Le capsule del tempo
di Raffaele K. Salinari
Siamo negli anni Cinquanta del secolo scorso. Per festeggiare l’anniversario di una piccola scuola elementare della provincia americana, viene indetto un concorso di idee: la vincitrice sarà una inquietante bambina che propone di seppellire una capsula del tempo nel giardino dell’edificio e lasciarla lì per cinquant’anni. Il corpo docente è entusiasta: invita tutti gli alunni a immaginarsi il futuro e ad fissarlo con disegni e pensieri da inserire nel contenitore. La ragazzina comincia a riempire il suo foglio con una fitta serie ininterrotta di numeri che si riveleranno essere, una volta disigillata la capsula, le date dei più devastanti disastri dell’epoca futura. Una sorta di profezia di Nostradamus in cifre. Ma il punto è: cosa succede quando la serie dei numeri si interrompe?
Dalle piramidi ai messaggi in bottiglia
Questo è il plot del film Segnali dal futuro, tra le tante trasposizioni in chiave cinematografica di un’esigenza antica quanto l’umanità: lasciare ai posteri le testimonianze della propria esistenza. Per farlo ci sono tanti modi, ma uno è decisamente praticabile da tutti: la capsula del tempo. Ora, benché il messaggio sia unidirezionale, cioè dal passato verso il futuro, questo non sminuisce affatto il fascino di poter tramandare ai pronipoti le vestigia della civiltà attuale o, più semplicemente, di noi come singoli individui. È, in fondo, uno dei tanti artifici messi in atto dall’umanità per guadagnarsi il sogno dell’essere eternamente, l’illusione contro natura che invero ha trasformata il nostro tempo in un incubo ossessionante e distruttivo, in un enorme Ritratto di Dorian Gray.
L’immortalità attraverso la memoria è cosa antica: tutta l’epica e l’eroica, le saghe di ogni tempo e civilizzazione, hanno teso a immortalare le imprese dei protagonisti, ma non i loro corpi nell’eterna giovinezza. Per questo anche le capsule del tempo sono qualcosa che risale ad epoche remote, ben prima dei satelliti artificiali che stanno per essere lanciati nello spazio e che dovranno ridiscendere sulla Terra tra ben 500 secoli, come vedremo.
Ebbene, dato che notoriamente viaggiare nello spazio significa anche viaggiare nel tempo, come ci insegna Einstein, possiamo dire che le prime capsule del tempo, almeno dal punto di vista della forma, furono i messaggi nelle bottiglie affidate alle onde. Non sappiamo chi abbia per primo avuto l’idea di gettare in acqua il proprio messaggio in bottiglia, ma la tradizione vuole che sia stato il filosofo greco Teofrasto nel 310 a.C., per dimostrare che il Mar Mediterraneo era in comunicazione con l’oceano Atlantico.
I segnali per la posterità cominciano ad andare per la maggiore con Cristoforo Colombo che, in balia di una tempesta, scrive un messaggio dove riporta tutte le sue scoperte e lo infila in una bottiglia gettata tra i cavalloni, affinché non andassero perdute nel caso di morte. Colombo tornò in patria, ma il messaggio forse vaga ancora per i mari, e chissà se un giorno lo troveremo, potendo svelare così qualcuno dei misteri che avvolgono le sue avventure.
Certo altri messaggi nella bottiglia-capsula del tempo hanno egregiamente assolto il compito di tramandare il passato. Pensiamo ad esempio ai 32 disegni realizzati nel lager di Auschwitz da un internato anonimo, il cui scopo era trasmettere alla posterità l’orrore in cui si viveva nel campo. L’autore, che si firmava «M.M.», decise così di inserire i suoi bozzetti in una bottiglia che ha poi nascosto fra le fondamenta di una baracca. Trovati fortunosamente dai curatori del Museo di Auschwitz nel 2012, pochi giorni prima del giorno della Memoria, sono attualmente esposti nel museo del campo.
Ma l’idea di inserire qualcosa in un contenitore resistente al tempo e destinato a, per così dire, preservarne la vita, la ritroviamo ben prima di Teofrasto o Colombo: nelle piramidi egizie, vere e proprie capsula del tempo che contengono l’anima imbalsamata del dormiente. Qui non sono tanto gli oggetti sepolti a parlarci, quanto il corpo stesso del defunto. La mummia, infatti, corpo necrico sospeso nell’eternità della vita nella morte, non è in attesa del risveglio, quanto della permanenza eterna in quello stato immortale. La spiritualità degli antichi Egizi ammetteva che potesse esserci vita nel «sonno profondo», come definivano la morte gli abitanti della terra nilotica. Per loro l’essere aveva tre corpi: ogni volta che ci si addormentava, il Ka, il «corpo di sogno», si librava nell’etere per poi ritornare ed unirsi al «corpo mortale» nello stato di veglia. Ma la veglia non rappresenta che il pallido riflesso della vera vita: quella nel Regno dei Morti, in cui si era immortali, dato che solamente un morto è tale in quanto non può più morire. Per ciò il Ba, il «corpo del sonno profondo», imbalsamato nella mummia – involucro di preservazione per questo stato particolare – non era solamente una forma sospesa di esistenza, ma l’essenza stessa della vita immortale incapsulata in una dimensione temporale estrema. Nell’antico Egitto la morte non è che l’inizio: si «nasce alla morte», alla sua immensità indefinita; per questo il sarcofago è una vera propria capsula del tempo eterno. Da qui il senso di mistero iniziatico che ancora aleggia su queste credenze.
Una variante moderna è certamente l’ibernazione, cui leggendariamente si sottopose Walt Disney, ma questa è un’altra storia.
Time Capsule
L’influenza dell’antico Egitto arriva così sino ai giorni nostri poiché, se è l’epoca moderna che concepisce la capsula come un vero e proprio oggetto che deve attraversare il tempo per restituire ai posteri le testimonianze dell’epoca in cui fu sigillata, l’ispirazione è ancora derivata dalla civiltà che concepì le piramidi. A questo proposito il manufatto più emblematico è certamente presso l’Università di Oglethorpe ad Atlanta, in Georgia USA. Qui, infatti, è stata allestita nel 1936 una vera e propria «cripta della civiltà»: si tratta di una stanza sigillata contenente diversi oggetti rappresentativi dell’epoca; la sua apertura è prevista per l’anno 8113, perché? Il tempo dell’apposizione del sigillo corrisponde all’anno solare 4241 del calendario egiziano con cui, secondo gli storici, viene indicato l’inizio del Ventesimo secolo. Nel 1936 è stata stabilita la data di apertura della capsula: il 8113 appunto, cioè esattamente 6177 anni dopo. Questo significa che chi (o che cosa) aprirà la capsula, potrà vedere con i propri occhi (o sensori) quello che esisteva in un’era che si trova esattamente nel mezzo tra l’Antico Egitto ed il suo tempo.
Per ottenere questo auspicabile risultato la stanza-capsula, di circa venti metri quadrati, è stata impermeabilizzata e sigillata con una porta di acciaio inossidabile, stesso materiale con cui sono fatti i contenitori in cui si trovano gli oggetti, poi riempiti di gas inerte per evitarne l’ossidazione. Chi volesse visionare l’inventario può farlo attraverso questo sito: qui. All’ingresso c’è scritto: “Non aprire prima del 28 maggio 8113”.
Il padre di questa moderna capsule del tempo, e idealmente di tutte le altre che sono seguite, è il professor Thornwell Jacobs (1877-1956), rettore della stessa Università, che volle così attuare il «dovere archeologico» verso le future generazioni. Pare che questo anelito gli venne suggerito (ancora!) dall’apertura, nel 1922, della Tomba di Tutankhamon. Certo il professore avrà avuto nella mente il celebre dialogo tra il finanziatore degli scavi, Lord Carnarvon, e l’archeologo Carter quando, aperto il primo varco, impaziente gli chiese: “Vedete qualcosa?”, e la risposta leggendaria: “Si cose meravigliose!”.
Allo scopo di organizzare la proliferazione di capsule del tempo, tenere conto delle loro ubicazioni e del tempo di apertura, è stata allora fondata, presso la stessa università, l’associazione International Time Capsule Society che raccoglie informazioni sulle capsule del tempo in tutto il mondo. Chiunque può registrare la propria sul sito: qui.
Se la volete acquistare in rete non c’è che l’imbarazzo della scelta: potete prenderne una per gli oggetti, o solo per la voce o le immagini, con garanzie variabili da decenni a secoli.
Tempo perso: Steve Jobs e Andy Wharol
Ma l’attività della International Time Capsule Society tiene anche conto sia della scomparsa che dei, più o meno, fortuiti ritrovamenti. Per quanto concerne i primi, il caso forse più eclatante, in epoca moderna, è quella della cittadina di Corona, in California, dove nel 1930 furono sepolte ben 17 capsule. Nel 1986 hanno cercato di recuperarle scavando nel centro storico, ma invano. Al momento è il record di capsule smarrite in un colpo solo. Anche i Padri Fondatori vollero lasciare la loro capsula del tempo: le cronache ci dicono di una sigillata nel lontano 1793 da Washington stesso ed inserita nella prima pietra del Campidoglio: ad oggi non è stata rintracciata. Data l’appartenenza del primo presidente USA alla Libera Muratoria, possiamo anche pensare come la sua intenzione fosse ispirata dalla formula che compare nel cosiddetto Gabinetto di Riflessione dei templi latomistici: V.I.T.R.I.O.L., il cui significato allude appunto alla ricerca, all’interno della terra interiore, della propria pietra personale, metafora della memoria spirituale che ogni uomo deve ritrovare scavando dentro di sé.
Ci sono però anche capsule di cui si conosce l’ubicazione, ma non il contenuto, e che semplicemente non sono accessibili, almeno per ora: una giace dal 1938 sotto le 18 tonnellate in un ciclotrone del MIT di Boston e nessuno sa come estrarla!
Le cronache riferiscono anche di misteriose capsule sparse per il mondo e che, di tanto in tanto, vengono casualmente ritrovare, portando alla luce del mondo contemporaneo i loro messaggi dal passato. Sempre al MIT di Boston, infatti, città in cui sembrano concentrarsi molte vicende inerenti le capsule del tempo, gli scienziati hanno una vera e propria tradizione per queste cose: è stata ritrovato nel 2015, durante i lavori di realizzazione di un nuovo edificio, un bussolotto seppellito di fronte al campus nel 1957, contenente una serie di oggetti dell’epoca ed un messaggio nel quale si richiedeva di aprirlo non prima del 2957. Si tratta di un cilindro di vetro riempito di gas argon che ha permesso di conservarne il contenuto: al suo interno vi sono una fiala di penicillina sintetica ed un componente elettronico noto come Cryotron, che funziona sfruttando la superconduttività e che allora era considerato di altissima tecnologia. Il bussolotto è stato rimesso sotto terra in attesa dell’anno giusto. Al MIT ci hanno spiegato che seppellire capsule del tempo è una pratica che viene attivata abbastanza spesso per comunicare con il futuro. Ad oggi almeno altri otto contenitori sono interrati nel campus.Anche Steve Jobs ha elaborato la sua personale capsula del tempo, prima dispersa e poi per caso ritrovata da una squadra del National Geographic; ecco il suo contenuto: un mouse del leggendario primo pc Lisa, alcuni brani musicali dei Moody Blues ed un cubo di Rubik.
Vere e proprie opere d’arte pop invece quelle prodotte da Andy Wharol, 612 per la precisone, che coprono un periodo di trenta anni, dal 1960 alla morte nel 1987. La sua filosofia della capsula del tempo la troviamo nel libro di memorie uscito nel 1975, La filosofia di Andy Warhol (Dalla A alla B and Back Again) : “La cosa che si dovrebbe fare è tenere una scatola per un mese, e mollare tutto in essa e alla fine del blocco mese gettarla… Si dovrebbe cercare di lasciare una sua traccia, ma se non si può e si perde, va bene lo stesso, perché è una cosa in meno a cui pensare, un altro carico in meno fuori dalla mente”.
La capsula spaziale
Ma la frontiera estrema, come giustamente ci ricorda l’incipit di ogni puntata di Star Trek, è lo spazio. Già le sonde Pioneer 10 e Pioneer 11 contengono una placca con informazioni grafiche riguardanti la loro epoca ed il punto di origine. Capsule del tempo sono contenute anche nei due Voyager: ogni sonda trasporta infatti un disco d’oro dove sono memorizzate immagini e suoni della Terra.
In questa ottica il progetto più avanzato è forse previsto per l’anno prossimo: nel 2019 infatti è atteso il lancio di KEO, la capsula del tempo che orbiterà attorno alla Terra per ben 500 secoli, sino a quando non ricadrà sul nostro pianeta, o su quel che ne resta. Il tempo di orbita è stato calcolato partendo dai primi pittogrammi dei nostri antenati così che, un poco come la stanza sigillata dell’Università di Oglethorpe rispetto agli antiche Egizi, saranno passati gli stessi secoli che ci separano da quel futuro. KEO è una sfera cava di 80 centimetri sulla cui superficie è incisa la mappa della Terra. L’idea è nata nel 1994 dalla mente dell’artista francese Jean-Marc Philippe, pioniere dell’arte spaziale, che però è morto qualche anno fa.
Progetto di altissima tecnologia, la capsula conterrà una sorta di moderna Biblioteca di Alessandria, i testi cioè scelti dal programma UNESCO Memoria del mondo, fondato nel 1992 e volto a censire e salvaguardare il patrimonio documentario dell’umanità. KEO trasporterà anche un diamante contenente una goccia di sangue umano (simbolo del fuoco), insieme ad un campione di aria, acqua e terra, gli elementi simbolici dell’antica arte alchemica, nonché il DNA del genoma umano. La sigla KEO contiene le lettere più usate al mondo.
Ma l’aspetto più affascinante di KEO, al quale tutti possiamo contribuire, è la possibilità di scrivere ai posteri il proprio messaggio, non più di 6000 caratteri, che sarà inserito nella memoria dei suoi DVD vetrosi, resistenti ai secoli ed alle ingiurie spaziali. Quando il satellite sarà lanciato, i messaggi, anonimi, saranno disponibili liberamente sul web. Chi scrive lo ha già fatto; questo è il sito web per lasciare il vostro pensiero a chi, o cosa, verrà: qui. E allora… appuntamento nel futuro!
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