philosophy and social criticism

Girard e il suo doppio: i romanzi e la vita

di Francesco Paolella

Sarei tenuto, per prima cosa, a ripetere diffusamente quanto detto da molti all’indomani della scomparsa di René Girard, nell’ormai lontano 2015: i suoi libri, le sue ricerche continuano a rivelarci sempre nuovi aspetti, nuovi significati dei nostri “vizi” e delle nostre “virtù” di uomini moderni, i quali, però, solo apparentemente sono emancipati e liberi dall’eredità dei meccanismi antichi (o addirittura arcaici), propri della nostra vista sociale.

L’occasione giusta oggi è la nuova edizione, per i tipi di Bompiani, di Menzogna romantica e verità romanzesca, il primo libro di Girard (la prima edizione è del 1961) e dalla cui lettura (o rilettura) vediamo bene come già in esso fosse prepotente questa capacità di rivelazione dell’antropologo francese e come quella sua prima scrittura fremesse, in un certo qual modo, dal bisogno (mi verrebbe da dire: dal desiderio) di mostrare l’evidenza di cose nascoste fin dalla fondazione del mondo.

In questo volume non troviamo ancora il capro espiatorio e una visione compiuta del sacro, della storia e della realtà sociale, ma già compaiono i protagonisti di tutto il lavoro successivo di Girard, come il desiderio e l’imitazione, qui descritti attraverso i romanzi e attraverso un’analisi dell’epoca culturale in cui i romanzi sapevano realmente spiegare il mondo, oltre che raccontarlo.

Muovendosi da Cervantes e Stendhal a Dostoevskij e a Proust (anzi, per dire meglio: a Proust e, infine, a Dostoevskij), Girard non ha voluto certamente costruire una teoria letteraria, ma far emergere ciò che dai romanzi può ricavare una lettura non ideologica o “schiavizzata” dalle correnti dominanti della critica. Andando contro e al di là i clichés e gli automatismi della critica romantica, delle certezze soffocanti della filosofia positiva, del marxismo o dell’esistenzialismo, Girard ha preso in mano materiale incandescente e, per certi versi, scandaloso, come la Recherche proustiana o le Memorie del sottosuolo, per mostrarci fino a quale punto agisca, tanto nella coscienza individuale quanto nella esistenza delle masse, il «desiderio metafisico». Quella di Girard è una visione apocalittica della storia e della letteratura: attraverso il romanzesco, egli ci mostra quanto fittizia e, in fin dei conti, quanto sterile fosse la realtà del romanticismo, con i suoi miti di eroismo, distinzione e solitudine.

Ritroviamo, anche in questo primo Girard, l’evidenza, a suo modo conturbante, della resistenza di meccanismi “eterni”, quali, appunto, il desiderio triangolare e il mimetismo: la modernità non ha fatto altro che complicare e dissimulare le forze dell’imitazione, dell’invidia, dell’odio e dell’attrazione, le quali sono poi i motori dei pensieri e delle azioni degli uomini. Come scrive giustamente Dotti nell’introduzione,

«Non c’è nulla, o quasi, nei comportamenti umani, che non sia appreso, e ogni apprendimento si riduce all’imitazione. Se gli uomini, a un tratto, cessassero di imitare, tutte le forme culturali svanirebbero. I neurologi ci ricordano di frequente che il cervello umano è un’enorme macchina per imitare. L’imitazione – insiste Girard – è l’“intelligenza umana in ciò che ha di più dinamico”. Una formula semplice, eppure dotata di una logica ferrea: imito/desidero quindi sono. Declinata nella cornice di un mondo – il nostro – solo all’apparenza socialmente disintermediato, questa formula si potrebbe facilmente tradurre: I like, therefore I am».

TYSM REVIEW
PHILOSOPHY AND SOCIAL CRITICISM
ISSN: 2037-0857
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