Verso la fine del 1928, dopo quindici anni trascorsi a studiare i «processi dell’inconscio collettivo» e quella dimensione «sovraordinata all’io cosciente» denominata «sé» (Selbst), le ricerche di Carl Gustav Jung sembravano ormai languire in una sorta di impasse sperimentale. In sostanza, lo psichiatra svizzero – che nel 1912 aveva radicalizzato la propria rottura con Freud pubblicando la seconda parte di Trasformazione e simboli della libido – si chiedeva come fosse possibile indagare una complessa serie di fenomeni «cui non erano più applicabili le categorie e i metodi» della psicologia medica «a orientamento personalistico», trovando al contempo adeguati riscontri empirici e sottometendo la teoria alla dura, ma inevitabile, prova dei fatti. Il rischio, quanto mai concreto, di sostituire agli schemi interpretativi freudiani un nuovo, e inattuale, castello metafisico aveva condotto Jung a un punto morto del proprio percorso, alimentando in lui un forte disagio teorico, acuito dal contrappunto di un malessere personale crescente. «A superare questo imbarazzo», confesserà, «mi aiutò un testo, Il segreto del fiore d’oro, inviatomi da Richard Wilhelm». Brillante sinologo, profondo conoscitore del libro dei Ching, Wilhelm aveva deciso di versare in tedesco anche questo antico trattato alchemico taoista, servendosi proprio della coppia concettuale junghiana di «animus» e «anima», per rendere i «due elementi da cui viene animato il corpo»: hun e p’o, simboleggiati, il primo, da un ideogramma «composto dai segni di demone e di nuvola», appartenente al principio «chiaro» yang, e il secondo dai segni di «demone e bianco», appartenente al principio «oscuro» yin. Ricevuto il manoscritto, ricorderà Jung, «subito lo divorai, poiché il testo mi dava una conferma, mai sognata, delle mie idee circa il mandala» e la «totalità del sé». L’annunciata edizione del Fiore d’oro e l’invito, da parte di Wilhelm, di aggiungervi un proprio commento, offrì dunque a Jung «l’occasione per poter pubblicare, almeno in forma provvisoria, alcuni risultati fondamentali» delle sue ricerche. «Mi resi conto di una affinità, potevo stabilire legami con qualcosa e con qualcuno», e sarà proprio il testo del Fiore d’oro a condurre Jung «sulla via giusta», inducendolo in seguito a soffermare la propria attenzione sulla struttura dell’alchimia medievale, vero «anello di congiunzione, da tanto tempo cercato, tra la gnosi e i processi dell’inconscio collettivo osservabili nell’uomo d’oggi».Seppur concentrato in massima parte negli anni Venti e Trenta, l’interesse di Jung per l’Oriente e per lo yoga – termine da lui usato in senso generale, per indicare indistintamente tanto il pensiero quanto la pratica psicologica orientali – costituiranno tappe decisive nello sviluppo, se non proprio nell’elaborazione primaria, di concetti come «immaginazione attiva», «inconscio collettivo», «libido» e, soprattutto, di «circumambulazione del sé», ossia dell’idea – confermatagli proprio dal trattatello taoista e dal confronto con il misticismo yoga di Patanjali – che il percorso verso l’integrazione psichica non fosse lineare, ma circolare, tutto teso «al centro», verso l’individuazione. Il continuo gioco di sponda intellettuale e di confronto concettuale intrattenuto da Jung con i sistemi filosofici e religiosi d’Oriente è testimoniato da numerosi saggi, premesse e conferenze dedicati alla questione – da Lo yoga e l’Occidente, a Psicologia della meditazione orientale fino al seminario sulla Psicologia del Kundalini-Yoga, edito da Bollati Boringhieri nel 2004 -, ma anche dalla condivisione di fondo di una «via più ampia di comprensione: la comprensione attraverso la vita». Ciò nonostante, nei confronti di tali sistemi, Jung manterrà un atteggiamento sostanzialmente empirico, sconfinante, talvolta, nella diffidenza e nello scetticismo. «Io – dichiarerà – sono in primo luogo un empirico, che si è rivolto alla questione del misticismo occidentale e orientale solo per motivi empirici. Ad esempio io non prendo in alcun modo posizione sul Tao o sulle tecniche yoga, ma ho trovato che la filosofia taoista come anche lo yoga hanno molti paralleli con i processi psichici che possiamo osservare nell’uomo occidentale». Di questo doppio binario di confronto critico, più che di condivisione entusiastica, su cui corre il pensiero junghiano relativamente ai sistemi dello yoga, e sulla profonda natura dei suoi «presupposti empirici», dà conto l’interessante volume di Harold Coward, Jung e il pensiero orientale (trad. di Luciano Paoli e Maria Irmgard Wuehl, Milano 2005), con cui le edizioni Vivarium inaugurano «Visioni dell’Oriente», una nuova collana curata da Paulo Barone e Vincenzo Caretti.
Nel suo lavoro, Coward affronta la questione con un taglio decisamente scientifico, mostrando, accanto alle affinità, anche le profonde riserve mostrate da Jung nei confronti di un sistema che, in larga parte, gli sembrava ancora «pre kantiano» o «pre psicologico», criticandone, in particolare, l’idea paradossale e, a sua volta, contraddittoria, che la liberazione dagli opposti dovesse compiersi attraverso una soppressione dell’«io», lasciando campo aperto – come sottolinea Barone nella sua presentazione – a un mero stato di incoscienza. Agli occhi di Jung appare davvero perversa l’idea, che investe lo yoga, di un Io individuale destinato a essere trasceso in favore di una coscienza universale. Questo «imbroglio» gli si rivela, osserva Coward, come la mera «proiezione psicologica di una idea che non ha alcun fondamento nell’esperienza umana».
Il rischio, paventato da Jung, di passare da un dualismo conflittuale, a un monismo riduttivo, suona come un avvertimento sull’impossibilità di ridurre una incolmabile differenza di mentalità. L’incontro con l’Oriente «non deve servire da alibi per eludere conti sempre aperti con la nostra identità». Forse anche per questa ragione, nel 1938, giunto a Bombay al termine del suo travagliato soggiorno indiano durato alcuni mesi, pur sopraffatto da sogni, colori e «visioni orientali», Jung decise di non lasciare la nave. Seppur fisicamente confinata in uno spazio angusto, ancora una volta la sua attenzione si stava rivolgendo altrove, decisa a «seppellirsi» nei testi e nel simbolismo dell’alchimia e nelle «troppo a lungo trascurate istanze dell’Occidente». Eppure, osserva Jung, l’«India non passò in me senza lasciare traccia». Di questa traccia profonda, Coward riesce a dar conto con una chiarezza, una competenza e un distacco critico che, di per sé, rendono il libro degno di nota e di considerazione.