Storie di vita piegate alla violenza
Alfonso M. di Nola
Fino al XVIII secolo, le nostre città erano immerse in vaste foreste, spesso destinate alla caccia, ma soprattutto costituite in proprietà comune inalienabile e difesa dalle popolazioni urbane e dai villaggi che se ne servivano, secondo diritti consuetudinari, per provvedersi di legna e di preda. E quindi esisteva una netta separazione fra il territorio dominato dalla cultura e quello estraneo e selvatico, spesso oggetto di terrori e paure, poiché rappresentava un ignoto intangibile dominato dalle fiere che aggredivano chi vi si avventurasse. Questa netta divisione costituisce un prelimine dell’attuale tipo di cultura nella quale l’uomo “civile”, attraverso disgregazione e distruzioni, ha assunto a sé il possesso della selvatichezza forestale e ha coinvolto nel suo destino tecnologico la natura ancora intatta.
Purtroppo, nei documenti più antichi, la storia umana è scandita da una netta opposizione fra il “civile” e il “selvatico”, e forse il documento più arcaico che riflette questo aspro conflitto è l’Epopea di Gilgamesh nella quale il selvatico Enkidu, signore delle piante e degli animali, brutale e violento, viene piegato attraverso un tranello, alla cultura delle città, ma paga con la perdita della sua innocenza e della sua felicità originaria.
Sono molte le cronache antiche spesso ridotte a favole, nelle quali l’uomo selvatico si presenta alla soglia delle città, e dall’Oriente all’Occidente non v’è lingua che non abbia un termine diretto a designare questo essere terribile e spaventoso che attenta alla sigillata sicurezza del vivere urbano e che mostra con il suo apparire, una condizione demoniaca, quasi sempre assimilata a quella degli animali e delle piante.
Frequentemente, l’occasionale esperienza di uomini viventi allo stato di natura e carichi di pauroso potere ha dato origine a un ricco patrimonio fiabistico che residua anche presso di noi in miti che si riconnettono all’Uomo Selvatico, all’Uomo Nero, all’Orco, al Signore della Foresta, fino alla trasformazione del carbonaio in personaggio portatore di terrori fanciulleschi. Tale netta separazione tra i due tipi di uomo sembra intensificarsi dopo la scoperta dell’America attraverso le descrizioni che i missionari ed esploratori diedero degli abitanti del Nuovo Mondo, spesso assegnati a un presunto “stato di natura” che in realtà non è mai esistito, presupponendosi sempre che la natura ci si presenti in ogni caso modificata e trasformata dalle culture spesso incomprese e negate perché diverse dalla nostra. Proprio negli scritti missionari che seguono il 1492 appare la diversità fra buon selvaggio e selvaggio perverso e cattivo, dipendente dal giudizio sui comportamenti di popolazioni che venivano giudicate secondo il metro dei nostri valori. Così contribuirono ampiamente all’immaginaria proiezione di un selvaggio naturalmente incline alla perversione e alla violenza, la credenza in gran parte mitica dell’antropofagia, la resistenza spesso duramente espressa alla razzìa e alla sete di potere dell’uomo bianco, il rifiuto di una cultura fondata sulla incomprensibilità e non decodificabilità. Sono ben note le pagine dei missionari e dei viaggiatori che creano un’immagine negativa del diverso, residua peraltro anche nella nostra attuale cultura quando emarginiamo l’uomo di colore e violentiamo i suoi diritti a vivere e a lavorare.
Il grande dibattito sugli aspetti e le qualità dello stato di natura raggiunge il suo apice nel pensiero filosofico di Condillac e di Rousseau: soprattutto in quest’ultimo, essenzialmente nei due brevi saggi Discorso sull’origine dell’ineguaglianza (1755) e il Saggio sull’origine delle lingue (1750-60).
La lunga diatriba viene sostanzialmente a svilupparsi intorno a collettività, anche se posteriormente Rousseau tenterà un difficile procedimento educativo nell’Emilio, un ragazzo isolato dalla comunità e affidato alle sue personali cure, che lo porteranno a trasformare le varie facoltà naturali in educati strumenti di inserimento nella realtà culturale.
Lo straordinario racconto delle vicende del selvaggio narrate dal medico francese Jean-Marc-Gaspard Itard fondatore della moderna otorinolaringoiatria e medico nell’ospedale per sordomuti di Parigi, è scandito in un linguaggio intenzionalmente nudo di ogni orpello e legato all’esigenza di un metodo rigorosamente scientifico per le epoche in cui fu redatto. L’autore, che conosce bene tutti i precedenti filosofici del problema in Condillac e in Rousseau, ricorre ad una prima relazione del 1801 e a una seconda relazione del 1807, quasi a conclusione informativa di tutto il lavoro compiuto e diretta – su sua personale richiesta – a Napoleone Bonaparte. Alla base dei due interventi appare un episodio che turbò e interessò la pubblica opinione francese: in Alvernia tre cacciatori catturarono in un bosco un fanciullo in un particolare stato di abbrutimento, le cui capacità comunicative ed espressive, l’autore lo ripete più volte, non superavano quella dei vegetali e degli animali. Trasportato a Parigi, come era avvenuto nelle epoche precedenti per molti “primitivi” di America e di Africa, il ragazzo, non comprendendo il codice significante di una raffinata cultura urbana, entrò in una situazione di aggressività ansiosa che lo portava ad assalire i curiosi con gesti e morsicature bestiali e che Itard ritiene possa farsi risalire a una costituzione epilettica o anche a un insanabile idiotismo.
Forse proprio per il suo rigore e la sua essenzialità, il libro diviene vivace ed interessante nelle lunghe e pazienti fasi che, nella continua nostalgia del fanciullo per la foresta che era stato costretto ad abbandonare, lentamente lo riscattano dalla condizione animalesca e giungono ad educarlo all’uso e alla funzione corretta dei sensi e delle più elementari reazioni affettive. L’incantesimo di questo lungo processo educativo, ricco di eccezionali immagini e di concreti riferimenti, improvvisamente cessa e diviene un fallimento, un tentativo vano, quando il medico, risultato inutile ogni sforzo di educare il giovane alla parola decide di abbandonarlo, non improbabilmente perché una vigorosa e incontrollata pubertà lo espone a rischio di esibizionismi sessuali e di infrenabili aggressività. Tutto si conclude così in un silenzio e porta a dubitare se sia stato valido e utile sottrarre il fanciullo selvaggio al suo paradiso perduto e tentarne l’inesorabile inserimento in una società per lui senza significato, assoggettata a dure leggi sostanzialmente a lui estranee.
[da il manifesto, 9 aprile 1995]