philosophy and social criticism

Parole e progetti per la scena di Antonio Porta

Antonio Attisani

In occasione del ventennale della scomparsa di Porta, ripubblichiamo un testo originariamente apparso in Nuova corrente, XXXIII (1986).

copia_di_ap_1979_a_oxford_-_foto_rose_rdax_195x142“Antonio Porta” è pur sempre il nome d’arte di Leo Paolazzi, discendente di un’agiata famiglia “lombardo-veneta”. Cambiare nome è indice della volontà di tradire il proprio prevedibile destino di classe ed è, dai trovatori ai comici dell’Arte ai mestatori delle avanguardie storiche, simbolo di una volontà di rinascere altrove, ad altre funzioni e con altra gente. E tuttavia quasi sempre ci si rende conto che qualcosa delle origini sussiste e che conviene rielaborarlo piuttosto che rimuoverlo.

Se il teatro non costituisce l’aspetto principale dell’attività di Antonio Porta, ciò non significa che esso sia poco importante. Innanzitutto Porta fa un uso performativo della parola in ogni circostanza, dalla poesia al racconto al saggio alla polemica alla comunicazione pubblicitaria, poi la dimensione relativamente minore del suo scrivere per la scena è dovuta a una sensibilità “classica” secondo la quale si scrive su commissione o comunque sapendo delle circostanze in cui il testo verrà realizzato. Infatti, come vedremo, solo La festa del cavallo è stato pubblicato senza sapere ancora della rappresentazione, e ciò per motivi che sarà opportuno mettere in luce.

Seguiamo dunque in ordine cronologico la sua produzione di testi per il teatro.

Del 1967 è Stark (poi rappresentato dal Teatro del Porcospino, Roma 1968). Stark (in tedesco: forte) è un nome proprio. Del torturatore Stark si parla dall’inizio alla fine, ma il nome viene pronunciato solo in chiusura.

Il testo è detto da l° e 2°, reazionari tra virgolette, da A e B, rivoluzionari tra virgolette, da M, N e 0, cittadini tra virgolette. Le battute non sviluppano un’azione, indicata piuttosto dalla didascalia iniziale. Stark è una lunga pantomima sull’accumulazione da parte dei reazionari, sul loro furto di plusvalore e sulla repressione culturale conseguente a quella politica, e a ciò contrappone l’opera dei rivoluzionari. Questa idea di pantomima è il segno più debole e datato del testo, in ciò simile a quanto correva per le scene alternative di quegli anni fino a Dario Fo, poi, e alla metà degli anni Settanta.

L’idea che fonda Stark è quella di uno scontro dialogico tra le suddette parti sociali, rappresentate non da personaggi ma da virgolette attorno a funzioni. Ciò che viene detto è una sorta di bricolage sintetico, riconoscibile (preso dai giornali e dal gergo del momento) e asciugato, quasi ridotto a slogan. Si conserva lo stile delle forme retoriche originarie: diversamente enfatiche quelle dei reazionari e dei rivoluzionari, qualunquista, diciamo, quella dei cittadini. Ma nello stesso tempo Porta ricompone uno stile unitario, che tende a un’essenzialità violenta e persuasiva.

La conversazione ha un decorso se non una trama. All’inizio si capisce il motivo della compresenza di dramatis personæ così diverse, le quali delineano i contorni bui del tempo presente evocando la figura del torturatore: per i rivoluzionari egli «non è il loro capo, lui li rappresenta e basta, parlando di lui si parla di tutti»; per i reazionari «non è mai esistito… non vi sono prove»; i cittadini, per ora, hanno del protagonista assente una visione da settimanale scandalistico e si rimbalzano il racconto mitico delle sue gesta: «Ma allora, se lo poteva, non doveva abbandonarla, non doveva ucciderla, se dice che non voleva».

Il torturatore rappresenta la quintessenza di tutti i sistemi oppressivi; nello stesso modo le sue vittime sono tutte le vittime degli stessi sistemi. Il primo atto si chiude nell’evocazione di una morte per tortura: «Lei è morta.. Voleva tutto, questo era il suo grande desiderio… con le dita senza unghie, il volto senza volto… dicono che abbia confessato… Qual è poi la verità nella villa del vizio, la casa della tortura?».

Tortura e vizio conoscono la loro apoteosi nei luoghi sadiani, anch’essi ville o piuttosto castelli. Lì, nell’invenzione letteraria, la fantasia erotica è di gran lunga più forte della riprovazione morale o politica. Ma le fantasie sadiane si realizzano in questo secolo di fabbrica e di tecnologia: nelle ville della tortura di tutto il mondo (basti pensare alla sintesi atroce e profetica di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini). Ebbene si deve avere presente, nell’opera di Porta, anche questo fondo di discorso sull’ambiguità dell’erotismo, sulla polivalenza dello stimolo e dell’attività sessuale, come pulsione vitale, dallo spreco felice fino a una sorta di ascetismo, e nello stesso tempo pulsione di morte, distruttiva e autolesionista. Un fondo che costituisce uno dei livelli meno formalizzati della sua scrittura teatrale, meno consapevoli sarei tentato di dire, eppure dei più inquietanti.

Atteniamoci per ora ai testi. Abbiamo detto del modo di lavorare la lingua e dell’impianto scenico. Va ancora rilevato qualche elemento contenutistico e per così dire storico dell’opera. Della data si è detto (1967). L’autore si schiera senza indugi «dalla parte delle cattive novità, piuttosto che delle vecchie cose buone» (Bertolt Brecht), dalla parte di coloro che «stanno lavorando per il rovesciamento della cristallizzazione storica in atto» (dalla premessa dell’autore). L’onestà e la spregiudicatezza della presa di posizione non hanno solo un carattere etico, hanno conseguenze squisitamente letterarie. Le posizioni degli uni e degli altri vengono presentate con grande plausibilità storica: per i rivoluzionari non c’è indugio ad affiancare il loro desiderio di cambiare il mondo e a manifestare la simpatia intima per questa improrogabile necessità, pur con l’attestazione della confusione che si accompagna, di un’incertezza che permetterà ai reazionari di fare tremende profezie: «Verranno travolti dalle valanghe… Arriveranno tutti a fondo valle dove avremo cura di riceverli e conservarli bene, in tanti nostri musei».

1967, prima che tutto accadesse.

Come in un testo greco delle origini, due antagonisti si affrontano, un coro di cittadini testimonia e prende parte all’azione. La scelta netta, non importa quanto consapevole, fonda una specie di grado zero (o anche “primo grado”) al teatro e ai suoi soggetti storici, tutti straniati su una tribuna poetica che ha una straordinaria efficacia: mostra l’intenzionalità dell’autore e nello stesso tempo indica il segmento particolare di storia cui appartiene, insomma riesce a relativizzarsi. Ma soprattutto ciò che convince in questo stile è la capacità di lasciare emergere una sorta di inconscio, il profilo indistinto del “materiale” magmatico originario, sia per quanto riguarda la complessità delle dramatis personæ sia per la restaurata ambiguità di “vizio e tortura”. Se in questo lavoro la parola, protagonista (mentre la didascalia iniziale sulle azioni da compiere risulta, forse, teatralmente impraticabile) dobbiamo anche rilevare che la pregnanza teatrale di Stark non è ridotta a una staticità. Tutto il testo funziona in effetti come una lunga didascalia evocativa di immagini e informazioni rimbalzanti sia sull’esperienza sociale che sull’immaginario dello spettatore di quegli anni.

Nel giugno 1968 su «Il Caffè» esce Si tratta di larve. È una scena lunga o breve atto unico di stile ioneschiano. In un interno borghese ridotto a elementi di essenzialità e contornato di quinte dai colori cangianti, alcuni personaggi del “vecchio mondo” vivono la vigilia della fine; loro, le larve, stanno per sostituire gli umani. I buoni borghesi si consumano in una rassegnazione d’incubo, si auto deridono pateticamente con un cerimoniale linguistico e comportamentale senza più senso (il marito, la moglie, l’altro, i figli, il tè … ). La forzatura ideologica si rivela nella fretta e nella perentorietà con cui si vuole affermare la fine di un mondo, ma, ancora, nella scrittura affiorano altri elementi, inquieti. Innanzitutto il futuro è per ora fatto di larve: così che nell’impianto comico della scena sentiamo che esse colpiscono i buoni borghesi anche sostituendosi alle mutande che questi indossano il mattino. Poi c’è dì nuovo una sessualità dal segno non univoco: la Lei fecondata dalle larve offre il grembo a una causa che la trascende, con piacere: «Vedi, mio caro, divento talmente rossa, sprigiono un tale calore, sono così accaldata, così al massimo, voglio dire, per tre, quattro giorni consecutivi: alla fine diventa quasi insopportabile, talmente è forte. Mi capisci, amico mio, è vero che mi capisci. Sono centinaia di orgasmi. (Lo bacia un’altra volta). Non è straordinario?». S’è detto stile ioneschiano per comodità; in realtà questo tipo di irrisione, questo rivoltare la classicità

Antonio Porta in una fotografia di Sandro Girella

Antonio Porta (fotografia di Sandro Girella)

teatrale della commedia, questa estremizzazione dello stile pochade, è il genere che negli anni Venti-Trenta avevano inventato e praticato con successo i Prévert, gli Aragon, i Moussinac e tutti gli altri che coniugheranno lo spirito Dada con l’impegno politico. L’ispirazione primigenia, per loro ma che pure riecheggia nell’opera di Porta, viene dal grande Guillaume Apollinaire per l’ironia e la raffigurazione del materiale, da Alfred Jarry per la corrosività.

La presa di potere di Ivan lo Sciocco (1974) nasce da una occasione particolare. L’autore pensava a una favola e ha incontrato un gruppo teatrale che sembrava adatto a realizzarla, che suggeriva anzi delle linee di scrittura. Tanto che il testo è pubblicato dopo l’allestimento dello spettacolo e ne tiene conto, memorizzando anche le trovate della regia. Quindici brevi testi servono ad altrettante scene autonome. Una pagina di didascalie esplicative precede ognuno di essi.

L’apporto della struttura fiabesca è presto detto. Ivan è lo sciocco (l’Innocente, il Simpleton) che viene lasciato dai suoi quattro fratelli a lavorare la terra: loro se ne vanno in città, nel luogo centrale del potere, per esercitare professioni più lucrose e per salire nella scala sociale. Un prologo ha già anticipato tutto: vedremo la cattiveria del popolo e la sua povertà, la disperazione e poi la rivoluzione, quindi la delusione e il nuovo crollo. Ma con un finale imprevedibile, e anticipatore, che dice di una riscoperta della fisicità, della capacità inesauribile di dimenticare il passato e rinominare le cose, segno di una speranza che dopo ogni fallimento si fa più matura.

La moglie amata di Ivan viene bruciata sul rogo col figlio letto da un popolo ignorante che la odia e la ama, poiché essa è nera e viene «dal profondo della terra». Poi Ivan è chiamato a sostenere la prova in cui tutti falliscono, per ottenere la mano della principessa (il re suo padre è morto di ingordigia di paura). Vince perché la terra che coltiva e gli animali che alleva e uccide con rispetto gli sono amici. Il suo ideale di “non-potere” si rivela tuttavia irrealizzabile: il re morto risorge nella figura classica del Padrone in tight – «come prima, sempre, ancora» -, simbolico inventore della sirena, che misura il tempo di lavoro degli uomini e li indirizza contro nemici o li rinchiude nei bunker della paura; la donna, la principessa, dapprima s’era fatta muta per il rifiuto di quel contatto zotico (dice Ivan: «sei fredda e feconda / e tanto basta per darmi un figlio / e quando mi darai questo figlio / trionferà questo regno / e tuo figlio vivrà. / Ti tornerà il calore nelle cosce / e allora ne riparleremo / perché è certo che in quel regno / non ti metteranno sul rogo / perché sei una donna / e nessun’altra delle donne / che ora sono soltanto / fredde e feconde / tutte come te / mute») e poi si ricrede, al punto di cedere corona e potere alle altre donne, agli altri.

Il fallimento del nuovo potere viene attribuito a Ivan anziché a coloro che dall’ombra ne sono gli autori e Ivan, ora, diventa per il popolo il simbolo da abbattere. Viene sottratto alla folla inferocita, ma per essere assassinato dicendo che si è invece suicidato riconoscendo l’errore della sua utopia.

La possibilità e la necessità dell’utopia sono invece l’affermazione finale di questa opera di Porta, nell’Epilogo affidato ancora al “finto monaco” cui risponde il coro. Il suo monito «produce nel popolo l’effetto di ritrovare la propria fisicità. Passati tutti dal sonno a un bagliore di ragione ha inizio il recupero degli oggetti avuti e perduti… È l’unica festa possibile, ora… Tutto è perduto, fuorché questa capacità di “rinominare” tutto… Proprio per questo tutto si rinnova». Ancora una volta Porta dà forma a un’intuizione poetica in anticipo sulle contingenze storiche in cui scrive. Il testo è del 1974: la speranza di molti per un cambiamento radicale è tramontata, non solo in Italia; alla crisi si risponde in vari modi: con quel “riformismo illuminato” che già era stato bocciato negli altri pretendenti alla mano della principessa, oppure con una radicalizzazione della rabbia che darà luogo al quel drammatico fenomeno di ottusità che è il terrorismo. Ma comincia anche, allora, una fase di moltiplicazione dei soggetti sociali e delle “prese di parola”, oltre che, ma più in sordina, una nuova consapevolezza corporea: di nuovo si affaccia la complessità del “materiale” o meglio del “corporeo” questa volta in dimensioni più vaste che non i luoghi della tortura e del vizio.

Se come manifestazione etica il testo di Ivan risulta radicato nel suo momento e nello stesso tempo proiettato in avanti con uno scatto di ragione, la scrittura apre su una concezione della scena più complessa e matura. C’è un passaggio da una struttura di fiaba raccontata epicamente a quella “tragedia storica” che l’autore avverte nella tensione degli ultimi quadri. Il testo è scritto a misura di una contingenza, per un gruppo teatrale non professionale di un piccolo centro della Brianza, in quegli anni una felice rivelazione tra i “nuovi soggetti” della teatralità. Il Teatro Artigiano di Cantù recitava a pianta centrale e a contatto col pubblico, usando e recuperando in modo inventivo e poetico alcuni materiali e oggetti d’origine contadina o d’uso quotidiano, e animando teli, acque, terre, legni. Rispetto ai precedenti questo testo segna il passaggio a un’innovazione più scenica che letteraria, ovvero a una narratività più corposa anche se non omologata al teatro realistico corrente, e alla tessitura di corposi personaggi e apparizioni teatrali. E questo testo, più dei precedenti, concretizza la proposta scenica innovativa di Porta e dunque accusa, per converso, la pigrizia e “l’incapacità di leggere” che caratterizza tanta scena professionale italiana.

Segue poi Fuochi incrociati (per teatro), scritto tra il 1979 e il 1981 e rappresentato nell’ottobre 1982 a Milano al Centro Internazionale di Brera per l’interpretazione di Paolo Bessegato e Caterina Mattea. È passato intanto del tempo importante, pesante direi, che ha dato molte risposte negative o deludenti alle domande e alle ansie degli anni precedenti. Con Fuochi incrociati siamo al cannibalismo da salotto, a una distruttività da interno borghese che ora non è più degli altri ma “nostra”.

Il testo è una lunga sequenza di battute senza attribuzione; sappiamo solo che in scena ci sono due personaggi, marito e moglie, di mezza età, di oggi (ovvero che erano giovani, o più giovani, quando i giovani degli altri testi erano piuttosto “rivoluzionari”). È una coppia che si dilania nell’analisi del proprio fallimento. Lui vorrebbe andare in Africa alla ricerca degli dèi scacciati dal mondo moderno, Lei fantastica su possibili relazioni felici. Si odiano, si amano nel senso che sono legati indissolubilmente l’un l’altro, da qualcosa che li trascende. Hanno un figlio che è sfuggito a questa logica, ma col terrorismo. Alla fine lo vedremo, sconfitto, ricevere la madre in carcere con una benda sugli occhi: «senti, mamma, / un altro figlio, se lo vuoi, devi partorirtelo, se ci riesci, / tutto nuovo: / Io ormai non sono nessuno / faccio parte della storia.

Esci di qui / rientra nella madre terra».

I nostri anni di piombo sono visti dall’interno di un salotto della buona borghesia che ne è stata inconsapevole nutrice, quando non complice per inedia culturale. L’atmosfera ricorda una sorta di espressionismo terragno e “lombardo”: mentre nel salotto ci si sbrana, fuori ci si comporta come si deve; si spiano dalla finestra le quotidiane atrocità del vicinato, poi si salutano quelle persone con indifferenza. È un testo che ci proietta addosso un pessimismo forte e motivato. Può darsi che, rispetto ai precedenti, Fuochi incrociati segni la fine di una parabola, che siamo precipitati sul fondo. E il lettore non sa se dare credito al nuovo desiderio di maternità della donna (anche in La festa del cavallo il finale sarà aperto da una gravidanza), non sa se quel figlio sarebbe immune dal fallimento che ha piegato e incupito i suoi fattori. Non c’è traccia di una fisicità o di una “rinominazione” su cui puntare.

Può darsi però che il senso di parabola sia riferibile solo all’uso di certe tecniche teatrali. Qualche traccia suggerisce un’ipotesi dei genere. In Fuochi incrociati infatti ricorrono, sia per citazione diretta che per evocazione forse inconsapevole, alcuni topici dei testi precedenti: per esempio, il confronto dialogico ha la struttura primitiva che già abbiamo visto in Stark, è anzi ancora più scarno; e poi, quando Lei definisce Lui “larva” indica forse un ex-rivoluzionario? Oltre al salotto e alla coppia circondata di fantasmi, l’atmosfera è data da un certo tono favolistico: non c’è azione nel presente ma ricordo, lo sguardo è rivolto all’esterno della scena e i due protagonisti sono mossi dal desiderio di qualcosa che deve ancora avvenire.

Porta sembra considerare inutile una riproposta del dramma borghese, sembra essere alla ricerca di una forma “estrema” più tragica semmai e densa dì poesia. Alla scarnificazione della forma narrativa corrisponde un arricchimento della miscela linguistica e ciò che a un primo sguardo può sembrare l’approdo al silenzio si rivela semmai come un’operazione di nuovo azzeramento, necessario al soggetto narrante e a noi lettori. Se è arido il luogo su cui devono atterrare i sentimenti malati di questi decenni, esso è anche, al costo della franchezza di cui Porta è capace, un punto di ripartenza.

Tra Fuochi incrociati e La festa del cavallo c’è un testo che a prima vista può apparire come una divagazione o una parentesi per l’autore. Si tratta di un adattamento del Perse di Plauto, una traduzione-riscrittura dal titolo La stangata persiana (1985). Anche in questo caso lo scrittore ha lavorato su commissione e il testo è stato pubblicato al momento dell’andata in scena (al Teatro dei Filodrammatici di Milano, nel 1985).

L’originale ci presenta una farsa dai tratti canonici, la cui comicità risulta oggi dispersa. Porta vi ha lavorato di conserva con la regia e gli attori, fornendo l’idea di base di un’analogia tra l’intrigo originario e trame suggerite dalla cronaca di oggi.

Ne è risultato uno spettacolo di semplice fattura ma molto raffinato e godibile, che esaltava al massimo le singole interpretazioni e che rispettava il classico mostrandone comicità e cattiveria, ovverosia sviluppando lo spirito originario e la sua funzione aldilà della lettera. Ecco perché si tratta di una parentesi solo fino a un certo punto: c’è un lavoro che continua, sia nell’aspetto performativo dell’atto linguistico (trovare un registro comico, riprendere lo spirito di una scrittura “classica”) che nell’applicare l’erudizione a obiettivi culturali di oggi.

La festa del cavallo è l’atto più recente con cui Porta rilancia il paradosso di una scrittura autosufficiente ma che richiede una verifica teatrale (sottotitolo: Poema per teatro). E’ anche la prima volta che un suo testo è pubblicato prima della rappresentazione, e senza sapere chi potrà accoglierne la sfida. Qui davvero l’autore riprende l’idea di Pier Paolo Pasolini, ovvero struttura un materiale poetico che non è “testo” del teatro esistente e che non contiene la ricetta della sua realizzabilità sulla scena: è un testo   e uno stile   che richiede incontri. Ci vogliono una compagnia e un regista con una propria coerente e forte idea di teatro, interessati a misurarsi con lo stile e il “sentire” di questo autore. Se non sbaglio c’è solo un altro autore vivente di questo tipo: Heiner Müller.

Nei testi per teatro di Pasolini, Müller e Porta echeggiano non a caso gli stessi temi (soprattutto: la spoliazione culturale e la perdita di miti guida, la necessità di pensare il potere in termini nuovi, la certezza della catastrofe e la concreta speranza di nuovi inizi) ma senza ripetizioni anzi con riprese e sviluppi di forma e di pensiero che il loro inserimento in uno stesso repertorio metterebbe bene in evidenza. Si sente in loro il buio freddo di questa fine millennio e la percezione di una luce, di un’energia residua e/o futura.

La struttura del testo di Porta, con i suoi personaggi e il suo sviluppo ben definiti, sembra più vincolante di quella dei precedenti, ma lo è solo nella misura in cui il testo non ha subito ancora l’assalto di una messa in scena e si premunisce, per eccesso, dalla possibilità che il nostro teatro non sia capace di interessarsene. Anche la presenza dell’autore in scena, come Didascalia, e il suo dialogo con i personaggi è da intendersi in questa doppia accezione: da una parte serve all’autonomia del testo scritto, che in questo modo articola meglio le sue idee e crea persino un distacco ironico verso se stesso, dall’altra è una situazione di teatro nel teatro e non occorre scomodare Pirandello per chiarire che tale espediente crea un’inquietante sospensione: lo spettatore è reso cosciente non tanto del dato di finzione, quanto della sua responsabilità di “autore di visione”. I personaggi e la storia, il mito infranto, si offrono come tessere di un mosaico che deve essere montato da chi guarda e chi legge. In questo caso l’autonomia del testo non consiste nel racchiudere un senso univoco e accessibile tramite un’accurata “filologia”; siamo in presenza di un campo di parole e di immagini evocate che interrogano tanto il teatro che lo spettatore, tanto l’autore che la memoria culturale riaffiorante attraverso di lui.

Il gruppo di personaggi evocati da Didascalia abita una landa desolata, buia e fredda. Luogo e tempo di un dopo catastrofe il loro, un dopo che somiglia al prima di cui portano memoria i testi più antichi. Ma mentre i testi antichi esprimono una saggezza (anche se sono scritti per disperazione, poiché altrimenti si sarebbe persa la memoria di quegli eventi), gli scritti della fine, come questo di Porta, come quelli di Pasolini e di Müller, evocano la paura attuale della fine del mondo per mano dell’uomo e chiedono se essa sia davvero ineluttabile come sembra. In Porta ci sono anche ottimismo e vitalità, ma in modo protetto e discreto: nel ventre di Musa sta crescendo un bambino; la madre sa che «In questo dramma non c’è speranza di riscatto, non è possibile […]» ma la creatura ora invisibile uscirà da questo dramma, nascerà dopo e altrove.

È possibile un altro livello di lettura, suggerito dal modo più esplicito in cui il “terrore nucleare” viene vissuto da una generazione di artisti americani. Lì sembra che la fine del mondo sia la sola creazione mitica di cui sono capaci i “padri” di oggi, ovvero le avanguardie culturali degli anni Sessanta e Settanta: e questa morte del mondo si lascia intendere come una proiezione fantastica della propria morte (la fine della propria funzione). Così, da una parte il mondo viene minacciato di estinguersi con la loro scomparsa e dall’altra si spera che gli appena giunti alla vita sappiano ricominciare, scartando tanti equivoci culturali del passato recente ma realizzando il sogno dei loro padri: la creazione di miti di fratellanza e di progresso. In questo senso La festa del cavallo andrebbe letto come ambientato nella nostra barbarie post culturale e come mito prologo della prossima fase. Se l’evento sia collocato in un futuro visto dal passato o in un futuro visto dal futuro non importa sapere. È scrittura di oggi, è   secondo Giampiero Comolli   «un esempio (e ce ne sono ancora pochi) di letteratura mitica contemporanea» (in Alfabeta, n. 92, 1987).

E il cavallo del titolo. Viene da un mito anomalo, secondo il quale un popolo dell’Asia centrale liberava il cavallo destinato al sacrificio invece di ucciderlo. Noi li uccidiamo, i cavalli, ma non sopportiamo di vederli morire; e i miti più diffusi del nostro passato sono cruenti, dolorosi. Il poeta Porta descrive un universo di dolore, il drammaturgo Porta ingravida una speranza.

La scrittura alterna parti in versi a battute più distese, ma anche queste ultime rappresentano la loro natura di frammento, sostituendo per esempio il punto fermo con i puntini di sospensione. Sospensione, pausa, sottotesto, pensiero, a volte afasia e balbettio, sempre generazione dolorosa di parole inadeguate, appena allusive di ciò che sarebbe da dirsi. In questo procedimento sentiamo la lezione beckettiana, sentiamo la stessa contraddizione tra una “lettera” che dice la fine e il silenzio, e la persona pur viva che la genera e che dice di una vita che continua nonostante tutto…

In ultima analisi ciò che un autore racconta è uno stile, non un argomento. Il teatro di Porta mostra uno stile in evoluzione per interrogare il presente tramite il teatro. Situazioni mutate e nuove domande   dallo scontro sociale degli ultimi anni Sessanta (Stark) alla sorta di “antropologia del potere” di Ivan lo Sciocco, al bilancio amarissimo di Fuochi incrociati, fino al paradossale incontro di orrore e speranza che è La festa del cavallo sono significate da cambiamenti di stile e di scrittura. Si potrebbe, certo, leggere l’autore con riferimento al contesto culturale ed evidenziare quanto aderisca e quanto si differenzi da scritture coeve, ma si correrebbe il rischio di omologare la sua forma di espressione ad altre e di appiattire il giudizio operando una sorta di “anatomia della forma” che farebbe torto a quel corpo vivo, e unico, che è la sua scrittura.

Nella Festa del cavallo Porta mette in scena anche fisicamente l’incontro tra il poeta e il teatro. Ci sono i personaggi, causa ed effetto della scrittura, e c’è un Autore Didascalia, il quale però non esprime l’autore Porta se non come figura tra le altre. L’io lirico dicente della poesia è abbandonato in favore di un nuovo soggetto narrante, che nemmeno è un soggetto ma la relazione dinamica tra frammenti di pensiero e di umanità. In una “fisica della scrittura” il significato di questa forma non è minore, anche se non rappresenta un approdo definitivo. È scrittura in attesa di futuro, ma tutt’altro che passiva, anzi impietosa verso chi ha già sprecato le proprie responsabilità e amorevole verso chi può ancora fare.

L’etimo di poeta significa “colui che fa”. Qui il poeta si è sovraesposto a fare la sua parte. I suoi testi sono un teatro virtuale, oltre che già poesia; richiedono dunque di incontrare altri poeti (della scena) per diventare, trasformandosi, teatro vivente. In questo senso Porta si riconnette a una tradizione “classica” dello scrivere per il teatro, una tradizione che scarta la gran parte della drammaturgia contemporanea in quanto occasionale e che si manifesta oggi ancora in poche scritture, tra cui quelle citate.

Il difficile quanto fatale incontro futuro tra il teatro dei poeti della scena e il teatro dei poeti della parola è forse meno lontano di quanto lasci intravedere l’attuale, fondata, diffidenza.

(1986)