philosophy and social criticism

L’ambiguo fascino dell’intellettuale

Rocco Ronchi

La verità, scrive Spinoza, è indice di se stessa e del falso. È luce che illumina e guida il giudizio, una luce nella quale, in quanto esseri razionali, siamo già da sempre situati. Detto nel linguaggio tecnico della filosofia, significa che la verità è interiore al pensiero e si definisce, non grazie al suo rapporto alla cosa, ma per «denominazione intrinseca». Lo stesso vale per l’infamia alla quale il filosofo ebreo, testimone e vittima della violenza dei fanatici, era altrettanto sensibile. Anch’essa non è il risultato di una valutazione umana, anch’essa è estranea alle oscillazioni del dubbio e alle incertezze della ricerca. L’infamia si mostra con la stessa potenza del vero e mostrandosi per quello che è, come pura infamia, mostra anche il suo altro, rende cioè in qualche modo ineludibile una risposta da parte del pensiero. Come la verità, manifestandosi, pretende di essere accolta pena il suo tradimento nella menzogna, così l’infamia, manifestandosi, chiede di essere respinta pena la sua condivisione nella complicità. L’annosa questione della responsabilità dell’intellettuale è interamente segnata da questa duplice «investitura»: egli è chiamato a rispondere all’appello della verità e è chiamato a respingere l’infamia, che, sul piano morale, è l’equivalente del falso.

Le misure discriminatorie nei confronti dei migranti contenute nel cosiddetto «pacchetto sicurezza», recentemente votato al Senato, sono un’infamia. Il fatto che questa infamia abbia il consenso non solo della maggioranza politica ma anche della maggioranza «morale» del paese non ha, dal punto di vista logico, alcun significato. Una falsità non cessa di essere tale se molti o tutti la condividono, così come una proposizione vera resta vera indipendentemente dal fatto che qualcuno la pensi tale. Le famigerate leggi razziali varate da Mussolini godevano di fatto di un uguale appoggio popolare.

Sul piano della riflessione storico-politica e antropologica è certamente utile, anzi indispensabile, interrogarsi sul perché, in periodi di crisi, la miseria reale del paese sia simbolicamente «risarcita» dai gruppi di potere dominanti con l’offerta rituale di capri espiatori sui quali sfogare la (demente) violenza collettiva. La questione dirimente che si pone oggi a chi si professa «intellettuale» è, tuttavia, anche e soprattutto un’altra. Non è infatti sufficiente solo comprendere, spiegare o, come si suole dire, «testimoniare». Jean Paul Sartre ha scritto a questo proposito una frase che merita di essere attentamente meditata: «Un atto di violenza non ha mai testimoni (…) il preteso testimone è di fatto un partecipante (…) il rapporto (è) immanente e non esteriore (…) quindi niente testimoni per la violenza, solo partecipanti». L’infamia non è un oggetto teorico che si può circoscrivere dal di fuori con lo sguardo obiettivo e non partecipato dello scienziato. L’infamia, come la verità, chiama a sé; l’infamia provoca il pensiero a rispondere.

Davanti all’infamia l’intellettuale è chiamato a scegliere. Deve decidere se parteciparvi nel modo della complicità, di cui la malafede, nella forma del disconoscimento dell’evidenza del fatto o della sua sottovalutazione, è la forma senz’altro più diffusa, oppure se denunciarla attivamente. Nel primo caso, evidentemente, tradirà la sua funzione di servitore della verità e verrà meno alla definizione stessa di intellettuale (sarà semmai un bravissimo «professionista» responsabile solo di fronte al tribunale astratto dei suoi obblighi professionali: come il militare di carriera, ad esempio), nel secondo dovrà «impegnarsi» in quanto intellettuale, vale a dire nella sua concreta forma di vita.

La natura di questo impegno deriva dalla natura stessa del lavoro intellettuale. Agli intellettuali la comunità riconosce, in ultima analisi, un residuo diritto alla parola. Tutta la loro debole autorità discende da questo riconoscimento pubblico che è consustanziale alla loro figura di intellettuali (e non di semplici «esperti»). Sebbene integrati nei meccanismi del mercato e della burocrazia statale, gli intellettuali sono comunque invitati a prendere la parola come intellettuali e a partecipare alla conversazione pubblica: insomma li si ascolta, magari distrattamente, per un’abitudine ereditata meccanicamente dal passato, per una sorta di feticistica devozione nei confronti dell’autorità del libro, per curiosità o per narcisismo, tuttavia li si ascolta ancora. Non si spiegherebbe altrimenti il successo di tante manifestazioni «culturali» né l’ostilità diffusa, quasi il sordo rancore, che, non tanto contro questo o quell’intellettuale, quanto per l’autorità immateriale che l’intellettuale ancora incarna, nutre chi dalla diffusione dell’odio e della paura trae la propria legittimazione politica.

Di fronte all’evidenza dell’infamia, non importa quale sia l’origine di questa autorità, che, come tutte le origini, pesca nel torbido (la separazione del lavoro manuale dal lavoro intellettuale, la divisione in classi della società ecc.). Importa la «debole forza messianica» che questa funzione continua a conservare come il pallido ricordo di una promessa che non è mai stata mantenuta. Avere il mandato della parola – fosse pure solo in attesa di essere definitivamente cancellati e ridotti al rango di tecnici o di opinionisti o di propagandisti – è un patrimonio che non può essere disperso con leggerezza. È la «responsabilità» dell’intellettuale. Chi, in nome di un superiore realismo, liquida tale parola mostrandone il carattere illusorio e l’impotenza reale parteggia in realtà per il rumoroso silenzio dell’avversario. Lavora per promuovere il deserto che segretamente desidera.

Finché, dunque, sarà possibile, si deve parlare contro l’infamia in tutti quegli ambiti in cui questa libertà è sopravvissuta e questa autorità riconosciuta. Bisogna farlo, io credo, a rischio di apparire sgradevoli e fuori contesto. Bisogna farlo sfruttando perfino il «fascino» – un fascino senz’altro ambiguo – che la parola intellettuale esercita. Astenersi, invece, evitare quei luoghi, ben riconoscibili, entrando nei quali, già per il solo fatto di essere presenti, si è privati della libertà di parola e, qualunque cosa si dica, si è anticipatamente messi al servizio della promozione dell’infamia. È molto poco, anzi pochissimo, ma senza questa etica e ecologia della comunicazione l’intellettuale si fa definitivamente complice e decade a appendice di un sistema che sta allegramente procedendo alla selezione di chi è degno e indegno di cure, assistenza e diritti.

[da il manifesto, 20 febbraio 2009]

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