philosophy and social criticism

Wakamatsu, demone di mezzogiorno

Matteo Boscarol

Marco Dotti

25 aprile 2004, Nagoya (Giappone)

«Di che colore è un bianco?» Se lo chiedeva Jean Genet riecheggiando, in apertura di una pièce molto nota e controversa (I negri), tanto il linguaggio di Franz Fanon, quanto le suggestioni anti-identitarie de Les Maîtres fous di Jean Rouch.

«Il bianco è finzione. Non è quello, il tuo colore, ma il rosso». A parlare, stavolta, mentre lega a un palo l’ultima delle sue vittime, è un giovane criminale, il serial killer protagonista di uno dei pluricensurati film del giapponese Koji Wakamatsu. Regista di passioni, e di quella passione politicamente intensa che è, appunto, l’odio, Koji Wakamatsu non esita davanti ad alcun altare, neppure quando si tratta di ridicolizzare il rosso sacro dell’hinomaru, la bandiera imperiale giapponese.

Chi ricorda le sequenza di un film dal tessuto visivo rigorosamente votato alla bicromia come Su, su due volte vergine (Yuke yuke nidome no shojo, 1969), ricorda anche come le luci, d’improvviso, si aprano al colore per mostrare un cerchio rosso, composto dal sangue di corpi straziati – gli attempati partecipanti ad un’orgia, sgozzati dalla reazione della loro vittima predestinata – disposti in modo da ricordare un sole ormai prossimo al declino. A fare da preciso contrappunto alla vicenda una vecchia canzone, in cui, per un attimo, si sentono nomi, e si aprono orizzonti familiari: «Tutti mi tradiscono,/ mi hanno lasciato solo./ Jean, Miller e Norman Mailer/ sono in mezzo alla palude./ Questo non è un neon dritto e rosso,/ non è calda/ la lama del coltello su cui si è rappreso».

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L'ingresso del Cinema Skholé a Nagoya (fotografia di Matteo Boscarol)

Cattivo maestro per più di una generazione, nel 1983, a Nagoya, Wakamatsu ha fondato Skholé (http://www.cinemaskhole.co.jp ), un cinema d’essai divenuto in poco tempo un vero e proprio luogo di culto per appassionati e curiosi. Un’unica sala, molto piccola, ma ricca di proposte stimolanti e contro tendenza: underground asiatico e periodiche rassegne a tema, come quella, recente, dedicata alla Palestina, introdotta da due figure chiave della dissidenza giapponese che rispondono al nome di Shigenobu Mei e Adachi Masao, rispettivamente fondatore e membro dell’Armata rossa giapponese. Fatto significativo, il Cinema Skholé si trova all’ombra dei due più grandi grattacieli di una città quasi inghiottita dall’incedere dei centri commerciali, in una di quelle strette via laterali tipiche delle metropoli giapponesi, nella zona che, dopo la Seconda guerra mondiale, ospitava il mercato nero.

Wakamatsu ci aspetta all’ingresso della sala. Si mostra cordiale e disponibile. Il suo modo diretto di rapportarsi, l’ironia e il tono semplice, ricco di espressioni colloquiali, libera l’atmosfera da inutili, quanto equivoci, rituali di cortesia. L’impero dei segni, e dei codici, sembra dissolversi dietro le sue frequenti risate. Così, dopo le presentazioni di rito, zigzagando fra strade interrotte e lavori in corso (Nagoya ospiterà l’EXPO 2005), ci dirigiamo verso il piccolo caffé dove, sorseggiando sakè, Koji Wakamatsu, regista estremo sui generis, anima nera e critica della società giapponese, accetta di rispondere alle nostre domande.

Il pubblico italiano conosce ancora poco il suo cinema. Una nottata di visioni a tema dedicatale da Fuori orario (Rai 3, 23 gennaio 2004), e la recente proiezione di alcuni lavori, Donne in bianco stuprate (Hokosareta akui, 1967) e L’embrione caccia in segreto (Taiji ga mitsuryôsuru toki, 1966), nella sezione”Eros+ Massacro” del Sulmonacinema hanno però suscitato interesse di pubblico e critica.

Wakamatsu (fotografia di Matteo Boscarol)

Wakamatsu (fotografia di Matteo Boscarol)

Anche l’anno scorso, quando ho partecipato al Vienna Film Festival molta gente ha potuto vedere i miei film che, a quanto pare, sono stati apprezzati. Anche in Francia. Comunque, cinque dei miei film, quegli degli anni Sessanta che piacciono in Europa, sono stati proiettati con un discreto successo. Si sono proprio questi film degli anni Sessanta che piacciono in Europa…chissà perché….A dire il vero anche in Giappone tre anni fa durante un festival questi stessi film hanno entusiasmato una parte del pubblico prettamente femminile, in particolare fra le ragazze tra i 18 e i 23 anni….(in Giappone i film “indipendenti” hanno un notevole successo fra le ragazze giovanissime, forse più sensibili a certi stili non ortodossi, ndr). Forse sono moderni, sono originali, hanno il mio stile. Proprio in quegli anni ho visto per la prima volta i film di Godard.

Si ricorda i titoli?

Certamente, Pierrot le fou e Fino all’ultimo respiro furono molto importanti per me.

Fino all’ultimo respiro è del 1960, un anno chiave per il Giappone. Ci furono le drammatiche contestazioni al trattato di sicurezza firmato con gli Stati uniti, ma anche gli scioperi e la rivolte nella miniera di carbone di Miike e nella vicina Wakamatsu, il cui kanji, notiamo, è lo stesso del nome del suo nome. Oshima, che di lì a poco avrebbe girato Notte e nebbia del Giappone e Racconto crudele di gioventù, descrive il film di Godard come una sorta di evento generazionale, capace «di farci prendere nuovamente coscienza del fatto che il fascino del cinema risiede nella continuità della discontinuità». Un fatto simbolico che dà inizio al parricidio artistico di Ozu, e, al tempo stesso, inaugura la crisi industriale del sistema di produzione cinematografica, mostrando – è sempre Oshima a parlare – la resistenza di un «un regista che sa di non poter mangiare o sopravvivere con il proprio mestiere».

È proprio vedendo i film di Jean-Luc LGodard che ho capito che era possibile arrivare a un cinema che non fosse solo la copia di quello di qualche altro regista, usando quindi il mio stile, filmando nel mio modo, alla mia maniera, con la mia grammatica…

La sua grammatica?

Sì, la mia grammatica, un cinema quindi che non abbia niente a che vedere con quello degli altri, neanche con quello di Godard. Fare semplicemente dei film che esprimano quello che ho dentro, le mie idee, il mio cuore (il termine giapponese usato dal regista è “kokoro”, ndr). Non importano le condizioni economiche – a quel tempo, ad esempio, non avevo molti soldi -, le imposizioni politiche, nei film devo essere libero di esprimere ciò che voglio esprimere, non devo render conto a nessuno, io. Forse per questa ragione i miei film non sono invecchiati, anche dopo trenta, quarant’anni un bel film è comunque un bel film.

Che cosa considera materia per un buon soggetto cinematografico? Quale grado di autonomia mantiene sul set rispetto alla sceneggiatura?

Di solito quando sono con i miei collaboratori, magari bevendo saké, se ho delle idee comincio a parlarne, così come viene, senza freno, butto fuori ciò che ho in testa… Ma loro non riescono a starmi dietro! «Non siamo dei computer, va piano!», mi dicono! Non sono bravo a scrivere, è una tale seccatura! Se mi mettessi a scrivere non sarebbe più la stessa cosa… Le persone che mi stanno attorno cercano di trascrivere ciò che dico, ne discutiamo, mi correggono, lo sistemano un poco ed è così che nasce la sceneggiatura. Poi è come costruire una casa: c’è il progetto ma posso cambiarlo, posso apportare delle varianti a seconda delle situazioni, delle necessità.. Allargo un po’ l’entrata, modifico qua, modifico là… la moglie vuole una cucina più larga e io gliela faccio…

Wakamazu alla fine degli anni '60

Wakamatsu alla fine degli anni '60

E poi comincia a girare?

Sì, subito! non faccio mai rehearsal, io! Non aspetto le situazioni ideali: il tempo perfetto, la disposizione del set. Piove, c’è il sole, tira vento, non perdo tutto questo tempo! Comincio a girare e vedo che cosa ne viene fuori. Per esempio entro nel bar in cui ci troviamo, sistemo le telecamere e comincio a filmare con gli attori che conoscono sì il copione, ma non hanno la minima idea di dove sia il bagno, della disposizione dei tavoli etc. In questo modo il tutto è più veloce e interessante…

Ci può raccontare come si è avvicinato al cinema?

Da giovane non mi è mai passato per la testa di diventare regista! nemmeno per sogno! La storia è questa: nel periodo che ho passato in prigione, la polizia carceraria mi ha trattato crudelmente, senza pietà, come una bestia e in modo disumano, perciò ho pensato: «una volta uscito di qui, mi vendicherò, gliela farò pagare cara alla polizia!». Ma se così avessi fatto sarei sicuramente tornato dentro, non lo pensate anche voi? Allora ho cercato altri modi per esprimere e scaricare la rabbia che avevo dentro. Dapprima, provai con la scrittura. Ma dopo aver scritto una decina di pagine mi sono accorto che non ero capace di esprimere nulla di compiuto, dato che non avevo completato gli studi; infatti non sono mai andato alla scuola superiore! E infine, ecco quindi che mi sono avvicinato al mondo del cinema, dapprima attraverso la televisione, andando da un produttore e pregandolo in ginocchio di farmi lavorare in qualsiasi modo, anche come semplice garzone.

Wakamazu in una caricatura degli anni '70

Wakamatsu in una caricatura degli anni '70

Cominciando a lavorare dal livello più basso, infatti portavo il pranzo sul set, ho immediatamente notato che l’ambiente era totalmente sporco, servile e falso…Disgustato, per un certo periodo ho provato a fare l’assistente di regia, ma anche qui litigavo spesso. Ero quasi deciso a ritornare a casa mia a Miyagi, quando un giorno, in un bar, sorseggiando sakè, un manager che conoscevo mi disse: «Perché non provi a fare il regista?» «Io il regista? Ma non posso farcela, non sono preparato!» Ma lui, avendomi visto lavorare come aiuto regista, mi incoraggiò. Ripensando alla sua proposta, e osservando come lavoravano gli altri, mi sono detto: «Se ce la fanno loro, perché non dovrei farcela io!» «Se loro hanno studiato e lavorano quindi con la testa, io lavorerò con tutto il mio corpo senza usare la testa!”(ride). Quindi, dopo due anni passati in televisione, ho cominciato a girare film.

Soltanto due anni?

Sì ! Un anno a portare pranzi e un anno come assistente alla regia, così ho risparmiato tempo invece di sprecarlo negli studi!(ride). E nel 1964 ho girato Amai wana (Dolce trappola) il primo e unico film di cui abbia scritto anche la sceneggiatura, in cui faccio uccidere tanta di quella polizia per vendicarmi del trattamento subito in galera. Questo film mi fece conoscere al pubblico e arrivare nuove offerte, forse perché originale, diverso dalle grandi produzioni, qualcosa di mio fuori dalle regole…Però non come i cosiddetti film indipendenti che si atteggiano, vogliono essere stylish, i miei al contrario nascono da qualcosa che ho dentro, dalla rabbia…e poi anche il periodo degli anni sessanta, gli studenti e le persone che mi circondavano come Yamatoya Atsushi e l’ex membro dell’Armata Rossa giapponese (JRA) Adachi Masao, mi hanno aiutato piano piano a crescere, mi hanno fornito idee, materiali, accompagnandomi fin sulla soglia degli anni Settanta.

Nel suo mondo la violenza è un motore di significati. Ci è parso fondamentale il legame con la musica. Pensiamo in particolare alle torture de L’embrione caccia in segreto, con le frustate scandite da accordi sinfonici, o al free-jazz che punteggia gli attentati terroristici nel finale di L’estasi degli angeli (Tenshi no kôkotsu, 1972). Ci interessa sapere quanto per lei è decisivo questo connubio in fase preparatoria e quanto la musica sia sua ispiratrice?

Certamente traggo ispirazione dalla musica. Guidando la ascolto sempre, specialmente il free-jazz. Così, molte volte mi vengono delle idee che poi utilizzo nei miei lavori. Ma anche andando ai concerti, come è successo un po’ di tempo fa, quando sono andato ad un live che mi ha entusiasmato, davvero! Ha fatto scattare qualcosa dentro di me, mi ha dato delle sensazioni che poi ho usato nel mio ultimo film 17-sai no Fukei – Shonen wa Nani o Mita no ka, presentato al Regional film festival di Tokyo lo scorso ottobre.

Di che concerto si trattava?

Un live di shamisen (sorta di chitarra liuto-giapponese dal timbro deciso e forte, ndr) di un musicista ancora giovane ma abbastanza popolare… Non soltanto dalla musica, ma da molte altre cose ricevo, per così dire, l’ispirazione. Prendiamo ad esempio un film che recentemente avete mandato a Sulmona, Hokosareta akui (Le donne in bianco stuprate): sfogliando il giornale notai un articoletto di cronaca su un fatto successo a Chicago dove un ragazzo uccise in un sol colpo sei ragazze, ma ne risparmiò una.

Solo una? Si è chiesto la ragione?

Wakamazu (fotografia di Matteo Boscarol)

Wakamatsu (fotografia di Matteo Boscarol)

È proprio questo che suscitò il mio interesse. Cercai allora di immedesimarmi nel ragazzo, pensare come lui, e farmi la mia opinione sulla ragione per cui ne risparmiò una sola. Non ascoltai i pareri inutili di inutili psicologi, cercai di esprimere, semmai, ciò che avevo sentito dentro: che solo quella ragazza forse non lo temeva, ma aveva tentato di capirlo…ma anche questo probabilmente non corrisponde al vero ed è solo un riflesso del mio personale punto di vista. Comunque siano andate le cose, è in questo modo ho girato il film. Ma vi assicuro che davvero prendo ispirazione da qualsiasi cosa ! Prendiamo il caso di un altro film, L’embrione caccia in segreto. Eravamo a fine maggio quando in Giappone inizia la stagione delle piogge e come mia abitudine la mattina appena alzato aprii la finestra. «Accidenti, piove! Che noia! «che monotonia, non si può uscire!», dissi. «Ma a pensarci bene», mi risposi, «perché non girare un film in una sola stanza, sarebbe interessante!» Mi risparmiai in questi modo la noia di girare all’esterno ed in soli tre giorni, di getto, bevendo liquore giapponese mettemmo insieme la sceneggiatura…

Sembra che il sakè la ispiri spesso…

Sì, è una costante. Comunque, dopo la sceneggiatura cominciammo le riprese. Era passata solo una settimana. Come vi ho detto, l’ispirazione mi arriva fulminea da qualsiasi cosa, fosse anche la più triviale. Questo e il mio stile, questi sono i miei film. Li si possono riconoscere anche senza sapere il titolo o il regista, solo guardandoli: «Ah! questo è un mio film…»

È un Wakamatsu!

Sì, sì… del resto si possono forse fare film come quelli Kurosawa, Ozu o Mizoguchi? Di certo no, ognuno ha il suo stile, sempre personale.

Quindi nel panorama attuale non vede registi a cui si sentirebbe di passare il testimone?

Sarebbe impossibile! Ognuno deve andare per la sua strada, fare il proprio cinema.

A proposito, prima Lei ha citato alcuni registi: se fosse costretto a sceglierne uno e sacrificare l’altro, Ozu o Mizoguchi?

Ah, io mi tengo Mizoguchi, senza dubbio! Ozu è difficile, parla sempre di rapporti famigliari (ride con gusto)! Eh, sì, proprio mi tengo stetto Mizoguchi.

È noto il suo coinvolgimento la rivoluzione palestinese. Ci può raccontare qualcosa di questa esperienza?

Nel 1972 circa, di ritorno dal festival di Cannes, Adachi Masao ed io, zaino in spalla, decidemmo di andare in Palestina armati solo di una 16mm. All’inizio girando un film pensavamo di poter ricavare qualche soldo visto che in Giappone nessuno si occupava della questione mediorientale essendo tutti occupati a protestare contro la guerra in Vietnam (che anch’io, peraltro, condannavo). Ma una volta arrivati sul posto cambiammo decisamente opinione: ci rendemmo conto che la situazione era grave e che i palestinesi lottavano disperatamente per rientrare nei loro territori, per ritornare a casa. Così il nostro proposito di speculare sulla situazione svanì e decidemmo di documentare quanto che stava succedendo in Palestina. Una volta rientrati in Giappone, dato che le grandi produzioni non avevano (e non hanno) il minimo interesse nel problema, comprammo un autobus e girammo in lungo e in largo il paese decisi a mostrare il nostro film.

Dove lo proiettaste?

Dovunque capitasse, principalmente nelle scuole e nelle aule di ginnastica. Ma la polizia cominciò a guardarci con sospetto, ci credeva dei sovvertitori, degli pseudo-terroristi e ogni giorno almeno cinque o sei poliziotti ci seguivano. In quel periodo subii sedici o diciassette perquisizioni a casa mia, così, all’improvviso e alla fine mi hanno proibito perfino di entrare negli Stati Uniti! Ma sai, ci siamo interessati al problema palestinese una trentina di anni fa quando ben poca gente se ne preoccupava, un po’ troppo presto (ride, stavolta con ironia)!

In quegli anni decidere di recarsi in Palestina non era a dir poco pericoloso?

Si, ma noi non ne sapevamo niente. Nessuno sapeva che cosa accadesse da quelle parti! I giornali non ne parlavano, le televisioni nemmeno. Io e Adachi Masao abbiamo solamente documentato la situazione, non è colpa mia se poi visto il film molte persone hanno cominciato ad interessarsi al problema o sono diventate filo-terroriste!! Ho conosciuto Shigenobu Fusako (fondatore dell’Armata Rossa

Giapponese, ndr), probabilmente in Palestina, frequentava gli stessi bar dove andavamo, ma noi dicevamo: «ecco è arrivata la checca»!. Non era nostra “amica”.Ho mostrato la realtà che molte persone non vogliono mostrare! Anche adesso molti hanno timore di mostrarla perché quasi tutte le grandi testate giornalistiche e le televisioni sono in qualche modo dirette da Ebrei. Sia ben chiaro non ce l’ho con il popolo ebreo, è semplicemente un dato di fatto! Non c’e’ differenza fra questa o quella popolazione quando si tratta di ritornare nella propria terra, nel proprio paese! Prendi quel gran intrattenitore che è Spielberg. Nel suo film A.I. Intelligenza artificiale il bambino vaga alla ricerca della famiglia per moltissimo tempo per poi ritornare per così dire a casa, esattamente dopo duemila anni…Il film quindi è si intrattenimento ma ha anche chiaramente un messaggio, il messaggio di Spielberg che implicitamente ci dice il desiderio del suo popolo, Spielberg infatti è di origini ebraiche, di ritornare (di avere) dopo duemila anni alla sua terra..Se guardi bene quasi tutti i suoi film hanno questa tematica di fondo,quindi fare dei film “commerciali” ma che portino anche un altro messaggio …è notevole! Che quegli stupidi di critici cinematografici facciano più attenzione! Anche nel mio caso quando giravo film vagamente erotici, i cosiddetti pinku-eiga, la gente andava al cinema attirata dal titolo, magari aspettandosi un film porno o qualcosa del genere, ma poi vedevano un Wakamatsu ed era un’altra cosa. Comunque uscivano soddisfatti e questo è ciò che conta. Fare i miei film sì, ma anche intrattenere gli spettatori; ne ho fatti tanti ! Talvolta ho impiegato solamente tre giorni per le riprese!

Come lega cinema e politica?

Non mi sono mai lasciato influenzare da niente figuriamoci dalla politica!Molte volte però mi arrabbio con i politici, sì, mi fanno davvero salire la rabbia e allora gli faccio dei film contro. Non ho mai ucciso dei politici nei miei film! Poliziotti moltissimi, forse sono il regista che nei suoi film ammazza più sbirri di tutti.

A che che cosa sta lavorando adesso?


Recentemente, a un festival, è stato presentato il mio ultimo film 17-sai no Fukei – Shonen wa Nani o Mita no ka. È la storia di un ragazzo che ha ucciso sua madre a Okayama ed è fuggito in bicicletta per un giorno intero fino ad Akita, nel nord del Giappone, percorrendo circa 100 chilometri. Su questo fatto, televisioni, giornali e psicologi hanno detto un mucchio di stronzate! Io ho cercato di pormi invece dalla parte del giovane, capirlo senza però dare delle spiegazioni conclusive, nessuno conosce mai la verità! E così, nelle scene finali del film, si vede il ragazzo che, solitario nel paesaggio nordico di Akita, cammina sulla spiaggia coperta di neve, portando la sua bicicletta in spalla quasi fosse una croce, il suo calvario, il suo mistero…

Ho immaginato filmicamente il ragazzo ogni giorno nella sua camera, nelle scale, dovunque con la madre che lo schiaccia :”Non fare questo, non fare quello! Fai questo ! Fai quello!” Quindi nasce la rabbia, la violenza. Del resto proprio in quella occasione chiesi alla mia troupe:«Non vi piacerebbe uccidere Bush?» e tutti «Si certo», ma non si può. «Vi piacerebbe uccidere Koizumi?» «Si certo!», ma non si può ! E dopo i potenti e i politici chi viene? Il padre, certamente. Ma anche lui è troppo forte, non si può ucciderlo! Così, gradualmente, si arriva ai più deboli, ai bambini agli animali. È un fenomeno sociale tipico del nostro tempo questo della violenza dei giovani che ha delle radici profonde. Una volta non succedevano questo tipo di omicidi, un tempo i genitori ammazzavano i bambini, li si metteva in ceste di vimini e li si buttava nel fiume perché non c’erano abbastanza soldi per sfamare tutti.

Quindi il Giappone è cambiato. Vede dei cambiamenti anche in altre cose?

I giovani sono viziati, deboli, il paese è cresciuto solo superficialmente. Gli oggetti, le cose sono aumentate, le comodità anche… ma i politici, la tv (dove non si vedono che programmi di cucina o comici) e le nuove tecnologie ci hanno rubato lo spirito non si usa più il corpo, non ci si incazza più. Rispetto a 30-40 anni fa nessuno protesta contro i politici, i giovani non si interessano di questo! Per esempio c’è la guerra in Iraq, ebbene non c’è stata nemmeno una dimostrazione di protesta! Ma per il baseball, quando volevano unificare i due campionati nazionali, per questo si che hanno protestato!! Contro la guerra in Iraq, dove la gente muore, nessuno, dico nessuno… ma per il baseball, quello sì! Come si è soliti dire qui da noi: se gli Stati Uniti starnutiscono, subito il Giappone si prende il raffreddore. Ecco, siamo diventati succubi degli americani. Perché quegli idioti di politici invece di mandare le truppe in Iraq non le mandano a Nigata per aiutare i terremotati? Non sarebbe più utile? Ma i politici non lo possono capire sono troppo impegnati a imbellettare le loro sciocchezze e ad apparire in tv…Se prendi Bush, Putin e l’altro come si chiama…

Blair?

Sì, quello e poi anche Koizumi…

Allora anche Berlusconi…

Si! Se li prendi tutti e inquadri solo la faccia, sono così piccoli, così identici, hanno le stesse misere espressioni!! … Proprio mi fanno incazzare (haratatatsu, dove il kanji hara significa stomaco, viscere, ed è lo stesso carattere usato per harakiri: tagliare le viscere, lo stomaco, ndr.)! object>

Gli faccia dei film contro!

Eh si, non mi resta altro da fare! Ritornando a prima, ci terrei molto a fare un film su Asama sanso jiken, la montagna dove, nel febbraio del 1972, assediati per dieci giorni, alcuni membri dell’Armata rossa giapponese riuscirono a resistere a un migliaio di poliziotti. Sia chiaro che il film non lo vorrei fare per prendere le difese di una parte o dell’altra. Mi preme mostrare la verità.

Ecco vorrei proprio lasciare in eredità un film che dica cosa è successo veramente, non come quella sciocchezza di Totsunyuseyo! Asama sanso jiken di Masato Arada , che ha il non piccolo difetto di raccontare l’episodio tutto dalla parte della polizia. Proprio vedendo questo film mi è sorta la rabbia, la voglia di fare un film che racconti come sono andate le cose, perché io so come sono andate le cose: quando sono andato in Palestina, Kunio Bando – il membro dell’Armata che faceva parte del gruppo presente ad Asada, e che nel 1977 dirottò l’aereo della Japan Airlines, sulla rotta Parigi-Tokio – mi ha raccontato tutto. Però per fare questo genere di film ci vogliono un sacco di soldi e gli sponsor sono molto difficili da trovare. Ma davvero vorrei girarlo e una volta fatto potrei anche rassegnarmi a morire.

A parte il cinema ha altri progetti?

Sto diventando vecchio e le donne non fanno più per me, quindi direi che il cinema è la mia ultima spiaggia, la mia sola risorsa, l’unica speranza che ancora mi resta.