philosophy and social criticism

Tutti gli uomini sono bugiardi?

Marco Dotti

Parmigianino

Chi è davvero Alejandro Bevilacqua? Protagonista assente, bersaglio continuamente mancato dell’ultimo romanzo di Alberto Manguel, Tutti gli uomini sono bugiardi (traduzione di Elena Liverani, Feltrinelli, Milano 2010). L’unico a non mancare il bersaglio è stato l’assassino che, forse, di Bevilacqua sapeva qualcosa di più. Quel “di più” che genera, alimenta, nutre il dubbio anche nelle persone che gli si credevano (e forse, banalmente, lo erano) più vicine. Ritorna quindi la domanda: che era, davvero, Alejandro Bevilacqua? È quell’avverbio, “davvero”, a inquietare, in situazioni del genere. Inquietava il Juan Herrera dell’Assassina letterata (Voland, 2004) di Enrique Vila-Matas, se ci si limita a un solo, recente esempio. Niente, più che la morte violenta di uno scrittore, inquieta la vita degli altri scrittori, che in qualche modo si sentono in dovere di prendere posizione (o forse è solo un’inconscia chiamata in correità?).

Quelli che restano si fanno domande, azzardano ipotesi, cercano – come si dice in questi casi – «nuova luce», trovando tutt’al più qualche lampo sul nulla. Ed è così che Alberto Manguel, poligrafo e scrittore, mette sulla scacchiera del libro il cadavere di un altro, immaginario scrittore argentino, Alejandro Bevilacqua, che una domenica mattina viene trovato morto in una strada di Madrid. Per la polizia, che archivia tutto, la morte è dovuta alla sua caduta intenzionale – leggi: suicidio – dal balcone di casa. Manguel parte dalla constatazione, vanamente ripetuta in tutta la storia della letteratura occidentale (dai Salmi biblici in poi), che «tutti gli uomini sono bugiardi, incostanti, falsi, ciarlatani, ipocriti, orgogliosi, vigliacchi, spregevoli» e “affida” l’inchiesta a un improbabile giornalista francese, Jean-Luc Terradillos, che nella Madrid anni Settanta ascolta le testimonianze di cinque persone vicine a Bevilacqua: un confidente, un’amante, un compagno di galera, un esule informatore dei servizi segreti. Nessuno è più arrogante di un giornalista, quando si parla di “fatti” e “realtà”. Ma al tempo stesso nessuno è meno capace di un giornalisti di guardare i mille volti e i mille fatti che compongono quel “fatto” e quella “realtà”. Non se ne esce. La questione dunque non verrà sciolta, perché – forse come tutti gli uomini, appunto – Bevilacqua non era una persona sola, ma tante persone sole in un’unica anima. Mentiva, certo, ma i testimoni chiamati a raccolta da Terradillos non mentono meno. Chi non lo fa, d’altronde, tutte le mattine, quando la realtà gli presenta il conto allo specchio? Ma soprattutto, dove comincia il vero, dove finisce il falso, in una vita di specchi come quella di Alejandro Bevilacqua? Ciò che resta, a conti fatti, sembra suggerire Manguel, non è la meta raggiunta, ma il percorso tracciato, la mappa che, mentre non porta a nulla se computata solo in termini di guadagno e resa nella “ricerca della “verità”, permette a Terradillos, a Manguel, al lettore una serie di fuori percorso e depistaggi molto più interessati e, a modo loro, attinenti al vero rispetto al percorso stesso. Come romanzo-saggio, Tutti gli uomini sono bugiardi gioca – come sempre accade per i lavori di Manguel e come sempre con alti e bassi- sul terreno fertile ma insidioso dell’intertestualità. Forse a Manguel interessa parlare sempre e soltanto di libri, di vite tradotte o anche post mortem traducibili (il che è lo stesso) in altri libri.

Per Alberto Manguel, nato nel 1948, cominciò tutto a Buenos Aires, nei primi anni Sessanta. Nella capitale argentina, abbandonata nel ’68, lavorava in qualità di commesso alla libreria Pygmalion. Fu lì che incontrò Jorge Luis Borges – oramai sulla strada della cecità – diventandone, per alcuni anni, una sorta di assistente-lettore (da qui Con Borges, Adelphi, 2005). A Manguel toccava, infatti, il compito di tradurre in “voce”, quelle lettere, parole e frasi che l’autore delle Altre inquisizioni non riusciva più a cogliere sulla carta e l’inchiostro nero. Se, dalla Storia della lettura (Mondadori, 1997) in poi, Manguel deve molto a Borges, non di meno è con Bueno Aires che con ben altra cecità che i conti – apparentemente chiusi nel 1968, quando cominciò a girovagare per l’Europa lavorando come traduttore – andavano in qualche modo riaperti. E Manguel l’ha fatto in un altro libro, tradotto da Maria Nicola per le edizioni Nottetempo: Il ritorno (Roma, 2010). Il passato, scrive Manguel, è «solo l’invenzione del ricordo che vuole farsi permanente e che noi confondiamo con qualcosa di immutabile». Che cosa cambia, allora, si domanda Néstor A. Fabris, antiquario protagonista del libro, che torna a Buenos Aires dopo trent’anni di lontananza? Cambia lo sguardo. Anche quando tutto sembra terribilmente immutato, come nella città raccontata nel Ritorno – un libro politicamente intenso, tra i migliori di Manguel. Tutto sembra uguale a trenta anni prima, ma l’improvvisa scoperta di una zona desolata del paese, durante una fermata non prevista del bus, squarcia la regolarità, con una regolarità più grande. In quel posto improvvisamente scoperto da Néstor A. Fabris tutto sembra concentrarsi nella ripetizione di un unico gesto che, maniacalmente, con assoluta regolarità e precisione, viene moltiplicato da decine di uomini: sono i fatasmi della dittatura. È l’inferno. Cosa muta, allora, nel suo sguardo? A mutare sono i punti da cui si osservano realtà che, sottilmente, in silenzio, stratificano. Come stratificate appaiono le molte, mai troppe vite di Alejandro Bevilacqua. Forse perché l’unicità, la ripetizione dell’identico, la ricerca di nessi tra causa e effetto magari probabili, ma in fin dei conti inutili, è ciò da cui più di tutto ci invita a distogliere lo sguardo il detective-Manguel.

Se il giornalista di Tutti gli uomini sono bugiardi ascolta più di un testimone, dunque, è forse per farsi confondere ancora di più le idee, per evitare che alla vita (e alla morte) di Bevilacqua si applichi quella reductio ad unum che, nel Ritorno, coincide con una presenza ahinoi più che reale, dell’inferno in terra. Si può anche non amare Manguel, ma non è questa una buona ragione, ma questo non ci salverà comunque dall’inferno del ricordo e dai paradisi della menzogna.

[da Il manifesto, 5 novembre 2010]

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