philosophy and social criticism

L’economia del gesto. Intervista con Pierangelo Dacrema

Marco Dotti

«Il denaro è proprio questo: velocità. Una velocità che, per molto tempo, ha facilitato il funzionamento del gesto economico, ma oggi ne costituisce quasi una patologia». Pierangelo Dacrema, economista, docente all’Università della Calabria, autore nel 2007 di un libro profetico (La dittatura del Pil. Schiavi di un numero che frena lo sviluppo, Marsilio), punta dritto al cuore della questione chiave che sta travolgendo il mondo occidentale in crisi: il denaro, che da mezzo è diventato fine.

C’è un’immagine molto bella e al tempo stesso inquietante, in un racconto scritto da Paul Auster sul finire degli anni Ottanta. È l’immagine delle cose ultime, che dà il titolo a un libro ingiustamente sottovalutato, In the Country of last things. Partita alla ricerca del fratello scomparso, Anna Blume, diciannovenne protagonista, arriva in un paese dove la catastrofe è un fatto compiuto, il default ha svelato i propri effetti non solo sulla finanze di uno Stato, ma sulle cose stesse – le più comuni, dallo spazzolino da denti all’aspirapolvere – che oramai sono quasi un ricordo. Senza l’ancoraggio alle cose, confondendosi col denaro che da strumento è diventato una sorta di mezzo senza scopo, l’economia ha abbandonato ogni forma di vita. Eppure, proprio in questo vuoto, la tensione per le cose sembra tornare, improvvisa. «Lascia crollare ogni tutto – fa dire Auster alla sua protagonista – e poi vediamo cosa rimane. Forse questo è il punto più interessante: vedere quello che accade quando non rimane più nulla e scoprire se, anche così, sopravviveremo». Nel testo di Auster qualcosa dunque rimane: sono gli affetti, le relazioni, frammenti delle poche cose fatte e delle molte ancora da fare. Ma a noi, dall’altra parte dello specchio, persi nella spirale di una crisi peggiore di quella del 1929, forse la peggiore di sempre, che cosa rimane?

Rimangono, né più né meno, le cose. Se siamo capaci di comprenderne la sostanza. Perché forse è proprio questo averci offerto continui alibi e dilazioni rispetto alle cose, uno degli effetti più perversi della crisi iniziata nel 2008. Crisi che non abbiamo saputo assumere in pieno, perché abbiamo preferito affastellare davanti agli occhi sempre nuovi problemi, ma mai il problema. Abbiamo ceduto alla lusinga di spostare giorno dopo giorno con la complicità, dolosa o colposa che fosse, di un certo numero di attori – dai media, alle agenzie che monopolizzano il mercato del rating a spesso inadeguati operatori creativi di hedge fund – l’asticella, dichiarando una misura e saltandone un’altra. Così facendo si è procrastinata ogni piena assunzione di responsabilità di un sistema che, in mano al denaro, che è velocità allo stato puro, sta delirando nel suo complesso. Ci siamo in qualche modo assuefatti al denaro, uno strumento leggero, veloce, che facilmente può essere confuso con un obiettivo. Stiamo osservando il succedersi di continui scossoni sistemici come spettatori davanti a un naufragio, quasi che la deriva non ci riguardasse. È un pensiero implicito, una sorta di schizofrenia tra fare e sentire che purtroppo ci ha fatto perdere di vista un elemento fondamentale, ossia che il denaro è un fenomeno estraneo all’essenza del fatto economico. Il denaro è lo strumento che, date certe condizioni, facilita il perfezionarsi del fatto economico. Ma un fatto economico, di la’ di cio’ che puo’ favorirlo, è sempre un concretizzarsi di pensiero e azione. È un gesto. Niente di più, niente di meno.

Dovremmo quindi tornare a una corretta comprensione di che cosa è “economia”, per capire realmente e intervenire alla radice di questa crisi? Dovremmo quindi uscire dall’ossessione per il mezzo e tornare alla passione dei fini?

Anche qui partiamo dalla constatazione semplice – ma le cose semplici, ricordava Einstein, hanno spesso un altro grado di complessità nel nostro mondo – che il benessere non ci può mai derivare dal denaro in sé, ma dal lavoro, ossia dall’economia. Ossia da quell’insieme di gesti, pensieri e emozioni che siamo tutti in grado di compiere e che costituiscono la nostra economia. Viviamo di gesti, viviamo di pensieri che si devono calare in azioni, non di denaro. Il denaro può rivestire i rapporti economici e sociali, ma non ne è la sostanza. Ciò significa che il denaro, anche se può influenzarli, non è alla radice di questi rapporti. Pensiamo a una buona cena, anche in assenza di denaro io sentirei la necessità di questo piatto di pasta o di questo bicchiere di vino o avrei, più prosaicamente, bisogno di un artigiano per un lavoro. Il denaro, semmai, è una modalità di movimento dell’economia, il ritmo del suo funzionamento, la sua velocità. Nella sua essenza, il denaro è proprio questo: velocità. Una velocità che, per molto tempo, ha facilitato il funzionamento del gesto economico, ma che oggi ne costituisce quasi una patologia. Il denaro è dunque velocità allo stato puro, che non riusciamo più tenere a freno. Anche perché il denaro, che sarebbe preposto a regolare i flussi di prestazioni legate ai nostri gesti, ha dei limiti microeconomici e dei difetti strutturali. Tra i difetti strutturali del denaro dobbiamo considerare almeno due fattori persino drammatici, nella situazione attuale: l’occupazione e la disoccupazione apparente.

In che senso apparente?

Nel senso che un terzo della popolazione lavorativamente attiva di un sistema mondiale a economia evoluta e’ occupata in settori che, dalla contabilità alla progettazione finanziaria, dalla salvaguardia alla negoziazione professionale del denaro, hanno a che fare con la gestione della moneta, ma sono per dir così altamente “inoperosi”. È un tributo umano che il denaro ci chiede: impiegare uomini, risorse, energie per il benessere non dell’uomo, ma del… denaro stesso. Parlo di occupazione apparente, perché questa forma di occupazione è costituita da un insieme di mansioni e compiti professionali che non incidono sulla qualità della vita e non hanno riscontro in un’attività produttiva vera e propria, ma in qualcosa che corrisponde a una necessità del sistema-denaro di avere persone dedicate alla sua “cura” e alla sua manutenzione. I numeri “chiedono” una manutenzione, ma non sono in relazione diretta con la produzione di quanto ci è utile, non rispondono – cosa che fa, invece, l’occupazione reale – a un bisogno concreto. Che cosa succederebbe se portassimo questo terzo della popolazione mondiale da un’occupazione apparente, a un’occupazione reale? Pensiamoci, perché forse il nostro problema, e la crisi del nostro sistema, è tutta qua.

Lei ha parlato anche di una disoccupazione apparente. Questo richiama, in qualche modo, alla mente, per contrasto, la disoccupazione creativa di cui parlava già negli anni Sessanta Ivan Illich…. Anche in questo caso si tratta di liberare il gesto dalle gabbie in cui è stato rinchiuso?

La disoccupazione, per come la concepiamo oggi, si definisce unicamente in rapporto a uno stipendio e, quindi, ancora in rapporto al denaro. Un disoccupato e’ considerato tale in quanto fuori dal circuito della moneta. La disoccupazione è un’idea statistica, che a poco a poco scivola sul piano esistenziale, diventa una condizione da cui è praticamente impossibile uscire perché il disoccupato trova nella propria condizione di reietto dal sistema l’impossibilità stessa di reimmettersi nel circuito all’apparenza salvifico del denaro. Un uomo “senza lavoro” è pur sempre un uomo che ha gesti, desideri, pensieri, azioni, economia. Ma questo per le statistiche non conta. Un uomo senza lavoro è comunque un uomo che si prende cura di sé, degli altri, della propria vita. Ma per il sistema-denaro anche quest’altro aspetto non conta. Perché per questo sistema non è la qualità del fare, ma la quantità il metro di giudizio. E in questo modo, oltre a ribadire che la disoccupazione involontaria è un’altra delle allucinazioni collettive prodotte dal denaro, va aggiunto che è anche il segno stesso della sua inadeguatezza strutturale. Si guardano i numeri, si dimentica l’uomo. Ma l’economia, l’abbiamo detto, è l’attivita’ propria di un animale che pensa, che agisce e che vuole, e che chiamiamo “uomo” proprio per questo. L’economia è fatta di gesti, non di numeri. Eppure, in ragione della nostra scarsa capacità di comprendere – demonizzando o adorando, a secondo dei casi – il denaro e la sua concretizzazione, la moneta, in questo scorcio di nuovo millennio ci ritroviamo schiacchiati da numeri e cifre di ogni tipo, senza forze e senza tempo, e ci dimentichiamo che l’aritmetica più importante era è e rimane quella della nostra esistenza. Dovremmo tornare alle cose, per riprendere l’immagine di Paul Auster, tornare al gesto, liberandolo. Fare economia, non numeri.

[tratto da Vita, n. 39,  7 ottobre 2011]

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