Tra Versailles e Wall Street: gli anni ruggenti di Maurice Sachs
di Francesco Paolella
A prima vista, quello che abbiamo iniziato a vivere saranno molto diversi dagli anni Venti del secolo scorso. Quelli sì che, almeno per la memoria collettiva, sono stati anni ruggenti, anche se poi, come sempre del resto, la realtà è stata molto più complicata.
Ecco che questo diario, opera di Maurice Sachs – di cui in Italia è uscito meritoriamente da Adelphi anni fa Il Sabba – non fa altro che rappresentare, e in modo senza dubbio avvincente, la rinascita avvenuta nel primo dopoguerra in Francia e, particolarmente, a Parigi. La prospettiva di Sachs – ossia, di un giovane snob, privilegiato e “letterario” quanto basta – ci lascia il resoconto di una decennale sbornia fatta di avanguardie, innovazioni e rivoluzioni, e sempre rifacendosi a un solo principio: dimenticare la guerra! Anni velocissimi di esaltazioni (per l’automobile, per lo sport, per il cinema, per una prima emancipazione femminile), ma, allo stesso tempo, costretti a riandare continuamente al trauma bellico, al senso di colpa che non abbandonava mai davvero nessuno, e meno che mai i vincitori. Gli anni Venti, almeno per come ce li racconta Sachs, hanno cercato la felicità insonne degli affari e delle feste, hanno creato patrimoni o illusioni, ma hanno, soprattutto, tentato di allontanare da sé le ombre montanti della crisi e di una nuova guerra: il fascismo, il bolscevismo, il dramma della svalutazione, il desiderio tedesco di rivincita, tutto è rimasto un sottofondo lontano ma fastidioso e inquietante.
Tra Versailles (1919) e Wall Street (1929), il mondo si è scoperto nuovo e, per molti versi, così caotico da non potersi comprendere. Sachs descrive benissimo in queste pagine la meraviglia provata da un uomo che era cresciuto in un altro mondo:
“Eppure io, per quanto giovane sia, ho vissuto in un’epoca,non così lontana, in cui non si aveva la minima idea di cosa fosse il cinema, in cui nessuno utilizzava la radio nel proprio appartamento, in cui non si facevano le parole crociate e si fingeva di credere che l’omosessualità non esistesse, un’epoca in cui solo i ricchi possedevano un’automobile e avevano un meccanico sempre a disposizione, in cui nessuno faceva sport e il termine psicanalisi non era ancora stato coniato” (pagina 136).
In un’epoca dominata dal “puro movimento” (pagina 220), Sachs ha saputo però riconoscere il sapore sgradevole della cenere, che la frivolezza e il lusso non potevano comunque cancellare. Le sue pagine sono anche testimonianze preziose dell’evoluzione, pure tumultuosa, che il mondo della cultura alta (in arte e in letteratura, in primo luogo) ha subito: pensiamo soltanto alla scoperta del cinema, della radio e della fotografia ad esempio, ma, più in generale, a un nuovo “culto dell’intelligenza” che creò un nuovo ruolo sociale per gli intellettuali e per le loro opere, le quali, fra l’altro, iniziarono ad essere niente di più che merci come le altre:
“Grasset sta facendo una pubblicità mostruosa per Il diavolo in corpo di Radiguet. È la prima volta che per un libro si utilizzano metodi finora riservati ai saponi, ai lassativi ecc. E funziona: il libro si vende alla grande” (pagina 182).
Gli anni Venti sono stati scintillanti e volgari, senza dubbio, e hanno rappresentato per Sachs il trionfo del “lusso mediocre” (pagina 116), che egli collega senz’altro a una irrefrenabile americanizzazione dei gusti e dei gesti, ma sono stati anche un vero banco di prova per liberare le persone – o, almeno, alcune avanguardie privilegiate – e i costumi di quelle. Basti pensare soltanto alla “scoperta” dell’omosessualità o alla rivoluzione pacifica portata avanti dalla psicoanalisi. Eppure, ad ogni momento, le ferite della guerra ancora troppo recente, ricominciavano a sanguinare:
“1922. Che anno pazzesco abbiamo vissuto, quasi del tutto liberato dall’orrenda ipocrisia dei falsi rimpianti. Dobbiamo essere assolutamente sinceri: i veterani di guerra fanno paura come un tremendo ricordo; finora sono stati coperti di fiori ed elogi, ora vorremmo dimenticare il primato concesso loro sulla vita civile. Quante volte ho scorto sul viso di un civile la malcelata espressione che pareva dire: ‘Beninteso, avete combattuto per noi, ci avete salvato la vita; d’accordo, ve ne siamo riconoscenti, ma ora per favore non parliamone più. Lasciateci divertire senza pensare alle vostre ferite’. Ma questa guerra è come un amore infelice; affiora incessantemente alla superficie della coscienza” (pagina 158).