Ultimo Dio. Italo Mancini, teologo dei doppi pensieri
di Paolo Ercolani
Italo Mancini, sacerdote e teologo italiano, è stato fra i pensatori cristiani più attenti al confronto con posizioni teorico-pratiche distanti dalla propria. Consapevole che la verità è un animale che raramente si lascia irretire all’interno di una definizione univoca e conchiusa. Da lettore dell’Idiota di Dostoevskij, Mancini praticava piuttosto una «teologia dei doppi pensieri», alla ricerca di acquisizioni che non si esauriscono mai in un atto unico, ma sono vestite di doppiezza, dualità, ambiguità. Ne parliamo con Piergiorgio Grassi, professore emerito di filosofia a Urbino e allievo di Mancini.
Una delle tesi che maggiormente colpiscono di Italo Mancini riguarda il «primato del riconoscere sul pensare». Risiede qui l’essenza della sua filosofia della religione e perfino della sua religiosità?
Mancini intendeva elaborare una filosofia della religione e non una filosofia religiosa.
Filosofia della religione che pone in primo piano il dato storico della rivelazione. Per Mancini religione è una proposta radicale di salvezza che viene da «Altro» e non un discorso metafisico su Dio o una esperienza particolare del sacro, come quelle di cui parlano Rudolf Otto e Mircea Eliade. Di fronte a questo «dato» l’atteggiamento giusto è quello ermeneutico, che attraverso una serie di confronti (con la teoria e con la prassi) cerca di riconoscerlo nella sua specificità. Ciò non esclude il pensare: il pensare metafisico, all’interno della struttura ermeneutica, ha lo scopo di elaborare lo schema di possibilità di un evento straordinario di salvezza. Salvezza in senso forte: dalla morte individuale e dalla «impotenza collettiva d’amore», come scriveva Jean Paul Sartre. Questa impostazione comporta che il cristiano si ponga nella sequela del Cristo e si caratterizzi per il suo essere– per– gli altri, attento alla dimensione etico-politica. Una religiosità attiva e insieme sospettosa nei confronti di esperienze emozionali e privatistiche.
Intenso il confronto del teologo con Nietzsche e con quella «logica della disgregazione» che ne rappresentava uno dei lasciti più forti, soprattutto nella sua forma attualizzata da Deleuze e Guattari. Ce lo spiega?
Mancini constatava che nella seconda metà del Novecento si stava affermando una forma di pensiero che era profondamente influenzata da Nietzsche e che egli chiamava «pensiero negativo». L’accento veniva posto sulla diversità, l’opposizione, la frantumazione, al posto degli antichi segni della civiltà occidentale raccolti attorno al tema dell’unità e della totalità.
L’emozione e il sentimento, sempre ribelli ad ogni legge, prendevano il posto della consapevolezza basata sul pensiero che raccoglie e domina il diverso. Come scriveva: «Il carattere babelico della incomunicabilità stava prendendo il posto dei pensieri dominanti e delle certezze comuni in cui tutti un tempo si ritrovavano». Rizoma, il volume scritto a due mani da Deleuze e Guattari, era metafora e insieme l’apologia della destrutturazione, del frammentarismo del pensiero, «del pensiero come pulsione non programmata, discontinua, nascente». Con esiti potenzialmente violenti, com’è accaduto per le autonomie operaie che si sono ispirate a queste prospettive.
Mancini riteneva che si dovessero creare dei contro movimenti culturali, in grado di contrastare tali derive in vista di una cultura della riconciliazione, sulla base di convergenze etiche con tutti gli uomini di buona volontà.
Da filosofo del diritto Mancini criticò fortemente l’idea nietzscheana dell’«innocenza del divenire», intesa alla stregua di un «dire sì alla vita» che si libera da residui moralistici come la colpa e il peccato. Con quali esiti?
Leggeva questa espressione come il frutto della preoccupazione nietzscheana di salvare l’uomo e di condurlo alle terre dell’eterno ritorno. Mai si può parlare di pena e mai si può parlare di colpa se ogni azione è innocente e non si deve render conto a nessuno di ciò che si fa, dal momento che non esiste limite alla volontà di potenza. Citava dai Frammenti postumi 1987–1988, quella parte in cui Nietzsche dichiarava di voler essere missionario di un pensiero più ricco, vale a dire «che nessuno ha dato all’uomo le sue qualità, ne Dio, né la società, né i suoi genitori e progenitori, né lui stesso. È un grande ristoro – osservava – pensare che un tale essere manchi».
Utilizzando una bella espressione del teologo tedesco Jürgen Moltmann, Mancini definiva il marxismo una «religione in eredità», cioè che intendeva risolvere non religiosamente i problemi propri della religione. In che senso?
Nel senso che per il cristianesimo e per Marx esiste una questione: liberare l’umano da una situazione di disfatta, di caduta, diversamente identificata. Liberazione che nel cristianesimo si attua attraverso la mediazione della figura del Cristo, mentre per Marx si esige la mediazione del proletariato. Un proletariato che presenta caratteri in qualche modo messianici: la somma dei suoi dolori, l’alienazione totale nei confronti dei contesti della società civile, lo pongono come reale protagonista non solo della propria liberazione, ma anche dell’intera società. Non caso Karl Korsch aveva dichiarato che una religione dell’aldilà (il cristianesimo), sarebbe stata sostituita da una religione dell’aldiqua, il comunismo.
Grandi altezze teoretiche vengono raggiunte nel confronto con la critica al pensiero metafisico. In particolare Heidegger e la sua teoria dell’«ultimo Dio» come totalmente altro, su cui si affaticò Mancini…
Il rapporto di Mancini con il pensiero di Heidegger è stato tormentato e ha accompagnato la sua lunga riflessione. Nelle ricerche giovanili sul filosofo tedesco, Mancini aveva messo in luce il carattere totalizzante e potenzialmente totalitario della sua ontologia. L’ontologia suppone un processo conoscitivo che non mette al centro la responsabilità verso l’altro, non mette al centro l’etica, come voleva il filosofo Emmanuel Lèvinas. Nel tema dell’ultimo Dio presente nei Beiträge zur Philosophie – Mancini ne parla diffusamente nel suo testo postumo Frammento su Dio (del 2000) – intravvedeva, sia pure con notevoli ambiguità, l’apertura di un varco verso la trascendenza: era l’attesa di un Dio concepito come avvento storico, che «si mostra da sé», emancipato da ogni relazione con la metafisica greca. Un Dio, pertanto, più vicino alla tradizione giudaica. Mi rimane la curiosità di sapere cosa avrebbe detto Mancini di fronte alla recente apparizione dei «Quaderni neri», in cui il pensatore di Messkirsch si è lasciato andare a duri giudizi antisemiti, senza compiere alcuna ritrattazione della sua precoce adesione al nazionalsocialismo.
[cite]
da il manifesto, 27 maggio 2015
tysm
philosophy and social criticism
vol. 24, issue no. 24
may 2015
ISSN: 2037-0857
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