Storia di Antonia
Francesco Paolella
Leggere questo libro è una esperienza impegnativa. In primo luogo per l’intollerabile tragedia che vi viene minuziosamente raccontata: la morte di Antonia Bernardini, bruciata viva nel suo letto di contenzione quando era internata nel manicomio giudiziario di Pozzuoli, circa 40 anni fa. In secondo luogo, la lettura del volume a tratti è davvero difficoltosa anche per i diversi linguaggi, per le diverse scritture che lo percorrono: dallo stile burocratico della magistratura a quello scientifico (o, a volte, solo apparentemente scientifico) della psichiatria, a quello giornalistico, più o meno “militante”.
La ricerca di Dell’Aquila ed Esposito ci racconta due storie, entrambe drammatiche e, per tanti versi, scandalose: quella dell’internamento della Bernardini, avvenuto in seguito a un arresto per l’oltraggio a un carabiniere; e quella, successiva alla sua morte, delle vicende processuali che hanno coinvolto chi l’avrebbe dovuta custodire (psichiatri, “vigilatrici”, suore, ma anche magistrati). E proprio il termine “custodia” spesso ritorna in mente leggendo le pagine del libro: cosa significa – oggi come allora – essere custoditi dalle istituzioni? Cosa mirano a custodire i poteri che devono tutelare tanto la collettività quanto il singolo? Oggi i manicomi giudiziari (poi definiti OPG, ma in sostanza sempre i vecchi, vecchissimi manicomi criminali, nati alla fine dell’Ottocento per contenere i “pazzi” autori di un reato e i carcerati impazziti durante la detenzione) non esistono più; ma la questione della “difesa sociale” messa in atto nei confronti dei tanti tipi di marginali, più o meno pericolosi e devianti, non è ovviamente finita. Anzi, siamo di fronte a problemi nuovi e più complessi: come “gestire” chi presenta forme più o meno spiccate di disagio, come garantirgli l’assistenza e un lavoro?
Altra questione: come sempre – e questa storia ce lo ricorda in modo eclatante – l’istituzione cerca anzitutto di difendere se stessa: è inevitabile che ciò avvenga, specie se i suoi rappresentanti (in questo caso, degli psichiatri) si sentono minacciati nel loro potere da forze esterne (i giornalisti, i partiti, o dei colleghi che hanno una idea diversa del mestiere e dei limiti da porre al proprio agire). Ecco che, in questo caso, davanti a critiche sempre più forti, il direttore del manicomio giudiziario di Pozzuoli, Francesco Corrado, cerca in ogni modo di scansare le accuse, di deresponsabilizzare la propria negligenza e di giustificare le procedure feroci, come la contenzione, messe quotidianamente in atto non per curare le ricoverate, ma soltanto per garantire la tranquillità dell’istituto. La direzione arrivò anche ad allestire una vera rappresentazione, francamente grottesca, per i giornalisti, ai quali mostrare un manicomio in realtà inesistente: un ambiente sereno, pulito, dove le persone potevano alzarsi liberamente dal letto, dove potevano mangiare decentemente e dove erano, addirittura, felice di rimanere.
In realtà, ci volle poco per far emergere la verità: dopo decenni di oblio (un oblio che riguardava anche i manicomi civili), la morte di Antonia Bernardini accese per qualche tempo i riflettori sulle violenze legali che venivano compiute in quei luoghi. In reazione a quella morte orrenda, ci fu un vasto movimento di opinione, che non durò a lungo, ma che riuscì a provocare la chiusura del manicomio di Pozzuoli. Ci sarebbero però voluti ancora decenni perché l’assurdità degli OPG venisse concretamente superata.
I responsabili del manicomio furono condannati soltanto in primo grado, mentre in appello vennero tutti assolti. E’ importante soffermarsi sulle ragioni che portarono i giudici d’appello a prosciogliere medici e assistenti: in sostanza, fu la malattia stessa della Bernardini ad essere incolpata della tragedia. La vittima divenne allora per i giudici soltanto una persona incurabile e stabilmente pericolosa; Antonia venne reificata nella sua patologia. La sua biografia clinica, con i tanti ricoveri manicomiali, e tutta una vita segnata dal disagio e dalla miseria, divennero la vera causa di quella “tragica fatalità”. Per protestare contro la contenzione, per attirare l’attenzione o magari soltanto per fumare una sigaretta, la donna accese un fiammifero mente era “contenuta” (cioè legata) a letto; il materasso, in materiale altamente infiammabile, prese subito fuoco e i soccorsi – chissà quanto solerti – non impedirono ustioni così gravi da portare la donna alla morte poco tempo dopo.
L’istituzione carceraria aveva allora due scudi legislativi a cui appellarsi: la legge sui manicomi, che risaliva al 1904 e il successivo regolamento di applicazione del 1909, i quali prevedevano appunto tutta una serie di procedure che, alla fine, permettevano appunto ai “custodi” di “difendersi” dai ricoverati, dalle loro molestie, dal fastidio che potevano causare. Solo poco tempo dopo la tragedia di Pozzuoli fu approvata la c. d. “legge Basaglia”, che avrebbe scardinato in gran parte quel sistema. A questo proposito, il libro permette anche di ascoltare le voci dei più importanti esponenti del movimento che lottava allora in Italia per arrivare a un superamento dei manicomi e dei metodi “classici” della psichiatria: lo stesso Basaglia ovviamente, ma anche Sergio Piro, Michele Risso e Franco Rotelli, si spesero per non far cadere subito nel dimenticatoio la storia di Antonia Bernardini e per far emergere la violenza inemendabile delle istituzioni manicomiali-giudiziarie. In particolare, Franco Basaglia scrisse diversi articoli sulla vicenda: in uno in particolare, lo psichiatra veneziano ricorda come fosse più che mai urgente salvare i malati dalla pericolosità potenziale delle istituzioni. Per fare questo, era necessario svelare anzitutto l’ideologia che era alla base della logica del manicomio, e che lui definisce in questa occasione “ideologia della carità”:
«A cosa servono le dichiarazioni dei diritti dell’uomo se poi vengono calpestate ogni giorno? Basaglia quindi attacca il direttore Francesco Corrado per le sue dichiarazioni:“Quanta caritatevole premura per prevenire dei gesti che avrebbero potuto nuocere alla paziente, mentre l’organizzazione manicomiale può impunemente metterli in atto contro di lei!”. Le parole di Corrado, infatti, manifestano proprio “la logica manicomiale che si fonda sull’ideologia della carità”. Una logica di sopraffazione, inutile come risposta alla malattia, che non è però casuale, “così come non è casuale il fatto che essa si ostini a sopravvivere”» (pp. 82-83).
Non dobbiamo però sposare una visione banale e ideologica (potremmo dire “antipsichiatrica”), immaginando che gli psichiatri nei manicomi fossero dei mostri, fossero dei sadici che si divertissero a tormentare le loro vittime: in questo senso, la famosa analogia fra manicomi e Lager (pure assai efficace) non funziona perfettamente. Gli psichiatri applicavano la contenzione e praticavano terapie violente (come l’elettroshock) in quanto medici: erano allora quelli gli strumenti della loro professione, la quale, appunto, aveva ufficialmente anche il compito di mettere in pratica la carità di Stato verso i marginali, verso i poveri, verso i folli. Per fortuna la “tecnica manicomiale” è assai cambiata da allora, visto che anche la carità, a volte, può essere molto pericolosa.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
issn: 2037-0857
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