philosophy and social criticism

Movimenti nella polvere. Incontro con Cees Nooteboom

Marco Dotti

Pordenone, 17 marzo 2011

«Paesi simili esistono soltanto nel tempo, da un pezzo non esistono più nello spazio». Quando Arnold Pessers arrivò in Giappone, gli bastò poco per capire che «se si fosse guardato intorno davvero, si sarebbe riempito d’odio». Un odio che al suo primo incontro con un Oriente sognato e immaginato non aveva percepito. Ma poi accadde qualcosa, e quel “qualcosa” era che «il Giappone, gli aveva rubato il Giappone». Fotografo di moda protagonista di Mokusai, romanzo breve di Cees Nooteboom da poco ristampato dalle edizioni Iperborea nella bella traduzione di Fulvio Ferrari, Pessers è un flâneur post-moderno, che al camminare e al perdersi nei vicoli di una città infinita preferisce il volo degli aerei e le stanze d’appartamento. Ma Pessers, come un instancabile viaggiatore alla deriva, è pur sempre un romantico alla ricerca di un altrove. Quell’altrove che costituisce, forse, una delle possibili chiavi di tutta l’opera dello scrittore olandese. Forse, si diceva, perché Nooteboom è autore dai mille generi e dai cento volti – giornalista, critico d’arte, romanziere, poeta soprattutto.

Il viaggio è una variabile non irrilevante nei suoi libri. Va subito precisato che è una variabile, al tempo stesso, indipendente. Lei è un viaggiatore instancabile, autore di reportage memorabili, basti pensare al suo primo reportage sul quotiano Het Parool, dalla Budapest del 1956 invasa dai carri armati sovietici o alle stazioni di De omweg naar Santiago (Verso Santiago Feltrinelli, trad. di Laura Pignatti, Milano 1994), un percorso in luoghi ben più dimenticati dalla storia e dal tempo, nella Spagna degli anni Ottanta. Ciò nonostante, nei suoi romanzi i suoi protagonisti viaggiano in dimensioni “altre”, si spostano e si dislocano in temporalità sospese, complesse… Suppongo che la prima domanda che le venga generalmente posta sia esattamente del tenore seguente: “Perché il viaggio?”. Ma in fondo dovremmo chiederci che cosa è un viaggio, prima del perché. Citando da un suo saggio, Come si diventa europei? (Linea d’Ombra, 1994), potremmo dire che gli scrittori «spesso scrivono di paesi che non esistono, o che dotano determinati paesi di monti che di fatto non esistono», cosa che lei ha fatto ne Le montagne dei Paesi Bassi (Iperborea, 1996).

In effetti, spesso mi sento porre domande del tipo “perché i protagonisti dei suoi romanzi viaggiano?”. Oppure mi viene chiesto: “Perché viaggia?” Come se io avessi anche solo minimamente potuto immaginare quello che mi sarebbe successo, quando mi misi in viaggio per la prima volta. Si viaggia perché si respira, perché se non c’è aria la cerchi per respirare, per non morire. O per morire diversamente. Spesso mi chiedono anche che cosa mi avvicini a Bruce Chatwin o ad altri scrittori-viaggiatori, dando per scontato che la mia inquietudine sia simile alla sua. Sono domande a cui rispondo ma, francamente, senza sapere bene cosa rispondere. Non so, ad esempio, se io assomiglio a Chatwin, che pure ho conosciuto e ospitato a casa mia, in Olanda. Non lo so e non mi interessa. E dubito interessasse a Chatwin. Di certo, il viaggio costituisce un fil rouge tra i miei libri. Non solo, quel filo si stende tra ognuno dei miei libri e me e tra me e gli infiniti piani della realtà che ci avvolge, mi avvolge e ci circonda. Il tema del viaggio, a suo modo “viaggia” tra l’opera e la vita. Il che già complica le cose e mostra che quella del viaggio è più di natura metafisica che altro. Ha una sua fisicità, beninteso, se è vero – e almeno di questo posso dire che risponde al vero – che da quando intrapresi quel mio primo viaggio in autostop non mi sono più fermato. Ma è altrettanto vero che nemmeno quando nel 1955 pubblicai il mio primo libro, Philip e gli altri (Iperborea, trad. di David Santoro, Iperborea, 2005), che proprio di un viaggio parlava… Beh, neanche allora mi sono più fermato.

In realtà, per un po’ una sosta c’è stata. Il successo di Philip e gli altri fu, come si usa dire in casi come questo, travolgente. Milioni di copie vendute, traduzioni e il tentativo di lasciarsi alle spalle anche la letteratura, con De ridder is gestorven, letteralmente “Il cavaliere è morto”, pubblicato nel ’63. Dopo questo libro, lei ha scritto reportage, articoli, poesie, qualche racconto, ma nessun romanzo. Fino a Rituali (Iperborea, 1993) che però è del 1980…

Nel 1957, dopo il successo del mio primo libro, mi imbarcai come inserviente su una nave. Beh, non so perché iniziai a scrivere quel libro, né avevo progetti precisi quando mi misi a lavorare nella biblioteca di Hilversun, nell’Olanda del nord. So però cosa mi spinse su quella nave, diretta nel Suriname. Volevo andarmene e mi ero innamorato di una ragazza di quel paese, appunto. Ma il viaggio non è mai la meta. Come la mappa non è mai il territorio. Mappa, meta, territorio… Tutto è da è da vivere, non tanto e non solo da “pensare”. Viaggiare è meditare, che è più complesso. Meditare è viaggiare con la mente. Oggi pensiamo al viaggio ponendo attenzione soltato a un luogo da cui si parte e a un altro luogo in cui si arriva. Ma in mezzo? In mezzo, al massimo, concediamo ci sia una lunga o meno lunga perdita di tempo. La perdita di tempo c’è, ma in altro senso. È quasi una caduta verticale, perché è lì, in quel limbo, che tante cose succedono. Non sempre, ma se qualcosa deve accadere è proprio lì che succede. Nel ’57, accadde ad esempio che mi scontrai con la fatica, con il dolore, con la vita dura dei marinai. Con la povertà. Ciò che ancora fantasticavo in Philip e gli altri, che è la storia di un viaggio in autostop in giro per l’Europa, fino alla Lapponia, cadde di colpo. Cadde tutto nella polvere. Capii che il mondo – e se vuole, così facciamo contenti tutti, anche il “viaggio” – è quella polvere. Philip era troppo ingenuo, troppo bello, come un Candide senza sbavature. Andava portato là, dove la polvere di rode e ti consuma. Andava consumato. Così ho fatto.

Nel suo reportage dall’Ungheria del 1956, recentemente riportato nella silloge recentemente curata da Rüdiger Safranski, Avevo mille vite e ne ho preso una sola (Iperborea, Milano 2011), lei ricorre all’immagine delle polvere. «Prima che una terribile mano di fuoco e distruzione si abbattesse mortale, ho visto Budapest per l’ultima volta. Per un attimo era stato possibile credere alla pace (…) ma solo perché il Danubio non c’era quella polvere che segnava la città con il ricordo dei combattimenti»…

La storia è sempre coperta di polvere, ahinoi. A volte è coperta di macerie. Io sono nato in anni di guerra, mio padre morì sotto un bombardamento aereo, ricordo polvere e macerie. Le ricordo bene. A Budapest ci capitai quasi per caso – ma sarà poi stato davvero un caso? – al seguito di due amici fotografi. Fu uno shock. Soprattutto capire che il cosiddetto “Occidente” stava tradendo quelle persone…

Il suo ultimo libro, Tumbas, in corso di edizione per le edizioni Iperborea con le fotografie di Simone Sassen , tratta di tombe… Tombe di poeti e pensatori, ma pur sempre tombe. Altre macerie, altra polvere diremmo…

Quando si concepisce un libro come Tumbas, bisogna avere un certo interesse per luoghi non proprio amene, come i cimiteri. Ma quella di leggere i cimiteri è un’arte. Un cimitero è un mondo, un mondo di storie passate e, talvolta, quasi presenti. Ho sempre avuto interesse per questa forma di decifrazione delle storie che si possono ricavare dai piccoli indizi inscritti sulle lapidi (una moglie morta giovane, un marito sepolto dopo moglie e figli…). In Tumbas ho cercato di percorrere una sorta di mappa affettiva personale di tombe di poeti. Non tutti sono sepolti in cimiteri noti, come potrebbe essere Père-Lachaise a Parigi. Per esempio Wallace Stevens, che ho ritrovato a Hartford, nel Connecticut. Ma per arrivare lì, ho percorso con la Sassen una sorta di viaggio a zig-zag, passando dalla lapide di Onetti a quella di Neruda… Come vede, le ragioni del viaggio possono essere moltepolici. A volte è quella che sembra soltanto una lapide, con qualcosa di inciso sopra che ci guida nell’altrove. Libro a parte, il viaggio continua. Nel settembre scorso ho visitato la tomba di Tanizaki, in un monastero giapponese, a Kyoto. Per arrivare qui, a Pordenone, mi sono fermato a Bressanone dove ho scoperto essere sepolto il poeta tedesco Oswald von Wolkenstein… La letteratura ci spinge in avventure davvero strane, lungo cuniculi dimenticati dal tempo e dal mondo. Ci spinge a viaggiare, a ritroso e persino dentro il tempo. Sulle tombe dei poeti, poi, avvengono strani fenomeni, qualcosa di simile a rituali in un mondo desacralizzato, liturgie, vodoo.

Ci fa un esempio?

Sulla tomba di Samuel Beckett qualcuno ha lasciato un giallo israeliano. Vedendolo mi sono chiesto se pensassero davvero che Beckett sarebbe uscito dall tomba per leggerlo. Chiaro che no, ma altrettanto chiaro che chi l’ha lasciato compie così un suo piccolo rito. E il rito, a modo suo, è necessario. È un gesto di sano ottimismo. E Francis Bacon, quando gli chiedevano in che cosa credesse, rispondeva: “Non credo a niente, sono un ottimista”. Ecco tutto.

C’è poi un poeta senza tomba, Hugo Claus, a cui lei era particolarmente legato. Uno dei più grandi di lingua nederlandese, ancorché belga, a cui ha dedicato pagine commoventi. Di Claus i lettori italiani conoscono forse il bellissimo La sofferenza del Belgio (Feltrinelli, 1997), ma di certo ricordano la morte tragica e provocatoria, nel marzo di 3 anni fa, quando si fece praticare l’eutanasia…

Con Claus ci siamo visti e frequentati per cinquanta anni. Ho scritto il suo necrologio, poi pubblicato su Le Monde. Dopo la cerimonia funebre, ad Anversa, io e il primo ministro abbiamo visto tantissime persone. Ma quelle persone erano lì per una gara di biciclette. La bara di Claus se ne andò via da sola, col carro funebre e nessuno a seguirla. Le ceneri vennero disperse in mare. Claus aveva una forma ancora lieve di Alzeimer e non voleva morire umiliato dalla malattia. Scrissi una poesia sulla sua malattia, ma lui non si accorse mai che parlava di lui. La poesia diceva: «un uomo di carne divenuto stucco / un angelo d’ombra, solo, / e avvolto nella vuota professione / del tuo nome». Ma contro questo stucco, contro questa immagine ingannevole Hugo Claus si è ribellato. Fino all’ultimo. E così, ancora così io lo voglio ricordare.

[da il manifesto, venerdì 25 marzo 2011]

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ISSN:2037-0857