non consiste nella fabbricazione pezzo per pezzo di una nuova promessa per il futuro cronologico, forse la nostra sfida consiste nello spiegare i diversi possibili e i diversi virtuali nel nostro presente. La novità della nostra epoca è che il presente ha una dimensione più complessa, più profonda, pluridimensionale. Il futuro diventato minaccia provoca paura generalizzata, questa paura produce la rottura di tutti i legami in una specie di soggettività capace di dire soltanto: «si salvi chi può», ma in cui nessuno si salverà. La paura e la tristezza sono l’atmosfera della nostra epoca ed è proprio a questo che bisogna resistere. Nella dimensione individuale, questa situazione provoca depressione, alcolismo, tossicodipendenza e violenza, mentre nella dimensione sociale provoca lo sviluppo di nuove modalità di apartheid.

Come andare oltre questa «soggettività» disorientata, forse tornando al discorso sulla «comunità»?

Lo sviluppo dei legami che possono resistere alla distruzione attuale non mi pare in grado di ricostituire il senso di comunità. Esiste una differenza tra il legame comunitario e quello che chiamiamo il comune. Il comune si pone al di là di qualsiasi identità stereotipata, il legame e il comune sono puro divenire. È importante sviluppare dei legami che resistano all’individualismo ma anche al comunitarismo stereotipato.

Per alimentare legami di questo tipo è necessario sviluppare il conflitto?

Personalmente io provengo da una tradizione che articolava molto fortemente l’emancipazione individuale e sociale. All’epoca si parlava di marxismo-freudiano, mentre qui in Italia ancora esiste la tradizione antipsichiatrica di Trieste, con Basaglia e i suoi amici. Proprio in questo periodo ho iniziato una collaborazione con loro, poiché la resistenza contro la formattazione disciplinare neoliberale mi sembra essere un asse fondamentale. Non ci si rende conto a quale punto, nei paesi del nord del pianeta, la vita degli individui e gli stessi individui siano «formattati» e plasmati: la lotta contro la normalizzazione è fondamentale. Ogni giorno assistiamo alla produzione di un umano senza qualità e flessibile di cui si può disporre a proprio piacimento, ma questo fenomeno ha dei limiti molto concreti poiché si tratta di un processo morboso. Sul tema del conflitto, ho sviluppato un ragionamento con Angélique del Rey nel libro L’elogio del conflitto (Feltrinelli). La nostra idea è che la repressione del conflitto debba essere gestita ed affrontata rendendosi conto che il termine conflitto non implica semplicemente uno scontro. Questa può esserne una dimensione, certo, ma purtroppo in questa fase si cerca di semplificare la molteplicità dei conflitti riportandola alla sola dimensione dello scontro frontale. La semplificazione conduce alla produzione del «totalmente altro»: il terrorista, il pedofilo, lo straniero. Forme «altre», appunto, di quello che una volta era il pazzo, sebbene tale figura rimanga sempre attuale. La nostra idea è che si debbano sviluppare molteplici dimensioni del conflitto come sviluppo di una profonda democrazia e di una vita più piena. I giornali ci parlano continuamente e senza sosta di casi di follia violenta, Ma lo fanno per alimentare la paura e l’ideologia della sicurezza. Credo sia invece necessario capire fino in fondo che proprio lo Stato che non ammette rischi, mette il proprio popolo in pericolo.

Pinerolo, 14 maggio 2010

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