philosophy and social criticism

Lavorare per forza

Francesco Paolella

 

Il lavoro ha perso la sua forza: la persona che è al lavoro, è consegnata a dispositivi onniscienti e soffocanti. E’ vero che il lavoratore (salariato, autonomo, freelance…) vive oggi una condizione di disagio ed è anzitutto una vittima: vittima della crisi, della tecnologia, della precarietà, della povertà. E’ in atto una epocale “rivoluzione passiva” che ha condotto le forze vive del lavoro nell’invisibilità: non c’è più una classe dei lavoratori, l’individualizzazione esasperante ha frantumato i legami, reali e possibili, fra i soggetti, consegnandoli appunto in una enorme zona grigia. «Il disciplinamento, la trasfigurazione e la rimozione della forza lavoro – la sua invisibilizzazione – sono l’esito di un’egemonia culturale così potente da aver spinto gli stessi lavoratori a credere di essere invisibili» (p. 10).

Oggi vediamo soltanto il lavoro ridotto a merce; d’altra parte, tutti e ciascuno siamo chiamati a essere, almeno idealmente, imprenditori di noi stessi, ognuno allo stesso tempo in competizione e in collaborazione con gli altri. Ognuno deve essere (e sogna di esserlo!) il proprio datore di lavoro. All’apparenza, il regno della libertà è arrivato: la subordinazione, la disciplina di fabbrica sembrano residuati dei secoli passati, vincoli che danneggiano e imbrigliano la “libera” espressione dei talenti e della creatività individuali. L’ambizione a diventare padroni (di qualcosa, del proprio tempo, della propria fatica, insomma in primo luogo di se stessi) è evidentemente collegata al narcisismo di massa e al bisogno crescente di sovranità, che accompagnano la rivoluzione digitale vittoriosa. Ognuno è dunque chiamato a governarsi, a essere il proprio guardiano e ad essere sempre pronto per ogni chiamata: dunque, bisogna sempre essere al lavoro, bisogna lavorare su di sé, sulle proprie competenze, sulla propria efficienza, sulla propria capacità di resistenza, sul proprio benessere (chi sta bene, rende di più) e sul proprio equilibrio psichico.

La teoria del “capitale umano” prevede appunto che, nel management di se stessi, tutto ciò che è negativo o rischioso ricada sulle spalle di chi lavora: chi non riesce a imporsi, chi è disoccupato, chi non è abbastanza produttivo, ha in sé un problema: è evidentemente inadeguato, è un fallito, non è capace di vivere come dovrebbe.

Come ben si vede, l’identificazione impossibile con il padrone, rende il singolo lavoratore un burattino infelice e inconsapevole. E ogni risorsa di chi lavora viene messa sul mercato e può essere scambiata come qualsiasi altro bene commerciabile. Sopra le nostre teste (anzi: dentro le nostre teste) vincono gli algoritmi, si è imposta una algocrazia tanto iniqua quanto, all’apparenza, imparziale. La tecnologia digitale ha portato con sé una nuova forma di pensiero magico: solo le macchine, solo i computer ormai sanno dirci la verità – una verità che, alla fine, è sempre a vantaggio di chi quelle macchine le controlla. Ha ragione Ciccarelli quando dice che la nuova cultura del lavoro, all’apparenza persino libertaria, è anzitutto misantropa: «è emersa una cultura misantropa dove le macchine sono umanizzate perché assumono il ruolo della forza lavoro, mentre gli umani sono ridotti a strumenti di servizio. La soggettività della forza lavoro è trasformata in un supporto automatizzato, privo di desiderio, investimenti senza oggetto e esperienza» (p.27). Questo è un passaggio centrale: il problema non sta tanto nel fatto che i robot, che l’automazione “rubi” posti di lavoro ai lavoratori umani (fenomeno peraltro imponente), quanto piuttosto nel fatto che gli stessi uomini siano diventati protesi delle macchine. Il lavoro ci sarà sempre: cambia e cambierà tanto, sarà sempre più povero, squalificato e sradicato; sarà ridotto a mezzo per aumentare la produttività della macchina: la logistica e tutto il mondo dei data workers lo mostrano già ora benissimo. Si è instaurato un regime di sfruttamento del lavoro povero digitale: i gig-works, i “lavoretti”, con la cosiddetta “uberizzazione del lavoro”, sono svolti da una forza lavoro ridotta in frammenti, che è “scarnificata”; sono svolti, come se tutto fosse un gioco, da una massa di lavoratori-folla, presi in una mobilitazione totale da piattaforme onnipotenti. Si tratta di un processo che riguarda tutti, non soltanto chi viene espulso dal mercato del lavoro “a causa” della innovazione tecnologica. Si è compiuta la fusione, l’ibridazione fra consumatori e produttori. Noi lavoriamo gratis per la rete, giocando; noi, gratificando il nostro narcisismo, produciamo i guadagni di Facebook: «tutte le relazioni sono trasformate in profitto. L’entusiasmo compulsivo generato dall’uso della piattaforma porta gli utenti a diventare involontari sostenitori del nuovo imperativo: il lavoro non pagato è un’attività naturale, inevitabile e persino appagante» (p. 59).

E’ difficile non arrendersi alla disperazione. Non appare nessuna liberazione possibile all’orizzonte, nemmeno soltanto ideale. Ha senso pensare un ritorno alle leghe, al mutuo soccorso di fine Ottocento? Chi lavora oggi finisce per essere sempre più simile a un apolide. Chi lavora non ha più una casa: anche i sindacati si stanno riducendo a pure società di servizi, dedicate forse più ai consumatori che ai lavoratori. Nonostante ciò, questo lavoro di Ciccarelli costruisce, fra Marx e Foucault e Spinoza, una vera e propria filosofia della forza lavoro, facendone una genealogia, per restituirle almeno la visibilità che essa ha perduto. Senza dubbio il lavoro non è finito e non finirà: non è sempre stato soltanto una merce, anche se oggi lo è soprattutto. Attraverso la forza lavoro si esprime, nonostante tutto, una soggettività vivente e si manifestano dei rapporti di potere, che hanno una storia e non possono mai essere considerati come “naturali”.

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