philosophy and social criticism

L’azzardo, gioco con le regole

di Marco Bascetta

Il «caso» non ha natura divina, ma vive sotto padrone: il capitalismo finanziario e la sua imperscrutabilità. Pubblichiamo qui l’articolo di Marco Bascetta, uscito sul manifesto il 16 aprile scorso, dedicato al libretto di Marco Dotti, Il calcolo dei dadi. Azzardo e vita quotidiana, premessa di Eino Pelinen, postfazione di Lucia Amara, ObarraO Edizioni, Milano 2013.

Il campo dell’azzardo, della scommessa, del caso, invocato o aggirato, pregato o maledetto, rivela una estensione prodigiosa attraversata da furiosi paradossi. Incerti ne sono i contorni così come le pieghe dell’esistenza che possano ritenersene, almeno parzialmente, al riparo. Nemmeno il più granitico dei razionalisti, o il più minuzioso e prudente dei ricercatori possono esimersi dal percorre queste terre del rischio e dell’imprevisto. In fondo non esiste ipotesi che non sia un azzardo, interrogazione che non sia scommessa, «possibile» che non sia chance.

La medaglia che volteggia nell’aria ha sempre due facce. Invochiamo il caso perché muti la nostra condizione, ma cerchiamo di controllarlo perché la muti a nostro favore.

Questa eterna partita tra l’evocazione del caso e il desiderio di indirizzarne il corso, coi gesti ingenui della scaramanzia o con le raffinate astuzie del calcolo è ciò che più o meno, pressappoco e perlopiù chiamiamo azzardo. E già il titolo del coltissimo libro di Marco Dotti, che attraverso l’arte e la letteratura, la storia e la filologia, il cinema e l’industria dei videogiochi cerca di scovarne la presenza nella vita quotidiana e nelle tradizioni culturali e indagarne il significato nell’immaginario e nei progetti degli umani, rispecchia in pieno il cuore del paradosso: Il calcolo dei dadi (ObarraO Edizioni, Milano 2013). Come può essere calcolata l’alea, ciò che per principio rappresenta l’incalcolabile, l’imprevedibile, l’imponderabile? Eppure vi si cimentarono personaggi del calibro di Galileo Galilei o del medico e astrologo milanese Gerolamo Cardano, autore di un Liber de ludo aleae, pubblicato postumo a Lione nel 1633.

L’azzardo, il «calcolo dei dadi» aspira a conciliare l’inconciliabile: sospendere la catena necessaria e nota delle cause e degli effetti, introducendo un «possibile» imprevisto, ma senza rinunciare, che lo confessi o meno, al desiderio di scoprirne le leggi segrete, determinarne il corso e l’esito, o, in altre parole, di trasformare il desiderio in una nuova causa efficiente. E come il desiderio si rinnova costantemente nel suo conflitto con la necessità, così «i dadi chiedono al giocatore di essere continuamente rilanciati». Ma non senza studiarne minuziosamente il comportamento nel tentativo, mai abbandonato, di poterlo prevedere.

È nelle case da gioco, non tra gli sprovveduti giocatori incantati dall’azzardo, ma tra i professionisti della sorte e i guardiani del banco, che si gioca da sempre la partita più ardua e appassionata per il controllo del caso. C’è chi studia, con l’occhio dell’ingegnere, le minime imperfezioni della roulette, l’inconsapevole inclinazione della mano dei croupiers, chi invece insegue, con la precisione del matematico, misteriose sequenze alla ricerca del «sistema infallibile», e chi, infine, con il piglio dell’affarista, cerca di carpire o acquistare il segreto o il silenzio del vincitore. Ma la figura che più decisamente si ribella alla sorte, che oppone l’astuzia alla equanime neutralità del caso è il baro, il fuorilegge dell’azzardo. Ed è per questo che su di lui si abbatte la più irrevocabile delle condanne. Il caso, in quanto oggetto della scommessa, è di natura ben diversa dal divino a cui qualcuno nondimeno lo accosta, le sue «leggi» sono «umane troppo umane».

È il capitalismo finanziario nel tempo del suo dispiegamento a illuminare insieme le due facce della medaglia, praticando l’azzardo e dettandone le regole, formulando la profezia e lavorando al suo inveramento, creando l’imperscrutabile e scrutandovi dentro. Qui, come scrive Dotti riprendendo Eugen Fink, il gioco pervade la vita, ne detta le condizioni e, temendo il pensiero che rischia di risalire alle spalle delle sue regole, lo sostituisce. Il capitalismo finanziario, con le sue fiches e le sue ricchezze immaginarie, le sue scommesse e il suo «parco buoi» (l’equivalente in borsa dei pensionati che si rovinano al casinò) rivela ciò che, fin dall’inizio doveva essere chiaro, che il caso (non il clinamen materialistico degli antichi, ma quello di cui l’azzardo fa il suo oggetto e la credenza il suo tiranno) ha dei padroni. Che attraverso il caso dominano l’intera società.

Di una siffatta società si narra in uno dei fulminanti racconti di Jorge Luis Borges, La lotteria di Babilonia. La passione dei babilonesi per l’azzardo li spinge ad allargarne sempre più i confini. Si passerà così da una banale lotteria con vincite in denaro ad una che prevede premi e multe, per arrivare infine all’estrazione di ogni aspetto dell’esistenza. Sarà la lotteria a farci schiavi o sovrani, corrisposti o respinti nel nostro amore, a decidere, infine, della vita o della morte. Ma anche qui, nella più estrema delle sorti, il sorteggio non si potrà arrestare, dovendosi sorteggiare il boia e poi la natura, il tempo o il luogo dell’esecuzione e potendo ogni sorteggio annullare il senso del precedente. 

Di questo inverosimile meccanismo due cose possono comunque dirsi: che si sottrae a qualsiasi comprensione razionale, ma che sarebbe impensabile senza una organizzazione che lo metta a punto e lo governi dietro le quinte.

A Babilonia si supponeva che una «Commissione» (il governo europeo di Bruxelles si è dato la medesima qualifica) esistente o esistita svolgesse questa funzione. Possiamo pensarla come un dio nascosto (quello oggetto della scommessa di Pascal) o, restando più vicini alla nostra esperienza, come i padroni del caso e delle sue «regole», per noi imperscrutabili, ma più tiranniche delle leggi di natura.

[da il manifesto, 16 aprile 2013]

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tysm literary review, Vol 2, No. 4 – april 2013

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