philosophy and social criticism

Rito religioso e cerimoniale nevrotico-ossessivo

Ordet di Carl Th. Dreyer (1955)

di Alfonso M. di Nola

Il quadro della nevrosi ossessiva e di altre nevrosi che, in qualche modo, si manifestano attraverso tratti ossessivi comporta la concorrenza di tre sintomi psichici fra di loro interrelati e interagenti: a) gli episodi di dubbio e di ruminazione; b) i comportamenti cerimoniali; c) l’emergenza di tentazioni orrifiche e autodistruttive. (S. Rado, La nevrosi ossessiva, in: S. Arieti, Manuale di psichiatria, voi. I, pagg. 339 ss.).

Sebbene la solidarietà dinamica fra i due sintomi sia un elemento qualificante del quadro ossessivo, ci interessa qui riportarli, in particolare e grazie ad un’astrazione puramente metodologica, all’aspetto rituale o cerimoniale. Il distur­ bato è portato a compiere atti di natura impellente, non rinunziabile, a carattere ripetitivo, la cui non utilità fun­ zionale o immediata egli stesso avverte. Sono, cioè, atti che appartengono alla categoria degli atti economici e non fi­nalizzati, quali, per esempio, l’evitazione di fessure nella pavimentazione stradale, durante la deambulazione, o la sistemazione ordinaria secondo serie prefissa dei propri vestiti su una sedia o su un mobile prima di addormentarsi, o la ripetizione mentale, semiconscia di ritmi numerici o di nomi: e tali atti hanno una propria specificità nella ne­cessità impellente e angosciante che il paziente avverte di controllarne l’esecuzione perfetta più volte, in una fase che, seguendo l’avvenuto compimento di volta in volta revoca­to in dubbio, si presenta come ansiogena.

Questi atti -è stato più volte notato -riflettono azio­ ni e comportamenti della vita quotidiana (come, per esem­ pio, il controllare più volte la chiusura di una porta con chiave) o corrispondono ad invenzioni proprie della storia psicologica dell’ammalato (come per esempio sollevare per un certo numero di volte la mano, o sollevare un piede) . Possono, inoltre, presentarsi come atti positivi o atti ne­gativi, secondo una classificazione che Durkheim attribui­va ai riti: essere, cioè, atti diretti a porre in atto un com­portamento (per es. bere più volte) o atti che negano un comportamento e lo vietano (non ricordare un nome, non fare un’azione) con carattere tabuizzante.

All’analisi, i cerimoniali indicati si qualificano secondo le  seguenti  componenti:

  1. Sono non utili ai fini reali o pratici;
  2. Il paziente ha consapevolezza della loro inutilità reale o pratica;
  1. Il paziente è trascinato da un impulso obbligante e non evitabile a compierli;
  2. L’omissione dell’atto cerimoniale, per intervento di estranei o per decisione dello stesso paziente, determina un’esplosione angosciosa e una non vivibilità del dramma di rinunzia, fino ad evidenti riflessi fisiologici (sudorazio­ ne, angoscia precardiaca, perdita della relazione con il mondo);
  3. Esigenza di un’osservanza minuziosa delle sequenze e dei ritmi che accompagnano l’atto, che appaiono connessi a un numero ripetitivo (questa o quell’azione va compiuta per x volte e non di meno), ad un specifica spazialità (que­ sta o quell’azione va compiuta in rapporto a determinati ambienti o luoghi, reali o ricreati immaginariamente), a tempi spesso prefissi (sera, tempo precedente il sonno, tem­ po mattutino ecc.), salvo i casi nei quali la realizzazione dell’atto, quando è fortemente automizzato, interviene in tempi casuali e non prefissi;
  4. Il paziente avverte nel compimento dell’atto una im­mediata funzione di difesa o di sopravvivenza ad una ten­sione angosciosa non sopportabile;
  5. L’angoscia fondamentale o primaria, che è base della nevrosi ossessiva, si carica di un’altra ansia, riferita alla esigenza di porre in essere l’atto cerimoniale e alla preoc­cupazione di non averlo posto ritualmente o efficientemente in concreto (di qui una fase nevrotico-ossessiva propria­mente dipendente dalla cura della perfezione e della minu­zia del cerimoniale con ritorni riparativi sul medesimo at­to avvertito  come  inefficiente).

È questo un tema più volte affrontato da Freud e dalla sua scuola, nell’ambito di una più antica ipotesi (Charcot, Janet) sulla qualificabilità psicopatologica dei fatti religiosi.

Nel 1907, nel breve articolo Zwangshandlungen und Reli­gionsiibung (GW; VII; ZRP 1907), Freud osservava che nel­la nevrosi ossessiva o coatta (Zwangsneurose), il paziente, pur consapevole dell’inutilità razionale dei suoi atti, è co­me costretto (gezwungen) ad agire secondo certi schemi ob­bligati (gesti, parole, cerimoniali nevrotici), che appaiono una caricatura dei cerimoniali religiosi: «Vi è un rapporto analogico fra i cerimoniali ossessivi e gli aspetti rituali di alcuni comportamenti religiosi, così che «la nevrosi osses­siva è un equivalente patologico del rituale religioso», una religione privata, mentre la religione «può essere considerata una nevrosi ossessiva universale».

Se nel 1907 Freud stabilisce la indicata equivalenza ceri­moniale nevrotico-rito religioso, nel 1919 chiarisce il mec­canismo liberatorio della ripetizione che ha grande rilievo all’interno degli stessi cerimoniali. In Zur Psychoanalyse der Kriegsneurosen (Intero. Psychoanal. Bibliothek,  I, 1919, in collaborazione con altri studiosi), analizzando al­ cune nevrosi conseguenti alla prima guerra mondiale, os­ servava, negli ammalati traumatizzati  psichicamente o fe­ riti, la tendenza a ripetere nel sogno l’avvenimento trau­ matizzante (lo scoppio di una granata, un assalto alla baio­ netta ecc.), mentre nello stato di veglia  prevaleva la ten­ denza a rimuovere il ricordo doloroso. La ripetizione (Wie­ derholung) sognata dell’avvenimento appariva sicuramente un’esperienza dolorosa del paziente, il quale si svegliava all’improvviso in una crisi di angoscia. Il fenomeno, rile­ vato in una numerosa casistica, era, per diretto riconosci­ mento dello stesso Freud, in contrasto con la sua teoria ge­ nerale sui sogni, secondo la quale, nell’elaborato onirico, riaffiora  simbolicamente  un desiderio rimosso: certamen­ te non poteva considerarsi tale la riemersione di un ricor­ do di trauma. Si avvertiva, quindi la necessità di ricercare i motivi di queste ripetizioni sognate in un ambito diverso da quello  della teoria  del sogno.

Il problema veniva affrontato in Jenseits des Lustprin­ zips del 1921. Agli esempi riferiti Freud aggiungeva un in­ teressante caso clinico di ripetizione giocata o semi-ludica, il quale ha costituito l’oggetto di recenti analisi storico­ religiose (J. Cazeneuve, Les rites et la condition humaine, Paris, 1958, p. 122; e E. De Martino, Mito, scienze reli­ giose e civiltà moderna, in Furore, Simbolo, Valore, Mila­ no, 1962, p. 20). L’episodio è ben noto: un bambino di 18 mesi aveva l’abitudine di gettare sotto il letto o in un an­ golo gli oggetti che gli capitavano sotto mano, accompa­ gnando l’atto con un suono, che, nell’interpretazione del­ la madre, significava «fort!» (via, lontano!). Un giorno Freud osserva che il bambino getta un rocchetto, intorno al quale era avvolto uno spago, al di là della spalliera del letto, ottenendo, così, che il rocchetto scompaia. Pronun­zia il suo «fort!» e, poi, tirando a sé il rocchetto nuova­ mente, ne saluta la riapparizione con un «Da!» (eccolo!).

Ci si veniva, così, a trovare di fronte ad un atto più volte ripetuto, costituito da due momenti (sparizione e riappari­zione del rocchetto), dei quali il secondo provocava nel bambino un’evidente reazione di piacere. L’interpretazio­ ne psicoanalitica del comportamento portava Freud a rite­ nere che il bambino ripeteva ritualmente un avvenimento che lo aveva traumatizzato: l’allontanamento della madre e il suo successivo ritorno, ogni giorno, a casa. Mediante la simbolica ricostruzione e riattualizzazione dell’avveni­mento, il bambino a dominarlo, a farlo, cioè, emblemati­camente rientrare nella sfera della sua volontà (con analo­gia con il comportamento propriamente magico dell’atto rituale). E in ciò stesso, egli risolveva, per sostituzione ri­ tuale dell’oggetto libidico perduto, una condizione di an­goscia.

Ma una più approfondita analisi poneva a Freud un problema più ampio: se l’allontanarsi della madre costituiva per il bambino un avvenimento traumatizzante e doloroso, perché egli aveva la tendenza a ripeterlo e non invece a cancellarlo dalla memoria (rimozione)? E tale ri­petizione del mondo doloroso dell’avvenimento, espresso qui nel gioco e, nelle nevrosi, mediante immagini oniriche, poteva spiegarsi soltanto in funzione della successiva sod­disfazione che il bambino provava (ritorno della madre, riapparizione del gomitolo?). E perché la soluzione della situazione di angoscia era affidata alla ripetizione di una situazione modulare e primitica di angoscia?

Sul fondamento  di questa duplice direzione di ricerca, quella psicopatologica delle nevrosi e quella psicologica sui comportamenti infantili, Freud formulava allora la sua ipo­tesi sulla tendenza a ripetere, dell’eterno ritorno sull’iden­tico: «Dinanzi a questi fatti che si riscontrano tanto nel mo­do in cui i nevrotici si comportano, quanto nel destino di moltissimi soggetti normali, non si può negare, nella vita psichica, l’esigenza di una tendenza irresistibile alla ripeti­zione e alla riproduzione, tendenza che si afferma senza tener conto del principio del piacere e mettendosene al di sopra».

Accanto al meccanismo della dominazione rituale del­ l’avvenimento, per cui il soggetto, da passivo che è di fronte al fatto, si costituisce in attore volontario di esso, appari­ rebbe una più profonda tendenza istintiva, quella verso il dolore e verso la morte che, nella teoria freudiana, costi­tuisce il termine antitetico del piacere (Lustprinzip). Com­pletando queste osservazioni in Das !eh und der Es del 1923, Freud dichiarava che istintivamente vi è nell’uomo la ten­denza a ricostruire un ordine turbato dall’apparire della vi­ta, e reintegrarsi nello stato di materia inorganica, e in ciò sarebbero l’istinto di morte e la spiegazione della ripetizione rituale dell’evento doloroso. L’atto rituale del bambino e del nevrotico avrebbe la funzione di rinnovare un avveni­mento prototipico che è la condizione di morte, di non es­ sere, di immobilità organica, la cui riemersione memoriale si verifica in ogni condizione di angoscia poiché «ogni an­ goscia,  è, a dire il vero,  un’angoscia  di morte».

In questi saggi, Freud ha stabilito alcuni principi particolarmente rilevanti: a) il ritualismo, come compimento di atti obbligati, analoghi nel nevrotico, nel bambino e nel­l’homo religiosus, è un comportamento simbolico nel quale sono sottese cariche angoscianti e psichiche non consce; b) il rito ha una precisa funzione «economica», in senso lato o psichico, poiché libera da una situazione di conflitto, mediante una finzione di realizzazione del desiderio represso (il bambino che desidera la madre finge di riaverla mediante il meccanismo ludico del rocchetto); c) il rito si fonda sul la ripetizione di un atto prototipico e, nella particolare spie­gazione data dai testi citati, la ripetizione comporta la sod­disfazione di un principio di piacere (riapparizione del go­mitolo), ma anche la riemersione dell’istinto di morte e di distruzione (ripetizione onirica dell’avvenimento trauma­tizzante nelle nevrosi di guerra; sparizione del gomitolo nel gioco del bambino).

In sintesi la rilettura freudiana dei cerimoniali nevrotici evidenzia, accanto ai tratti specificigià ricordati relativamente a tali cerimoniali, una situazione radicale di conflit­tualità psichica: da un lato il disturbato ricorre al cerimo­niale per realizzare una liberazione fittizia dalla carica an­siogena; da un altro lato tutto l’impianto cerimoniale es­senzialmente è una rimersione della pulsione di morte, che si esplicita attraverso il fenomeno della ripetizione, come ritorno  sull’identico e attraverso la evocazione del dolore e dell’immagine autodistruttiva. In un ulteriore ricerca dei significati, il rituale nevrotico-ossessivo avrebbe uno spes­ sore metaforico o metalinguistico, nel senso che il signifi­cato va ricercato, al di là dei meccanismi emergenti ed ap­ parenti, in un appello alla morte sovrana, che è in ogni an­goscia, giacché ogni angoscia è angoscia di morte. Queste tesi passano  anche in un sottile intervento  di Karl Abra­ham del 1912 (Uber ein kompliziertes Zeeremoniell neuro­ tischer Frauen, ora in K. Abraham, Psychoanamytische Studien, Frankfurt a. M., Fischer, 1971, voi. Il, pagg. 40 ss.): il quadro clinico della paziente di Abraham, connes­ so alla cura notturna e diurna dei capelli, su base cerimo­niale,  con la sua chioma,  vuole  trovarsi  pronta.

Il problema sta nell’osservare, su base antropologica, la congruenza del rapporto fra cerimoniale nevrotico e ritua­lismo religioso-magico, e sarà qui affrontato con riferimenti ai singoli nuclei conoscitivi-metodologici emersi dall’excur­sus sul ritualismo  nevrotico.

a) Primamente il problema della solidarietà antropolo­gica fra angoscia e rito, che fu trattato con ampiezza di analisi da Malinowski. Alla base della massima parte dei riti, intesi come comportamenti culturali collettivi, è pre­sente sicuramente una carica angosciosa, che appartiene alla dinamica interna delle culture cui i singoli riti si riferisco­no. Siamo, quindi, ben distanti da una considerazione fe­nomenologica e astratta della ritualità magico-religiosa in­ tesa come sistema di rapporti e di approccio con un piano della soprannaturalità ontologica . In ongi cultura vengo­no a formarsi, secondo una testimonianza etnologica mol­to ampia e documentata, cariche ansionse e angoscianti che, in linea generale, dipendono dalla conflittualità fra speranza di ottenere il bene economico utile alla sopravvivenza, e il rischio di fallimento dell’impresa economica che porta all’ottenimento di tale bene.

L’oggetto economico, che si differenzia da cultura a cul­tura (preda per i cacciatori, gregge o mandria produttive per l’allevatore e il pescatore, prodotto spontaneo di nau ra per il raccoglitore, prodotto periodico stagionale del ter­reno per i coltivatori) è inserito in un’area di alea o di non disponibilità, che l’operatore culturale non riesce a domi­nare o non riesce a dominare del tutto. Nelle culture vena­torie, per esempio, l’oggetto economico è l’animale da pre­dare (economia di carattere predatorio o distruttivo), ma l’animale appartiene a un ordine di natura, estraneo e av­versario, non dominato, con la conseguenza che ogni sin­ golo atto culturale-economico si configura come un’avven­tura accompagnata da un’emergenza di angoscia all’inizio (ottenere la preda; non ottenerla e fallire, con tutti gli aspetti dell’ambiguità di un futuro binario e non disponibile). La carica ansiosa termina  quando l’impresa è stata compiuta,

quando, cioé, la preda è ottenuta o non ottenuta. Nelle cul­ture dei coltivatori, questa angoscia culturale imparentata con i cicli produttivi, si estende durante tutto il corso del­ l’anno coltivatorio, che inizia con un incerto totale (il se­me nella terra non ancora maturo) e termina con l’acqui­sto del prodotto. Il rito diviene il meccanismo protettivo che riscatta dall’invasamento di angoscia e ricompone l’o­perazione all’interno di una sicurezza apparente e gratif cante, che gli consente, tuttavia, di affrontare con maggiore garanzia la realtà incerta. Il rito, nelle culture, assume, cioè, la funzione di risolutore di angosce economiche, le quali si ripropongono inesorabilmente e ripetitivamente (la Wie­ derholung di Freud);

b) Nel rito riscattante, che è presente in tutte le storie culturali, va riscontrata l’assoluta credibilità scientifica del­l’omologazione freudiana fra angoscia specifica e angoscia fondamentale o di morte («ogni angoscia è un’angoscia di morte»). Per un gruppo umano, impegnato in un’impresa di sopravvivenza dominata dall’ambiguità fra il riusci­re/non riuscire, il fallimento dell’impresa significa il crol­lo del gruppo e del cosmo (del cosmo specifico apparte­nente al gruppo). La esposizione e la precarietà esistenzia­li vanno liberate dal gravame delle discussioni appartenenti alla speculazione filosofica: crollo esistenziale per un grup­ po di cacciatori significa la mancata presentazione di un canguro o di una lepre o di un elefante (presso i Pigmei dell’Ituri). Con il mancare della preda, crolla lo specifico universo culturale, si disfano le regioni di esistenza del mondo.­ Il rito ripara questa situazione e fittiziamente ricolloca nell’attesa e nella speranza il gruppo;

c) Emerge una qualità del rito religioso (e del rito ne­vrotico) non scoperta da Freud, né dalla contemporanea tecnica psichiatrica e rito e cerimonia possono porsi come una diluizione nel tempo e nello spa­zio dei nuclei culturali (e personali, per quanto riguarda l’ambito psichiatrico) della carica angosciosa. In altri ter­mini, la carica ansiosa, invivibile, insopportabile, si pre­senta, nel vissuto individuale e collettivo, come un nucleo non resolubile e non assimilabile. Essa si inserisce nel vis­suto come energia negativa paralizzante, impediente l’azio­ne fino ai livelli di paralisi motoria. La sequenza rituale opera in forma risolutoria come «spezzettamento» del nucleo angosciante in una serie di momenti temporali-spaziali. In un caso clinico personalmente verificato, una paziente, appartenente ad una famiglia piccolo-borghese della pro­vincia napoletana, era stata assoggettata ad una violenta emarginazione familiare poiché si era data alla prostituzione. La donna era stata scacciata dalla casa paterna (il pa­dre era colonnello dell’esercito italiano, la madre una vecchia insegnante elementare, la sorella esercitava anche lei la professione di insegnante, ambedue erano decisamente legate alla devozione domestica cattolica di tipo «bigotto», con la pratica quotidiana di esibiti esercizi di pietà e di mor­tificazione). La paziente in questione era stata costretta ad abbandonare la casa paterna ed era andata ad abitare in una sorta di spelonca a circa quattro chilometri di distan­za da essa, in una collinetta localmente denominata Caprile.

La duplice emarginazione familiare e collettiva, in una cultura caratterizzata da tutti i tratti delle antiche culture di villaggio, e, insieme, la decisa censura della etica catto­lica avevano determinato nella paziente una tipica nevrosi da angoscia che, nelle conseguenze esterne e visibili, si evi­denzia in un ritualismo imponente: la donna ogni mattina si spostava dalla sua abitazione nella parte alta del paese e lentamente, accompagnata da un gruppo di bambini e di curiosi, avanzava verso la casa paterna nella parte inferio­re del paese, secondo una precisa tecnica cerimoniale . Ogni sette passi, ogni volta precisamente calcolabili, si fermava e, inginocchiandosi, baciava il suolo, per rialzarsi e rinno­vare, dopo altri sette passi, lo stesso atto. Giunta alla casa del padre bussava al portoncino (si trattava di un palaz­zotto di signori di paese) e sopportava la violenta ripulsa della madre o della sorella bigotta, decidendosi, così, a ri­ tornare alla sua sede, senza compiere atti rituali. In un ca­so clinico analogo, un funzionario della TV italiana di ruolo dirigenziale, gravemente tarato da un’educazione cattolica bigotta e da una tendenza alla pratica minuta della de­vozione (recitava ogni giorno per due volte il rosario), è entrato in un’evidente fase di angoscia coatta, carica an­ che di componenti fobiche sessuali e di stimolazioni pro­venienti da una tensione familiare. Ogni sera, prima di ad­dormentarsi, consumava un lungo periodo (da mezz’ora ad un’ora) per realizzare un rituale di carattere compensa­tivo-ripetitivo , consistente nella chiusura della porta della propria camera più volte ricontrollata, nel distaccare qua­dri, cornici e oggetti delle pareti (sempre puntualmente ri­collocati, di mattina, al loro posto), nell’accertarsi più volte, secondo un ritmo numerico fisso (il numero sette) della chiusura delle imposte, nel collocare sotto ciascuno dei piedi del letto un foglio di giornale tagliato a stella, con foro centrale situato sotto ciascun piede del letto. Il soggetto era parallelamente agorafobico e nel corso della giornata ave­va crisi di assenza molto evidenti.

Nei casi clinici rammentati e nella ritualitàdi carattere culturale, il cerimoniale si configura come la diluizione nel tempo e nello spazio di una carica angosciante non vivibile . La emergenza di un’angoscia culturale, relativa, come si è sommariamente indicato, ad un’area di incerto e di in­ dominabilità ambientale e esistenziale, comporta una se­rie ordinata, non modificabile, tradizionale di azioni ceri­moniali, che essenzialmente costituiscono un rito, di natu­ra variante da cultura a cultura destinato, in ogni caso, a estendere in un tempo e uno spazio più o meno ampi la irruzione non controllabile e, in certo modo, paralizzante di un vissuto di angoscia. Se, in uno schema elementare volessimo rappresentare questa relazione fra nucleo ango­sciante e rituale, giungeremo a questo paradigma, nel quale X rappresenta  l’angoscia e i segni —corrispondono ai processi rituali temporali-spaziali di deangosciamento :

X versus ——

dove, nei casi clinici, X è situazione esistenziale determi­nabile, in quanto alla sua nuclearità, nei singoli vissuti an mnestici, e — = i momenti di ritualizzazione che realizzano la diluizione di X e la scarsità fittizia di angoscia .

La relazione si presenta con forti analogie nei compor tamenti rituali analizzati, fra gli altri, da Malinowski con riguardo alle situazioni di tubericultori dei Mari del Sud e, in particolare, delle Trobriand . I coltivatori di ignami malinowskiani sono in presenza di una situazione di ango­ scia economica rappresentata dal conflitto fra speranza di ottenere il bene economico (gli ignami) e l’eventualità del rischio di fallimento dell’impresa di coltivazione, esposta a incerti storici o naturali non dominabili (invasione di pa­rassiti, azioni belliche di tribù vicine, tempeste, siccità, ecc.). L’azione economica di coltivazione è, così, protetta da una serie di interventi magico-rituali che difendono i singoli mo­menti del ciclo coltivatorio (dal porre i tuberi nel terreno all’immaginamento finale del prodotto raccolto), così che la carica ansiogena viene in qualche modo distribuita, per la sua intensità e pressione, su singoli momenti, viene spez­zettata e resa vivibile;

d) Ogni rito nevrotico o culturale, è il riordinare nel mo­dello garante e precostituito lo scandalo dell’evento storico collettivo o In questo senso sussiste una relazione di caos-ordine fra il vissuto personale nevrotico (variante da nevrotico a nevrotico secondo un’irripetibili­tà del nur und einmal, dell’ hic et nunc) e la scelta cerimo­niale di atti e comportamenti etichettati. Ma la medesima relazione sussiste nella realtà delle culture, dove questo o quell’evento, questo o quella coltivazione, questa o quel­ l’impresa di caccia o di raccolta, cariche della loro qualità irripetibile, assoggettate al corteo di evidenti imprevedibili e indomabili, vengono ricondotti ad una normalità rassi­curante spazio-temporale, che è il cursus rituale, ricevuto tradizionalmente . Oggi rito è ricostruire l’universo prossi­ mo a crollare in un cosmos bene ordinato e vivibile . La dif­ ferenza fondamentale fra la ritualità nevrotica e quella cul­ turale sta nella qualità del modello recepito e ripetuto: nel­ l’esperienza nevrotica ossessiva, la sequenza rituale è, in qualche modo, inventata dal paziente, esplode dalla sua per­sonale anamnesi e dalla sua situazione ideativa, mentre nelle culture il rito si affida a modelli recepiti e precostituiti se­ condo una trasmissione di tipo tradizionale e consolidata. Nel nevrotico il rito è un’invenzione, nell’homo religiosus il rito è una ricezione passiva, anche se bisogna tener con­to di un Erlebnis della ritualità, di volta in volta variante, che fa del modello un personale vissuto o rivissuto. In ogni caso, nella determinazione delle scelte cerimoniali, il ne­vrotico è assoggettato ad uno sforzo maggiore che non sia quello dell‘homo religiosus: egli deve scoprire i suoi riti ed adattarli alla sua significazione esistenziale . Dove appare, in ogni terapeuta, la necessità etica di rinvenire, nel nevro­tico, le ritualità allo status nascenti, nella storia individua­le come forme di adattamento al reale e di fuga dall’ango scia. I riti nevrotici, in questo senso, variano da cultura a cultura e il nevrotico sa scoprirli e rendere funzionanti sul­ la base del suo ambito culturale;

e) Ogni rito deve seguire obbligatoriamente una sua rou­tine predeterminata, nell’area personale e psichica del ne­vrotico, nell’area storico-culturale dell’uomo  La variazione e modificazione del processo rituale tradizionale comporta una colpa sacerdotale ed operativa che, in In­ dia, era sempre sanata da particolari riti aggiuntivi di ca­rattere riparativo, vale a dire da atti sacrificali, da preghiere e da formule che sanavano la irritualità e inefficacia even­tuali dell’atto rituale. Nell’irritualità del rito il nevrotico avverte  un’esposizione  totale  all’insicurezza,  poiché  il «bene-ordinato » ritorna al caos, il modello precostituito personalmente riaffonda nell’irripetibilità e nell ‘eventua lità della propria storia scomposta e angosciante;

f) La tesi freudiana del rapporto fra ripetizione rituale e morte, così come confermata da Abraham, resta verifi­cabile in sede Ogni rito, dice Durkheim, è un sa­crilegio, una pericolosa rottura della distanza fra l’ordine consueto di natura e di storia e il piano dell’immaginario soprannaturale. In conseguenza ogni rito è un drammati­co esporre il Sé all ‘avventura di un’infrazione. Ma ogni ri­ to regola e canalizza la morte presente nella storia. In una cultura arcaica, la carenza di beni economici, il fallimento dell’impresa di caccia o di raccolta, il venir meno del pro­dotto coltivatorio, sono occasioni di morte reale poiché comportano il crollo di tutte le sicurezze esistenziali in si­ gnificato antropologico . Se le messi vengono meno, l’uni verso crolla, io sono esposto alla morte. Il rito è il tentati­vo culturale di dominare ed esorcizzare la morte, la rico stituzione illusoria dell’uomo minacciato nel suo Sè stori­ co. Perciò, in ogni caso, è un ricostituire il dramma della morte-vita, della katabasis-anabasis, un reintegrarsi mo­ mentaneamente nelle pre-origini, nel fluttuare incerto del l’inorganico per risalire al cosmos bene costituito e alla ga­ ranzia dell’essere nel mondo . Tutto, naturalmente obbedisce ad una tragica ripetitività proprio perché viviamo della morte, siamo assoggettati all’esperienza  fondamentale del crollo/ rinascita;

g) Rito nevrotico e rito religioso sono realizzati nella di­namica specifica della mentalità magica, secondo la quale l’atto organizzato e intenzionale può operare sulla realtà La realtà che il nevrotico intende modifi­care è quella del suo nucleo angosciato e del suo rapporto invisibile con il mondo. Nelle culture il rito si pone magi­camente solutorio sulle angosce provenienti dall’impasto con i singoli ambienti storico-economici ;

h) La differenza fondamentale fra vissuto rituale delle culture ed esperienza cerimoniale delle nevrosi sta nella ci­fra e nel codice della ritualità. Nel nevrotico il codice di comunicazione è assolutamente personale, individuale e de­ve essete decifrato di volta in volta in relazione con la vi­cenda anamnestica individuale: per scoprire perché la mia paziente citata compie sette passi e si inginocchia, per sco­prire perché il mio paziente avverte la pulsione irresistibile serale di porre un foglio di giornale a stella sotto i piedi del letto, devo ricorrere ad un’analisi storica variante da individuo a individuo.

La conseguenza terapeutica è nel constatare che nessun comportamento rituale nevrotico è insignificante e in ciascuno si realizza un metalinguaggio segnico individuale che riporta al fondamentale istinto di morte e alla lotta contro la morte.

Nel ritualismo culturale i sistemi segnici appartengono ad un’immediata decifrabi­lità del gruppo in cui si manifestano, con la conseguenza che l’angoscia culturale è leggibile nella sua manifestazio­ne  metaforica tradizionale  non  variabile.

 

[cite]

Originariamente pubblicato in La Ricerca Folklorica, No. 17, L’etnopsichiatria (Apr., 1988), pp. 31-35

 

 

tysm literary review

vol. 18, issue no. 21

february 2015

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