Rito religioso e cerimoniale nevrotico-ossessivo
di Alfonso M. di Nola
Il quadro della nevrosi ossessiva e di altre nevrosi che, in qualche modo, si manifestano attraverso tratti ossessivi comporta la concorrenza di tre sintomi psichici fra di loro interrelati e interagenti: a) gli episodi di dubbio e di ruminazione; b) i comportamenti cerimoniali; c) l’emergenza di tentazioni orrifiche e autodistruttive. (S. Rado, La nevrosi ossessiva, in: S. Arieti, Manuale di psichiatria, voi. I, pagg. 339 ss.).
Sebbene la solidarietà dinamica fra i due sintomi sia un elemento qualificante del quadro ossessivo, ci interessa qui riportarli, in particolare e grazie ad un’astrazione puramente metodologica, all’aspetto rituale o cerimoniale. Il distur bato è portato a compiere atti di natura impellente, non rinunziabile, a carattere ripetitivo, la cui non utilità fun zionale o immediata egli stesso avverte. Sono, cioè, atti che appartengono alla categoria degli atti economici e non finalizzati, quali, per esempio, l’evitazione di fessure nella pavimentazione stradale, durante la deambulazione, o la sistemazione ordinaria secondo serie prefissa dei propri vestiti su una sedia o su un mobile prima di addormentarsi, o la ripetizione mentale, semiconscia di ritmi numerici o di nomi: e tali atti hanno una propria specificità nella necessità impellente e angosciante che il paziente avverte di controllarne l’esecuzione perfetta più volte, in una fase che, seguendo l’avvenuto compimento di volta in volta revocato in dubbio, si presenta come ansiogena.
Questi atti -è stato più volte notato -riflettono azio ni e comportamenti della vita quotidiana (come, per esem pio, il controllare più volte la chiusura di una porta con chiave) o corrispondono ad invenzioni proprie della storia psicologica dell’ammalato (come per esempio sollevare per un certo numero di volte la mano, o sollevare un piede) . Possono, inoltre, presentarsi come atti positivi o atti negativi, secondo una classificazione che Durkheim attribuiva ai riti: essere, cioè, atti diretti a porre in atto un comportamento (per es. bere più volte) o atti che negano un comportamento e lo vietano (non ricordare un nome, non fare un’azione) con carattere tabuizzante.
All’analisi, i cerimoniali indicati si qualificano secondo le seguenti componenti:
- Sono non utili ai fini reali o pratici;
- Il paziente ha consapevolezza della loro inutilità reale o pratica;
- Il paziente è trascinato da un impulso obbligante e non evitabile a compierli;
- L’omissione dell’atto cerimoniale, per intervento di estranei o per decisione dello stesso paziente, determina un’esplosione angosciosa e una non vivibilità del dramma di rinunzia, fino ad evidenti riflessi fisiologici (sudorazio ne, angoscia precardiaca, perdita della relazione con il mondo);
- Esigenza di un’osservanza minuziosa delle sequenze e dei ritmi che accompagnano l’atto, che appaiono connessi a un numero ripetitivo (questa o quell’azione va compiuta per x volte e non di meno), ad un specifica spazialità (que sta o quell’azione va compiuta in rapporto a determinati ambienti o luoghi, reali o ricreati immaginariamente), a tempi spesso prefissi (sera, tempo precedente il sonno, tem po mattutino ecc.), salvo i casi nei quali la realizzazione dell’atto, quando è fortemente automizzato, interviene in tempi casuali e non prefissi;
- Il paziente avverte nel compimento dell’atto una immediata funzione di difesa o di sopravvivenza ad una tensione angosciosa non sopportabile;
- L’angoscia fondamentale o primaria, che è base della nevrosi ossessiva, si carica di un’altra ansia, riferita alla esigenza di porre in essere l’atto cerimoniale e alla preoccupazione di non averlo posto ritualmente o efficientemente in concreto (di qui una fase nevrotico-ossessiva propriamente dipendente dalla cura della perfezione e della minuzia del cerimoniale con ritorni riparativi sul medesimo atto avvertito come inefficiente).
È questo un tema più volte affrontato da Freud e dalla sua scuola, nell’ambito di una più antica ipotesi (Charcot, Janet) sulla qualificabilità psicopatologica dei fatti religiosi.
Nel 1907, nel breve articolo Zwangshandlungen und Religionsiibung (GW; VII; ZRP 1907), Freud osservava che nella nevrosi ossessiva o coatta (Zwangsneurose), il paziente, pur consapevole dell’inutilità razionale dei suoi atti, è come costretto (gezwungen) ad agire secondo certi schemi obbligati (gesti, parole, cerimoniali nevrotici), che appaiono una caricatura dei cerimoniali religiosi: «Vi è un rapporto analogico fra i cerimoniali ossessivi e gli aspetti rituali di alcuni comportamenti religiosi, così che «la nevrosi ossessiva è un equivalente patologico del rituale religioso», una religione privata, mentre la religione «può essere considerata una nevrosi ossessiva universale».
Se nel 1907 Freud stabilisce la indicata equivalenza cerimoniale nevrotico-rito religioso, nel 1919 chiarisce il meccanismo liberatorio della ripetizione che ha grande rilievo all’interno degli stessi cerimoniali. In Zur Psychoanalyse der Kriegsneurosen (Intero. Psychoanal. Bibliothek, I, 1919, in collaborazione con altri studiosi), analizzando al cune nevrosi conseguenti alla prima guerra mondiale, os servava, negli ammalati traumatizzati psichicamente o fe riti, la tendenza a ripetere nel sogno l’avvenimento trau matizzante (lo scoppio di una granata, un assalto alla baio netta ecc.), mentre nello stato di veglia prevaleva la ten denza a rimuovere il ricordo doloroso. La ripetizione (Wie derholung) sognata dell’avvenimento appariva sicuramente un’esperienza dolorosa del paziente, il quale si svegliava all’improvviso in una crisi di angoscia. Il fenomeno, rile vato in una numerosa casistica, era, per diretto riconosci mento dello stesso Freud, in contrasto con la sua teoria ge nerale sui sogni, secondo la quale, nell’elaborato onirico, riaffiora simbolicamente un desiderio rimosso: certamen te non poteva considerarsi tale la riemersione di un ricor do di trauma. Si avvertiva, quindi la necessità di ricercare i motivi di queste ripetizioni sognate in un ambito diverso da quello della teoria del sogno.
Il problema veniva affrontato in Jenseits des Lustprin zips del 1921. Agli esempi riferiti Freud aggiungeva un in teressante caso clinico di ripetizione giocata o semi-ludica, il quale ha costituito l’oggetto di recenti analisi storico religiose (J. Cazeneuve, Les rites et la condition humaine, Paris, 1958, p. 122; e E. De Martino, Mito, scienze reli giose e civiltà moderna, in Furore, Simbolo, Valore, Mila no, 1962, p. 20). L’episodio è ben noto: un bambino di 18 mesi aveva l’abitudine di gettare sotto il letto o in un an golo gli oggetti che gli capitavano sotto mano, accompa gnando l’atto con un suono, che, nell’interpretazione del la madre, significava «fort!» (via, lontano!). Un giorno Freud osserva che il bambino getta un rocchetto, intorno al quale era avvolto uno spago, al di là della spalliera del letto, ottenendo, così, che il rocchetto scompaia. Pronunzia il suo «fort!» e, poi, tirando a sé il rocchetto nuova mente, ne saluta la riapparizione con un «Da!» (eccolo!).
Ci si veniva, così, a trovare di fronte ad un atto più volte ripetuto, costituito da due momenti (sparizione e riapparizione del rocchetto), dei quali il secondo provocava nel bambino un’evidente reazione di piacere. L’interpretazio ne psicoanalitica del comportamento portava Freud a rite nere che il bambino ripeteva ritualmente un avvenimento che lo aveva traumatizzato: l’allontanamento della madre e il suo successivo ritorno, ogni giorno, a casa. Mediante la simbolica ricostruzione e riattualizzazione dell’avvenimento, il bambino a dominarlo, a farlo, cioè, emblematicamente rientrare nella sfera della sua volontà (con analogia con il comportamento propriamente magico dell’atto rituale). E in ciò stesso, egli risolveva, per sostituzione ri tuale dell’oggetto libidico perduto, una condizione di angoscia.
Ma una più approfondita analisi poneva a Freud un problema più ampio: se l’allontanarsi della madre costituiva per il bambino un avvenimento traumatizzante e doloroso, perché egli aveva la tendenza a ripeterlo e non invece a cancellarlo dalla memoria (rimozione)? E tale ripetizione del mondo doloroso dell’avvenimento, espresso qui nel gioco e, nelle nevrosi, mediante immagini oniriche, poteva spiegarsi soltanto in funzione della successiva soddisfazione che il bambino provava (ritorno della madre, riapparizione del gomitolo?). E perché la soluzione della situazione di angoscia era affidata alla ripetizione di una situazione modulare e primitica di angoscia?
Sul fondamento di questa duplice direzione di ricerca, quella psicopatologica delle nevrosi e quella psicologica sui comportamenti infantili, Freud formulava allora la sua ipotesi sulla tendenza a ripetere, dell’eterno ritorno sull’identico: «Dinanzi a questi fatti che si riscontrano tanto nel modo in cui i nevrotici si comportano, quanto nel destino di moltissimi soggetti normali, non si può negare, nella vita psichica, l’esigenza di una tendenza irresistibile alla ripetizione e alla riproduzione, tendenza che si afferma senza tener conto del principio del piacere e mettendosene al di sopra».
Accanto al meccanismo della dominazione rituale del l’avvenimento, per cui il soggetto, da passivo che è di fronte al fatto, si costituisce in attore volontario di esso, appari rebbe una più profonda tendenza istintiva, quella verso il dolore e verso la morte che, nella teoria freudiana, costituisce il termine antitetico del piacere (Lustprinzip). Completando queste osservazioni in Das !eh und der Es del 1923, Freud dichiarava che istintivamente vi è nell’uomo la tendenza a ricostruire un ordine turbato dall’apparire della vita, e reintegrarsi nello stato di materia inorganica, e in ciò sarebbero l’istinto di morte e la spiegazione della ripetizione rituale dell’evento doloroso. L’atto rituale del bambino e del nevrotico avrebbe la funzione di rinnovare un avvenimento prototipico che è la condizione di morte, di non es sere, di immobilità organica, la cui riemersione memoriale si verifica in ogni condizione di angoscia poiché «ogni an goscia, è, a dire il vero, un’angoscia di morte».
In questi saggi, Freud ha stabilito alcuni principi particolarmente rilevanti: a) il ritualismo, come compimento di atti obbligati, analoghi nel nevrotico, nel bambino e nell’homo religiosus, è un comportamento simbolico nel quale sono sottese cariche angoscianti e psichiche non consce; b) il rito ha una precisa funzione «economica», in senso lato o psichico, poiché libera da una situazione di conflitto, mediante una finzione di realizzazione del desiderio represso (il bambino che desidera la madre finge di riaverla mediante il meccanismo ludico del rocchetto); c) il rito si fonda sul la ripetizione di un atto prototipico e, nella particolare spiegazione data dai testi citati, la ripetizione comporta la soddisfazione di un principio di piacere (riapparizione del gomitolo), ma anche la riemersione dell’istinto di morte e di distruzione (ripetizione onirica dell’avvenimento traumatizzante nelle nevrosi di guerra; sparizione del gomitolo nel gioco del bambino).
In sintesi la rilettura freudiana dei cerimoniali nevrotici evidenzia, accanto ai tratti specificigià ricordati relativamente a tali cerimoniali, una situazione radicale di conflittualità psichica: da un lato il disturbato ricorre al cerimoniale per realizzare una liberazione fittizia dalla carica ansiogena; da un altro lato tutto l’impianto cerimoniale essenzialmente è una rimersione della pulsione di morte, che si esplicita attraverso il fenomeno della ripetizione, come ritorno sull’identico e attraverso la evocazione del dolore e dell’immagine autodistruttiva. In un ulteriore ricerca dei significati, il rituale nevrotico-ossessivo avrebbe uno spes sore metaforico o metalinguistico, nel senso che il significato va ricercato, al di là dei meccanismi emergenti ed ap parenti, in un appello alla morte sovrana, che è in ogni angoscia, giacché ogni angoscia è angoscia di morte. Queste tesi passano anche in un sottile intervento di Karl Abraham del 1912 (Uber ein kompliziertes Zeeremoniell neuro tischer Frauen, ora in K. Abraham, Psychoanamytische Studien, Frankfurt a. M., Fischer, 1971, voi. Il, pagg. 40 ss.): il quadro clinico della paziente di Abraham, connes so alla cura notturna e diurna dei capelli, su base cerimoniale, con la sua chioma, vuole trovarsi pronta.
Il problema sta nell’osservare, su base antropologica, la congruenza del rapporto fra cerimoniale nevrotico e ritualismo religioso-magico, e sarà qui affrontato con riferimenti ai singoli nuclei conoscitivi-metodologici emersi dall’excursus sul ritualismo nevrotico.
a) Primamente il problema della solidarietà antropologica fra angoscia e rito, che fu trattato con ampiezza di analisi da Malinowski. Alla base della massima parte dei riti, intesi come comportamenti culturali collettivi, è presente sicuramente una carica angosciosa, che appartiene alla dinamica interna delle culture cui i singoli riti si riferiscono. Siamo, quindi, ben distanti da una considerazione fenomenologica e astratta della ritualità magico-religiosa in tesa come sistema di rapporti e di approccio con un piano della soprannaturalità ontologica . In ongi cultura vengono a formarsi, secondo una testimonianza etnologica molto ampia e documentata, cariche ansionse e angoscianti che, in linea generale, dipendono dalla conflittualità fra speranza di ottenere il bene economico utile alla sopravvivenza, e il rischio di fallimento dell’impresa economica che porta all’ottenimento di tale bene.
L’oggetto economico, che si differenzia da cultura a cultura (preda per i cacciatori, gregge o mandria produttive per l’allevatore e il pescatore, prodotto spontaneo di nau ra per il raccoglitore, prodotto periodico stagionale del terreno per i coltivatori) è inserito in un’area di alea o di non disponibilità, che l’operatore culturale non riesce a dominare o non riesce a dominare del tutto. Nelle culture venatorie, per esempio, l’oggetto economico è l’animale da predare (economia di carattere predatorio o distruttivo), ma l’animale appartiene a un ordine di natura, estraneo e avversario, non dominato, con la conseguenza che ogni sin golo atto culturale-economico si configura come un’avventura accompagnata da un’emergenza di angoscia all’inizio (ottenere la preda; non ottenerla e fallire, con tutti gli aspetti dell’ambiguità di un futuro binario e non disponibile). La carica ansiosa termina quando l’impresa è stata compiuta,
quando, cioé, la preda è ottenuta o non ottenuta. Nelle culture dei coltivatori, questa angoscia culturale imparentata con i cicli produttivi, si estende durante tutto il corso del l’anno coltivatorio, che inizia con un incerto totale (il seme nella terra non ancora maturo) e termina con l’acquisto del prodotto. Il rito diviene il meccanismo protettivo che riscatta dall’invasamento di angoscia e ricompone l’operazione all’interno di una sicurezza apparente e gratif cante, che gli consente, tuttavia, di affrontare con maggiore garanzia la realtà incerta. Il rito, nelle culture, assume, cioè, la funzione di risolutore di angosce economiche, le quali si ripropongono inesorabilmente e ripetitivamente (la Wie derholung di Freud);
b) Nel rito riscattante, che è presente in tutte le storie culturali, va riscontrata l’assoluta credibilità scientifica dell’omologazione freudiana fra angoscia specifica e angoscia fondamentale o di morte («ogni angoscia è un’angoscia di morte»). Per un gruppo umano, impegnato in un’impresa di sopravvivenza dominata dall’ambiguità fra il riuscire/non riuscire, il fallimento dell’impresa significa il crollo del gruppo e del cosmo (del cosmo specifico appartenente al gruppo). La esposizione e la precarietà esistenziali vanno liberate dal gravame delle discussioni appartenenti alla speculazione filosofica: crollo esistenziale per un grup po di cacciatori significa la mancata presentazione di un canguro o di una lepre o di un elefante (presso i Pigmei dell’Ituri). Con il mancare della preda, crolla lo specifico universo culturale, si disfano le regioni di esistenza del mondo. Il rito ripara questa situazione e fittiziamente ricolloca nell’attesa e nella speranza il gruppo;
c) Emerge una qualità del rito religioso (e del rito nevrotico) non scoperta da Freud, né dalla contemporanea tecnica psichiatrica e rito e cerimonia possono porsi come una diluizione nel tempo e nello spazio dei nuclei culturali (e personali, per quanto riguarda l’ambito psichiatrico) della carica angosciosa. In altri termini, la carica ansiosa, invivibile, insopportabile, si presenta, nel vissuto individuale e collettivo, come un nucleo non resolubile e non assimilabile. Essa si inserisce nel vissuto come energia negativa paralizzante, impediente l’azione fino ai livelli di paralisi motoria. La sequenza rituale opera in forma risolutoria come «spezzettamento» del nucleo angosciante in una serie di momenti temporali-spaziali. In un caso clinico personalmente verificato, una paziente, appartenente ad una famiglia piccolo-borghese della provincia napoletana, era stata assoggettata ad una violenta emarginazione familiare poiché si era data alla prostituzione. La donna era stata scacciata dalla casa paterna (il padre era colonnello dell’esercito italiano, la madre una vecchia insegnante elementare, la sorella esercitava anche lei la professione di insegnante, ambedue erano decisamente legate alla devozione domestica cattolica di tipo «bigotto», con la pratica quotidiana di esibiti esercizi di pietà e di mortificazione). La paziente in questione era stata costretta ad abbandonare la casa paterna ed era andata ad abitare in una sorta di spelonca a circa quattro chilometri di distanza da essa, in una collinetta localmente denominata Caprile.
La duplice emarginazione familiare e collettiva, in una cultura caratterizzata da tutti i tratti delle antiche culture di villaggio, e, insieme, la decisa censura della etica cattolica avevano determinato nella paziente una tipica nevrosi da angoscia che, nelle conseguenze esterne e visibili, si evidenzia in un ritualismo imponente: la donna ogni mattina si spostava dalla sua abitazione nella parte alta del paese e lentamente, accompagnata da un gruppo di bambini e di curiosi, avanzava verso la casa paterna nella parte inferiore del paese, secondo una precisa tecnica cerimoniale . Ogni sette passi, ogni volta precisamente calcolabili, si fermava e, inginocchiandosi, baciava il suolo, per rialzarsi e rinnovare, dopo altri sette passi, lo stesso atto. Giunta alla casa del padre bussava al portoncino (si trattava di un palazzotto di signori di paese) e sopportava la violenta ripulsa della madre o della sorella bigotta, decidendosi, così, a ri tornare alla sua sede, senza compiere atti rituali. In un caso clinico analogo, un funzionario della TV italiana di ruolo dirigenziale, gravemente tarato da un’educazione cattolica bigotta e da una tendenza alla pratica minuta della devozione (recitava ogni giorno per due volte il rosario), è entrato in un’evidente fase di angoscia coatta, carica an che di componenti fobiche sessuali e di stimolazioni provenienti da una tensione familiare. Ogni sera, prima di addormentarsi, consumava un lungo periodo (da mezz’ora ad un’ora) per realizzare un rituale di carattere compensativo-ripetitivo , consistente nella chiusura della porta della propria camera più volte ricontrollata, nel distaccare quadri, cornici e oggetti delle pareti (sempre puntualmente ricollocati, di mattina, al loro posto), nell’accertarsi più volte, secondo un ritmo numerico fisso (il numero sette) della chiusura delle imposte, nel collocare sotto ciascuno dei piedi del letto un foglio di giornale tagliato a stella, con foro centrale situato sotto ciascun piede del letto. Il soggetto era parallelamente agorafobico e nel corso della giornata aveva crisi di assenza molto evidenti.
Nei casi clinici rammentati e nella ritualitàdi carattere culturale, il cerimoniale si configura come la diluizione nel tempo e nello spazio di una carica angosciante non vivibile . La emergenza di un’angoscia culturale, relativa, come si è sommariamente indicato, ad un’area di incerto e di in dominabilità ambientale e esistenziale, comporta una serie ordinata, non modificabile, tradizionale di azioni cerimoniali, che essenzialmente costituiscono un rito, di natura variante da cultura a cultura destinato, in ogni caso, a estendere in un tempo e uno spazio più o meno ampi la irruzione non controllabile e, in certo modo, paralizzante di un vissuto di angoscia. Se, in uno schema elementare volessimo rappresentare questa relazione fra nucleo angosciante e rituale, giungeremo a questo paradigma, nel quale X rappresenta l’angoscia e i segni —corrispondono ai processi rituali temporali-spaziali di deangosciamento :
X versus ——
dove, nei casi clinici, X è situazione esistenziale determinabile, in quanto alla sua nuclearità, nei singoli vissuti an mnestici, e — = i momenti di ritualizzazione che realizzano la diluizione di X e la scarsità fittizia di angoscia .
La relazione si presenta con forti analogie nei compor tamenti rituali analizzati, fra gli altri, da Malinowski con riguardo alle situazioni di tubericultori dei Mari del Sud e, in particolare, delle Trobriand . I coltivatori di ignami malinowskiani sono in presenza di una situazione di ango scia economica rappresentata dal conflitto fra speranza di ottenere il bene economico (gli ignami) e l’eventualità del rischio di fallimento dell’impresa di coltivazione, esposta a incerti storici o naturali non dominabili (invasione di parassiti, azioni belliche di tribù vicine, tempeste, siccità, ecc.). L’azione economica di coltivazione è, così, protetta da una serie di interventi magico-rituali che difendono i singoli momenti del ciclo coltivatorio (dal porre i tuberi nel terreno all’immaginamento finale del prodotto raccolto), così che la carica ansiogena viene in qualche modo distribuita, per la sua intensità e pressione, su singoli momenti, viene spezzettata e resa vivibile;
d) Ogni rito nevrotico o culturale, è il riordinare nel modello garante e precostituito lo scandalo dell’evento storico collettivo o In questo senso sussiste una relazione di caos-ordine fra il vissuto personale nevrotico (variante da nevrotico a nevrotico secondo un’irripetibilità del nur und einmal, dell’ hic et nunc) e la scelta cerimoniale di atti e comportamenti etichettati. Ma la medesima relazione sussiste nella realtà delle culture, dove questo o quell’evento, questo o quella coltivazione, questa o quel l’impresa di caccia o di raccolta, cariche della loro qualità irripetibile, assoggettate al corteo di evidenti imprevedibili e indomabili, vengono ricondotti ad una normalità rassicurante spazio-temporale, che è il cursus rituale, ricevuto tradizionalmente . Oggi rito è ricostruire l’universo prossi mo a crollare in un cosmos bene ordinato e vivibile . La dif ferenza fondamentale fra la ritualità nevrotica e quella cul turale sta nella qualità del modello recepito e ripetuto: nel l’esperienza nevrotica ossessiva, la sequenza rituale è, in qualche modo, inventata dal paziente, esplode dalla sua personale anamnesi e dalla sua situazione ideativa, mentre nelle culture il rito si affida a modelli recepiti e precostituiti se condo una trasmissione di tipo tradizionale e consolidata. Nel nevrotico il rito è un’invenzione, nell’homo religiosus il rito è una ricezione passiva, anche se bisogna tener conto di un Erlebnis della ritualità, di volta in volta variante, che fa del modello un personale vissuto o rivissuto. In ogni caso, nella determinazione delle scelte cerimoniali, il nevrotico è assoggettato ad uno sforzo maggiore che non sia quello dell‘homo religiosus: egli deve scoprire i suoi riti ed adattarli alla sua significazione esistenziale . Dove appare, in ogni terapeuta, la necessità etica di rinvenire, nel nevrotico, le ritualità allo status nascenti, nella storia individuale come forme di adattamento al reale e di fuga dall’ango scia. I riti nevrotici, in questo senso, variano da cultura a cultura e il nevrotico sa scoprirli e rendere funzionanti sul la base del suo ambito culturale;
e) Ogni rito deve seguire obbligatoriamente una sua routine predeterminata, nell’area personale e psichica del nevrotico, nell’area storico-culturale dell’uomo La variazione e modificazione del processo rituale tradizionale comporta una colpa sacerdotale ed operativa che, in In dia, era sempre sanata da particolari riti aggiuntivi di carattere riparativo, vale a dire da atti sacrificali, da preghiere e da formule che sanavano la irritualità e inefficacia eventuali dell’atto rituale. Nell’irritualità del rito il nevrotico avverte un’esposizione totale all’insicurezza, poiché il «bene-ordinato » ritorna al caos, il modello precostituito personalmente riaffonda nell’irripetibilità e nell ‘eventua lità della propria storia scomposta e angosciante;
f) La tesi freudiana del rapporto fra ripetizione rituale e morte, così come confermata da Abraham, resta verificabile in sede Ogni rito, dice Durkheim, è un sacrilegio, una pericolosa rottura della distanza fra l’ordine consueto di natura e di storia e il piano dell’immaginario soprannaturale. In conseguenza ogni rito è un drammatico esporre il Sé all ‘avventura di un’infrazione. Ma ogni ri to regola e canalizza la morte presente nella storia. In una cultura arcaica, la carenza di beni economici, il fallimento dell’impresa di caccia o di raccolta, il venir meno del prodotto coltivatorio, sono occasioni di morte reale poiché comportano il crollo di tutte le sicurezze esistenziali in si gnificato antropologico . Se le messi vengono meno, l’uni verso crolla, io sono esposto alla morte. Il rito è il tentativo culturale di dominare ed esorcizzare la morte, la rico stituzione illusoria dell’uomo minacciato nel suo Sè stori co. Perciò, in ogni caso, è un ricostituire il dramma della morte-vita, della katabasis-anabasis, un reintegrarsi mo mentaneamente nelle pre-origini, nel fluttuare incerto del l’inorganico per risalire al cosmos bene costituito e alla ga ranzia dell’essere nel mondo . Tutto, naturalmente obbedisce ad una tragica ripetitività proprio perché viviamo della morte, siamo assoggettati all’esperienza fondamentale del crollo/ rinascita;
g) Rito nevrotico e rito religioso sono realizzati nella dinamica specifica della mentalità magica, secondo la quale l’atto organizzato e intenzionale può operare sulla realtà La realtà che il nevrotico intende modificare è quella del suo nucleo angosciato e del suo rapporto invisibile con il mondo. Nelle culture il rito si pone magicamente solutorio sulle angosce provenienti dall’impasto con i singoli ambienti storico-economici ;
h) La differenza fondamentale fra vissuto rituale delle culture ed esperienza cerimoniale delle nevrosi sta nella cifra e nel codice della ritualità. Nel nevrotico il codice di comunicazione è assolutamente personale, individuale e deve essete decifrato di volta in volta in relazione con la vicenda anamnestica individuale: per scoprire perché la mia paziente citata compie sette passi e si inginocchia, per scoprire perché il mio paziente avverte la pulsione irresistibile serale di porre un foglio di giornale a stella sotto i piedi del letto, devo ricorrere ad un’analisi storica variante da individuo a individuo.
La conseguenza terapeutica è nel constatare che nessun comportamento rituale nevrotico è insignificante e in ciascuno si realizza un metalinguaggio segnico individuale che riporta al fondamentale istinto di morte e alla lotta contro la morte.
Nel ritualismo culturale i sistemi segnici appartengono ad un’immediata decifrabilità del gruppo in cui si manifestano, con la conseguenza che l’angoscia culturale è leggibile nella sua manifestazione metaforica tradizionale non variabile.
[cite]
Originariamente pubblicato in La Ricerca Folklorica, No. 17, L’etnopsichiatria (Apr., 1988), pp. 31-35
tysm literary review
vol. 18, issue no. 21
february 2015
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