Una ragionevole follia: la mania senza delirio
di Beatrice Catini
«Questo è il problema manifestato e nascosto a un tempo dalla conoscenza della follia: che la follia sempre situata nelle regioni originarie dell’errore, sempre in disparte in rapporto alla ragione, possa tuttavia aprirsi interamente a essa e confidarle la totalità dei propri segreti»[1].
«Per quale tipo di comprensione ci diamo da fare, di fronte alla realtà e alla finzione della follia?»[2]. Questo interrogativo, posto da Ian Hacking all’inizio del suo bellissimo saggio sul caso clinico di Albert Dadas, sta probabilmente alla base della ricerca intrapresa attorno alle cartelle dell’archivio dell’ex manicomio dell’isola di San Servolo, a Venezia[3]. Si può pensare che non abbia senso, se non quello di un frivolo amore per l’erudizione o di una curiosità un po’ maniacale per le pratiche mediche cadute in disuso, portare avanti un’indagine sulle malattie mentali diagnosticate nel passato, a maggior ragione se queste malattie sono risultate essere frutto di diagnosi non più utilizzate o addirittura considerate fuorvianti e superate. Hacking parla a tal proposito di malattia mentale transitoria, intendendo con quest’espressione «una malattia che compare in un dato momento, in un dato luogo, per poi sparire», una malattia che «può diffondersi da un posto all’altro e ripresentarsi in momenti diversi.
Può colpire una certa classe sociale o gli individui di un solo sesso, e privilegiare le donne povere o gli uomini ricchi»[4]. Tra queste si possono di certo annoverare – oltre all’ormai nota parabola dell’isteria[5] – la quasi totalità delle diagnosi che si leggono sulle cartelle cliniche dei pazienti dei manicomi verso la fine del XIX secolo.
Il fatto stesso di poter formulare una diagnosi di malattia mentale, così come oggi ci risulta familiare, è legato alla possibilità di pronunciare una definizione, una supposta verità, nell’orizzonte dell’esperienza della follia: da questo orizzonte indistinto, attraverso il linguaggio psichiatrico e le sue pratiche, si stagliano le figure della follia medicalizzata e vanno sempre più raffinandosi e diversificandosi lungo il XIX secolo.
Questo percorso epistemologico è stato mirabilmente descritto da Michel Foucault nella sua prima opera, Histoire de la folie à l’âge classique, e in numerose opere successive, nonché nei corsi al Collège de France[6]. Quella del pensatore francese è una profonda riflessione sul rapporto che l’uomo intrattiene con la verità e che si gioca attraverso il confronto della ragione con la sragione. Foucault mette in luce come nella misura in cui la pazzia del folle si esaurisce nella verità della sua pazzia, preludio della diagnosi, egli divenga prigioniero di quella stessa libertà che permetteva l’esperienza classica della follia, al centro della quale vi era il delirio.
Questa libertà, orizzonte costante dei concetti e delle pratiche, esigenza che si nascondeva e si aboliva col suo stesso movimento, la libertà ambigua dell’esistenza del folle, è ora reclamata nei fatti come quadro della sua vita reale e come elemento necessario all’apparizione della sua verità di folle. Si tenta di catturarla in una struttura oggettiva[7].
Si tratta del passaggio storico che porta dal folle al malato di mente e che ha un suo momento essenziale nell’individuazione di una follia parziale senza delirio, concomitante alla creazione di luoghi deputati a osservarla e curarla, nonchè a contenerla. Contrariamente a quanto viene tramandato «[a]lla fine del XVIII secolo non si assiste a una liberazione dei folli, ma a una oggettivazione del concetto della loro libertà. […] A partire da questo istante la follia non indica più un certo rapporto dell’uomo con la verità […]: essa indica solo un rapporto dell’uomo con la sua verità»[8]. Si cercano le ragioni dell’abuso della libertà, del suo uso degenerato e in ultima istanza colpevole; si indaga nelle dinamiche del desiderio, della volontà, delle passioni, degli istinti, degli automatismi e della responsabilità. La follia cessa di essere quel confinamento nelle regioni del non-essere e dell’errore che la rendeva un modo d’essere globale e altro e si parcellizza nei determinismi della grande architettura tassonomica del XIX secolo. Questa architettura comincia a delinearsi già nel XVIII secolo, sulla scorta del modello botanico e della ricerca di una definizione positiva, attraverso i sintomi, delle malattie.
Innanzitutto la follia può essere continua, intermittente, totale o parziale, può manifestarsi quindi in una sequenza temporale diversa ma comunque circoscrivibile e può convivere con momenti o parti di non follia.
La follia, che non era che l’istantaneo contatto del non-essere dell’errore e del nulla dell’immagine, conservava sempre una dimensione grazie alla quale sfuggiva alla presa oggettiva: e allorché si trattava, rincorrendola nella sua essenza più ritratta, di discernerla nella sua struttura ultima, non si scopriva, per formularla, che il linguaggio stesso della ragione dispiegato nella logica impeccabile del delirio: e proprio ciò che la rendeva accessibile la schivava come follia. Ora, invece, è attraverso la follia che l’uomo, anche nella sua ragione, potrà diventare ai propri occhi verità concreta e obiettiva[9].
In secondo luogo si delinea la possibilità dell’esistenza di una follia senza delirio manifesto. Il delirio e la febbre erano i due elementi che, fin dalla tradizione ippocratica, permettevano di distinguere all’interno delle malattie che attaccano l’anima: la frenesia, un delirio con febbre; la mania, un delirio senza febbre; la malinconia, un delirio senza febbre, ma su un unico oggetto determinato, e infine la demenza (o stupidità), una paralisi della capacità di ragionare. Se la presenza o l’assenza di febbre permettevano di distinguere le due principali categorie della follia, la mania e la malinconia, dai turbamenti temporanei dello spirito, era l’elemento del delirio a rendere riconoscibile la follia nella sua struttura logica: la verità della follia risiedeva nel suo linguaggio delirante, nella misura in cui ne era la forma organizzatrice, il principio determinante di tutte le sue manifestazioni, sia quelle del corpo sia quelle dell’anima[10].
La follia può da questo momento in poi presentarsi senza delirio, completamente oggettivabile, addomesticata: «[l]a sragione non ha più quel volto strano in cui il Medioevo amava riconoscerla, ma la maschera impercettibile del familiare e dell’identico»[11].
Per capire come il darsi di un’esperienza come quella della follia senza delirio abbia riconfigurato i rapporti dell’uomo con la follia bisogna allargare il discorso e lo sguardo al contesto in cui quest’esperienza ha preso corpo.
L’Ottocento è il secolo in cui, a seguito di un lungo processo, la psichiatria e la psicologia vengono elette a poteri discriminanti e disciplinanti all’interno della società. In Europa il XIX secolo è infatti caratterizzato da una serie di sommovimenti politici e sociali, in particolare tra il 1848 e il 1871 una serie di rivoluzioni repubblicane, democratiche, nazionaliste e socialiste scuotono il continente e fanno sorgere il bisogno di un istituto che governi i comportamenti: la medicina, nelle vesti della psichiatria, e l’ospedale psichiatrico sono chiamati a giocare questo ruolo.
In Italia Lombroso aveva anticipato in questo processo altri paesi europei e aveva sancito il connubio tra malattia mentale e pericolosità pubblica, anche se a livello legislativo la mancanza di una legge nazionale sui manicomi rendeva l’internamento soggetto all’arbitrio delle circostanze. A differenza di Francia e Inghilterra l’Italia non ebbe, per tutto l’Ottocento, una legislazione manicomiale unitaria per tutto il territorio nazionale: laddove quella francese risale al 1838 e quella inglese al 1844, in Italia bisognerà attendere il 1902 perché Giolitti presenti al Senato un disegno di legge dal titolo “Disposizioni sui manicomi pubblici e privati”. I punti essenziali della legge concernevano: l’obbligo di ricovero in manicomio soltanto per i dementi pericolosi e scandalosi; l’ammissione con procedura giudiziale, salvo i casi di urgenza; la competenza attribuita alle provincie di tutte le spese relative ai folli poveri, tranne pochissimi casi; l’istituzione di un servizio speciale di vigilanza sugli alienati. Questa proposta di legge venne definitivamente approvata il 12 febbraio 1904 e promulgata il 14 successivo con il numero 36, dopo venticinque anni di dibattiti infuocati e 6 disegni di legge bocciati[12].
Come si può osservare, in questa legge il criterio discriminante per l’internamento era individuato nella pericolosità della condotta del folle, sancendo in questo modo la vittoria della sicurezza sulla cura, e la considerazione della malattia mentale come fattore da contenere più che da curare: si entra dunque in manicomio non perché si è malati, ma perché nocivi, pericolosi, improduttivi, licenziosi, oziosi, di pubblico scandalo.
Il ruolo che la psichiatria gioca all’interno di questa nuovo assetto legislativo è centrale, in quanto l’ammissione dell’alienato in manicomio avviene in modo provvisorio o definitivo, ma sempre a seguito della presentazione di un certificato medico che attesti le condizioni mentali del soggetto.
Le cartelle cliniche su cui si è concentrata la nostra ricerca appartengono al periodo storico appena delineato nei suoi tratti salienti; le cartelle analizzate coprono, infatti, il sessantennio che va dal 1874 al 1938. Negli anni Settanta dell’Ottocento sono passati poco più di dieci anni dall’Unità d’Italia e la popolazione dei manicomi italiani è cresciuta progressivamente: nel 1865 i ricoverati erano circa 7700, nel 1874 erano 12210, di cui 6476 maschi e 5734 femmine; nel 1881 si sale a 18000 alienati, distribuiti nei 50 manicomi pubblici e privati esistenti in Italia, per slittare lievitare a 54311 alienati nel 1914. Tenendo presente che contemporaneamente è aumentata anche la popolazione generale, si stima che la proporzione degli alienati rispetto alla popolazione sia triplicata (da 0,5 per mille a 1,5 per mille) in quarant’anni[13]. Nel rapporto sanitario del manicomio di S. Servolo, relativo all’anno 1885, troviamo annotato:
[…] l’aumento dei ricoverati è un fatto che si verifica non solo nel nostro ma anche negli altri manicomi; e disgraziatamente, non tutti gli stabilimenti possono apporre un argine ad un tale accrescimento respingendo i pazzi che non si sa dove collocare rigurgitando anch’esse le sale di osservazioni degli ospedali civili di aberrati di mente[14].
A questo dato va aggiunto il numero, non esiguo, di tutti quei malati di mente la cui cura era affidata alla custodia domestica, caldeggiata a partire da fine Ottocento per far fronte al sovraffollamento manicomiale[15]. Abbiamo quindi a che fare con un fenomeno che, nel periodo da noi preso in considerazione, sta subendo un notevole incremento: i manicomi sono diventati il luogo d’elezione per segregare le deviazioni dalla norma sociale, il luogo dove scaricare gli individui di cui né le famiglie, né gli ospedali, né i ricoveri e nemmeno le carceri vogliono farsi carico[16].
Proprio per far fronte a questa situazione la deputazione provinciale di Venezia istituisce nel 1901 una commissione di consiglieri provinciali coordinata dal direttore della clinica psichiatrica di Padova, Ernesto Belmondo, con l’incarico di ispezionare i due manicomi, rispettivamente femminile e maschile, il San Clemente e il San Servolo, nonché gli altri piccoli istituti disseminati nella provincia. I risultati dell’inchiesta sono la rilevazione, ovunque, di una situazione insostenibile: sovraffollamento, scarsità di personale medico, inadeguatezza di quello infermieristico, trascuratezza o fatiscenza dei locali, cattiva o insufficiente alimentazione dei degenti, un’assoluta deficienza di servizio sanitario e di condizioni igieniche. È curioso come proprio al manicomio di San Servolo, gestito all’epoca dal medico frate Minoretti, spetti il primato del degrado:
Infermieri rozzi, maleducati e in cinica attitudine di carcerieri, una quantità di malati tenuti colle catene e coi ceppi e le balze di ferro alle mani e ai piedi, sulle nude carni contuse, intormentite e sanguinose, per settimane, per mesi, per anni, senza alcuna vigilanza medica, e mantenuti per tanto tempo in sì raccapriccianti condizioni per le stesse ragioni per cui in altri tempi languivano i prigionieri alla Bastiglia: perché nessuno si ricordava più di loro e dell’ordine una volta dato di tenerli chiusi[17].
Il resoconto della commissione presieduta da Belmondo venne diffuso, nei suoi passaggi più raccapriccianti, tramite la pubblica stampa – dall’ “Adriatico” al “Corriere della sera” – creando un vero e proprio scandalo nazionale[18]. Si cominciò a sospettare che le “case del dolore”[19] veneziane non fossero casi isolati e l’indagine si allargò ben presto a tutto il territorio italiano e portò nel giro di pochi anni alla presentazione al Senato da parte del ministro Giolitti del disegno di legge sui manicomi e gli alienati cui si è già fatto riferimento.
Accedere al sapere e alle pratiche in gioco all’interno dei manicomi di metà Ottocento non è cosa semplice. Tra l’inizio dell’Ottocento e la metà del secolo viene predisposto in quasi tutti i manicomi europei l’uso della cartella cinica[20]. Documento d’indagine per eccellenza attorno all’universo manicomiale ottocentesco, la cartella clinica si presenta come un vero e proprio testo narrativo[21], in grado di mettere in luce aspetti inediti e reconditi. Pratica antica come la storia della medicina, il narrare, l’appuntare la storia clinica del malato è abitudine che accompagna da lunghissimo tempo i medici; testimonianza di uno strenuo tentativo di illuminare l’oscurità della sofferenza attraverso dati, appunti, misurazioni, valutazioni, diagnosi, anamnesi, prognosi, decostruzioni e ricostruzioni. Come ogni narrazione anche la cartella clinica ha il suo stile e i suoi codici, che ovviamente mutano al mutare delle teorie e delle visioni mediche che le sottendono. Le teorie e i codici a esse collegate cambiano, ma spesso senza tagli netti e decisivi: a volte nuove teorie riutilizzano termini antichi, altre con termini nuovi non fanno altro che traghettare visioni mediche immutate da secoli, altre volte ancora si creano curiose sovrapposizioni. In questo modo la cartella clinica si presenta come un testo stratificato, un affastellamento di codici ereditati dai periodi precedenti e usati per cercare di catturare la continua eccedenza della parola e del gesto del folle e ricondurli così a una forma classificata e dominabile.
Momento essenziale nell’indagine sulla follia all’interno della cartella clinica è la ricerca degli antecedenti: si cerca di risalire a quegli atteggiamenti e a quei segnali che potevano far presagire l’esordio e lo sviluppo di quella patologia, nonché a quella storia patologica familiare che confermi la trasmissione ereditaria dell’alienazione. Ciò che viene analizzato nell’anamnesi non è il corpo del folle, bensì il corpo familiare, sostituendo così al corpo dell’anatomia patologica «un analogon meta-individuale all’organismo di cui si occupano i medici»[22]:
Dal momento che non si può e non si sa trovare, nel malato, un substrato organico per la sua malattia, si tratta allora di trovare nell’ambito della sua famiglia un certo numero di eventi patologici comunque riferibili, quale che sia in ogni caso la loro natura, alla comunicazione e dunque all’esistenza di un determinato sostrato materiale di tipo patologico[23].
Dal 1874 viene introdotta nelle cartelle cliniche la fotografia; circa un decennio più tardi, a partire dagli anni Ottanta/Novanta dell’Ottocento, sotto l’influenza delle teorie lombrosiane, le cartelle cliniche dei manicomi italiani si riempiono di dati quantitativi (misure antropometriche, craniometrie …), per lasciare velocemente il posto, dal primo decennio del XX secolo, alle categorie diagnostiche psicosensoriali di ascendenza kraepeliniana.
Per leggere coerentemente questi dati bisogna aver presente il contesto e il suo linguaggio – nosografico e non solo -, che è quello della psichiatria della seconda metà dell’Ottocento e del primissimo Novecento cui si è fatto cenno anche all’inizio del presente articolo. Un arco di tempo in cui la psichiatria transita dal paradigma della cura morale a quello neurologico: un momento cruciale, perché si sta giocando il passaggio tra i primi fondamenti scientifici della psichiatria e il costituirsi della psichiatria moderna. A inizio Ottocento la psichiatria aveva perso vigore per la scoperta della paralisi generale progressiva da parte del medico francese Antoine-Laurent Bayle, in quanto questa ha rappresentato una delle grandi forme in cui si è creduto di poter fissare stabilmente i rapporti tra malattia mentale e organismo[24]. Nel suo Traité des maladies du cerveau et de ses membranes pubblicato a Parigi nel 1826, Bayle aveva descritto uno stato particolare di alienazione che esordiva con i tratti tipici dei quadri nosografici dell’epoca (monomania ambiziosa con disturbi dell’eloquio, cui seguiva mania con disturbi locomotori, che evolveva in uno stato di demenza caratterizzato da una paralisi generale incompleta), scoprendone però la correlazione a un’alterazione dell’aracnoide. Bisognerà attendere le ricerche di Alfred Fournier, nel 1879, per scoprirne l’eziologia sifilitica. Ciò che conta però ai fini del nostro discorso è che la paralisi progressiva viene assunta come modello di malattia mentale lungo tutto il corso del XIX secolo[25], inaugurando così la progressiva annessione del campo della follia e della psichiatria alle procedure proprie della neurologia e dando così luogo alla confusione tra le due discipline durata per tutto il XIX secolo. I primi alienisti erano infatti sia neurologi che psichiatri e tutti si misurarono, sebbene con declinazioni diverse a seconda del contesto territoriale, con il tentativo di trovare correlati organici o funzionali dell’alienazione mentale[26].
Nel Rapporto sanitario dell’anno 1885 il frate alienista Stefani Signorini scrive:
[è] noto a tutti i medici, e specialmente a quelli che si occupano della malattia mentale, che gli alienati sono tutti individui ammalati fisicamente, sia di encefalite, sia di meningite, sia di paralisi progressiva, di pellagra, ecc.; e gli stessi affetti dalle varie forme di nevrosi riconoscono indubbiamente una lesione organica. Che se gli alienisti stessi distinguono le malattie in fisiche e mentali, essi lo fanno allo scopo di uniformarsi alla comune intelligenza e di escludere le malattie comuni da quelle proprie degli aberrati[27].
In Italia, il ritardato compimento del processo di unificazione e il timido sviluppo di un’autoctona organizzazione industriale contribuiscono a una subalternità dell’evoluzione della psichiatria italiana alle esperienze straniere, prima francesi e in seguito tedesche[28].
Non è questa la sede per fare un excursus di storia della psichiatria; basti sapere che sino agli anni Sessanta del XIX secolo, per effetto del clima diffuso della Rivoluzione francese e dello sviluppo della società francese sotto Luigi Filippo, l’impianto nosografico di riferimento è quello di scuola francese, caratterizzata da una scarsa sistematizzazione della materia, un privilegio dato all’osservazione clinica, a fronte di uno scarso impegno speculativo. In Francia le ricerche psichiatriche, a differenza di quanto avveniva in Germania, venivano condotte negli ospedali psichiatrici e non presso le sedi universitarie. Pionieri di questo tipo di insegnamento erano Philippe Pinel (1745-1826), nominato nel 1793 medico supervisore dell’ospizio di Bicêtre, e l’allievo Esquirol (1772-1840), ispiratore della Legge sui Pazzi del 1838. Entrambi, con la loro particolare postura filosofica, contribuirono allo sviluppo di quella cura morale che poneva al centro la ricostruzione del vissuto del malato mentale, operando così una sintesi tra l’esprit d’observation e les méthodes de classification[29]. A livello eziologico Equirol, insieme a Moreau de Tour, a Langerman e a Heinroth, contribuirono a dare una rilevanza particolare alle passioni come terreno d’indagine per la comprensione della genesi e sviluppo delle malattie mentali; mentre a livello nosologico le classificazioni principali erano quelle di mania, malinconia, monomania, demenza e idiotismo. Queste ultime due rientravano nella categoria delle diagnosi incurabili mentre le rimanenti potevano essere curate e i pazienti risanati. A queste malattie mentali vanno aggiunte l’isteria e ovviamente la pellagra e l’alcolismo.
La malattia morale di Pinel ed Esquirol si trasforma, dopo la metà del XIX secolo, con Benedict-Augustin Morel e Valentin Jacques Joseph Magnan, in una degenerazione ereditaria della specie umana[30], passando per l’antropometria di Cesare Lombroso, la cronicità di Krafft-Ebing, il localizzazionismo di Carl Wernicke fino ad approdare sullo scorcio del XIX secolo all’organicismo di Kraepelin e Griesinger, che segna una nuova modalità di intendere la malattia mentale. Nella seconda metà del XIX secolo la sfera di influenza della psichiatria si sposta quindi nell’area culturale tedesca-prussiana e nelle sue università, dove si porta avanti uno sforzo di sistematizzazione e unitarietà della materia, nonché l’approfondimento delle ricerche in campo biologico. Tra la prima psichiatria biologica di Wernicke e quella inaugurata da Emil Kraepelin c’è però una grande differenza: Wernicke si era concentrato sui gruppi di sintomi e sull’individuazione della loro localizzazione nel cervello, dando luogo a quella che Karl Jaspers definì “mitologia cerebrale”, Kraepelin invece pensava che fosse il decorso dei sintomi psichiatrici a offrire un indizio sulla loro natura. Rifacendosi a Karl Ludwig Kahlbaum, Kraepelin considerava compito primario della psichiatria quello di identificare delle forme morbose naturali, intese come malattie qualificate da una specificità sintomatologica, decorso, causa e reperto somatico[31].
Se l’alienistica francese distingueva le affezioni mentali qualitativamente, individuando in base al contenuto del delirio la funzione colpita (intelletto, affetto, volontà), le categorie diagnostiche di stampo kraepeliniano si giocano su un livello quantitativo, individuando i segni di un quadro clinico che si evolve nel tempo secondo un decorso predeterminato, conseguenza inevitabile della costituzione biopsichica dell’individuo.
Mentre la nosografia psichiatrica si raffina sempre più, la pratica clinica pare rimanere sempre la stessa: sotto le effigi delle etichette diagnostiche si trova sempre lo stesso sguardo annaspante, alla ricerca di appigli semeiologici che consentano di intravedere qualche forma frusta degli idealtipi diagnostici tanto faticosamente costruiti.
Le classificazioni diagnostiche psichiatriche si giocano attorno a un oggetto dai confini alquanto incerti e aleatori. Un oggetto designato con nomi diversi, a seconda della scuola di pensiero, della disciplina e del contesto spazio-temporale: mente, cervello, psiche, anima. Un oggetto nascosto allo sguardo medico, una spina nel fianco al sapere positivo, che proprio in quegli anni raggiunge in campo medico risultati notevoli sul piano scientifico. Grazie alla scoperta dell’anatomia patologica legata al nome di Morgagni, è possibile avviare un fecondo incontro tra fisiologia e patologia, portato a compimento da Virchow e Bernard con la fisiopatologia[32], che permette un notevole incremento nell’efficacia diagnostica. Nella seconda metà del XIX secolo, infatti, le malattie somatiche trovano una loro collocazione in base all’eziologia e all’anatomia patologica. Non si può dire la stessa cosa riguardo la diagnostica delle malattie mentali: salvo per quelle il cui correlato organico è preponderante, vale a dire le forme infettive, tossiche e metaboliche (paralisi progressiva, pellagra, alcoolismi, neurolue, ecc.), per il resto si è di fronte a un affastellamento di sintomi, la cui decifrazione risulta oscura e difficoltosa. A differenza degli altri sintomi medici, quelli psichiatrici provengono da un oggetto dai confini tanto labili quanto diffusi (basti pensare al magnetismo, che estendeva i confini della mente ben al di là del corpo) e attorno al quale regna un’inquietante oscurità. L’esigenza è quella di legittimare la nascente psichiatria di fronte alla comunità medica e per far ciò è necessario restringere l’oggetto di studio, nonché munirsi di una classificazione e di una diagnostica specifiche. Innanzitutto non bisogna allontanarsi dal corpo: i segni che parlano della mente vanno indagati attraverso il corpo. Un corpo che, sotto la lente della nascente psichiatria, diventa teatro di interpretazione, creatura cangiante e multiforme, su cui si accalca una ridda di classificazioni.
Il corpo del folle è il corpo perturbante per eccellenza, soprattutto dove i segni della devianza si fanno più sottili, quasi impercettibili. Corpi dove la follia è incistata sotto una parvenza di normalità.
Quando il segno di una mostruosità morale non è rintracciabile sul corpo[33] e nemmeno nella povertà dell’intelletto, lo sguardo e i sensi vanno raffinati per trovarne le prove nella condotta morale: negli atteggiamenti, nei pensieri, nei comportamenti, nella volontà.
[…] la follia si distingue dalle malattie del corpo inquantoché manifesta una verità che in quelle non appare: essa fa sorgere un mondo interiore di cattivi istinti, di perversità, di sofferenze e di violenza, fino allora rimasto in dormiveglia. Essa lascia scorgere una profondità che dà alla libertà dell’uomo tutto il suo significato; tale profondità rivelantesi nella follia è la cattiveria allo stato selvaggio[34].
In ogni caso la psichiatria non si distacca dall’osservazione del corpo, sia questo sede di lesioni, menomazioni, mostruosità, sia teatro di comportamenti e atteggiamenti. «La psichiatria ottocentesca è una scienza del corpo»[35]. A testimonianza di ciò vi è la considerazione riservata nella prevenzione e nella terapia dell’alienazione alla fisionomia[36] , come un importante indicatore del tipo di passione scatenante la malattia mentale. «Lo studio della fisionomia degli alienati […] non è un oggetto di futile curiosità; questo studio aiuta a districare il carattere delle idee e delle affezioni che dominano il delirio di questi ammalati»[37].
Il risultato dello studio della fisionomia degli alienati aveva prodotto una vera e propria iconografia manicomiale che divenne parte integrante dell’impresa terapeutica[38]. Negli anni in cui Esquirol era direttore dell’ospizio di Charenton fece dipingere al ritrattista G.M. Gabriel dei ritratti di alienati colti nei loro tratti essenziali; successivamente affiderà all’incisore Ambroise Tardieu la creazione di una serie di tavole (planches) di folli, che fungeranno da appendice alla sua silloge del 1838. Le planches esquiroliane erano un tentativo di restituzione della particolarità umana osservata e nel contempo già catalogata: l’assenza di colori e l’ambientazione manicomiale collocano fin da subito la figura rappresentata in un contesto particolare, teso a evincere nelle caratteristiche individuali della follia i suoi tratti tipizzanti[39]. Anche Étienne-Jean Georget, allievo di Esquirol che approfondì in modo particolare la monomania omicida, incaricò il pittore Théodore Géricault di dipingere dal vivo, recandosi presso la Salpêtrière, dieci studi di alienati monomaniacali; di questi ne sono giunti sino a noi soltanto cinque, ma sufficienti per mettere in luce la profonda ambiguità dell’iconografia della follia manicomializzata. Géricault, a differenza di Tardieu, ritrae i monomaniaci in un contesto naturale, che non rimanda all’istituzione terapeutica, tanto che i volti estremamente espressivi ed enigmatici rappresentati rimandano alla varietà del mondo popolare parigino dell’epoca, più che a soggetti affetti da qualche male. Sicuramente si tratta di corpi turbati da qualche misteriosa passione o idea, ma se non fosse per la denominazione apposta sul quadro, non avremmo l’impressione netta di esser di fronte alla rappresentazione della follia tout court[40]. Nell’iconografia manicomiale «[i] ”tratti fisionomici” e gli “effetti organici” della passione non governata costituiscono quello che potremmo chiamare il corpo della follia»[41], ma nel contempo rimandano anche a una continuità, che di lì a poco si interromperà, tra le passioni dell’uomo normale e i deliri dell’uomo alienato. Bisognerà attendere la seconda metà del XIX secolo perché questa continuità e l’ambiguità che porta con sé vengano spezzate in favore di una visione irrimediabilmente separata della follia e del suo corpo, segnato dalle tare degenerative e incurabili. A riprova dell’influenza di questo immaginario della follia si possono scorrere le descrizioni fatte dei reclusi a S. Servolo e S. Clemente. Nel compendio storico della malattia del domestico illetterato di Padova, Gaetano Dozzi, leggiamo: «Ha per vero la fisionomia del malinconico, è magro […]», come se detta fisionomia fosse riconoscibile e condivisibile dal senso comune.
Questa concentrazione sul corpo è tanto più paradossale quanto più la follia, a prima vista, è ciò che di più lontano si possa concepire dall’ambito corporeo.
Nonostante ciò, basta osservare le cartelle cliniche per notare questo accanimento sul “corpo della follia”. Nelle cartelle cliniche degli anni Settanta dell’Ottocento (quando ancora il manicomio veniva denominato morocomio), dopo i dati anagrafici essenziali vi è il compendio storico della malattia, lo spazio per la classificazione e infine quello dedicato all’andamento della cura e della malattia. Solo un decennio più tardi, la cartella clinica (o tabella nosologica) si riempie di misurazioni e dati quantitativi. Dopo i dati anagrafici, che contengono anche la diagnosi – con rispettiva causa, epoca d’invasione, recidività, indole del delirio, successioni morbose -, vi sono l’anamnesi e, infine, l’esame oggettivo e soggettivo: l’esame si apre con le misure antropometriche, per continuare con l’esame dei vari apparati, della sensibilità, della motilità, della temperatura, dei cicli di sonno e veglia, della loquela, della mimica e dei fenomeni morbosi accusati. Nelle osservazioni squisitamente psichiatriche rientrano la valutazione delle facoltà intellettive, affettive, istintive e morali, le manifestazioni negative e positive più importanti che improntano il carattere del folle, lo stato della coscienza (psicologica, morale e apprezzativa), le influenze patogenetiche concomitanti, per finire con la diagnosi frenopatica e la prognosi dello stato fisico. Non per nulla in questo periodo si passa dal termine morocomio a quello di frenocomio per indicare il luogo di cura dell’alienazione. Frenocomio viene da fren che in greco significa “diaframma” e che «rende meglio il concetto di facoltà intellettuali che si esercitano e manifestano per mezzo dell’organismo»[42]. Augusto Livi, direttore dei manicomi di Siena e poi di Reggio Emilia, nonché fondatore della Rivista sperimentale di freniatria, sosteneva che «la parola “psiche” rappresenta l’anima secondo il concetto platonico, mentre “fren” rappresenta il complesso delle forze dinamiche dell’organismo» e che «le cosiddette malattie mentali, quelle che fin d’ora chiameremo frenopatie o frenosi, non si possono né si debbano studiare altrimenti che come malattie dell’organo cerebrale»[43]. Infine nell’ultimo decennio del XIX secolo si passa al termine, ancora oggi in uso, di manicomio e la tabella nosologica aggiunge altri dati quantitativi tra le sue voci. L’esame oggettivo e soggettivo diviene l’esame obiettivo e l’esame antropologico si arricchisce della craniometria, dei caratteri antropologici degenerativi e dell’esame della vita vegetativa. Morel, Magnan, Lombroso, Kraft-Ebing e Kraepelin lasciano i segni della loro influenza anche sull’organizzazione delle cartelle cliniche. Si è imboccata la strada per rendere scientifica la psichiatria: dal momento che ogni malattia mentale presenta fenomeni morbosi, provenienti da alterazioni del sistema nervoso centrale, si istituisce un legame correlativo tra segni morbosi e sintomi del corpo[44].
Purtroppo però questa richiesta di annotazioni quantitative non era quasi mai soddisfatta. Pochissime cartelle cliniche sono compilate in ogni loro parte; i dati riportati sono scarni e ridondanti. Si tratta per la maggior parte di descrizioni che attengono una dimensione fenomenologica e quasi mai eziologica dei sintomi, un’osservazione che si limita a un elenco di aggettivi che spesso non hanno nemmeno a che fare con termini di pertinenza medica: tranquillo, mite, inerte, spaventato, esaltato, allegro, inquieto, indifferente, sereno; fino ad arrivare a termini evidentemente insultanti: stupido, semistupido, povero stupido, incapace, scemo, inetto, cretino, insulso, ottuso, etc.
Nella maggior parte dei casi, se non subentrano complicazioni di ordine organico (i folli erano quasi tutti poveri denutriti e cagionevoli), dopo l’esame psichico le annotazioni periodiche nei diari riportano semplicemente: come ieri, niente di nuovo, idem, è sempre uguale, niente si ottiene di meglio, nulla si ottiene di più, siamo allo stesso punto, è al solito, è stazionario, ecc.
Pare quasi che «[…] quanto più si lavora per convogliare la varietà dei sintomi nell’alveo rassicurante della classificazione, tanto più questi rivelano la loro natura di materiale grezzo, spesso irriducibile, ed in ogni caso pericolosamente disponibile per altre utilizzazioni e per altre teorie»[45].
La diagnosi di mania senza delirio e la sua evoluzione si prestano particolarmente bene a esemplificare questo continuo lavorio classificatorio e nel contempo la sua inesorabile messa in scacco: «[l]a descrizione dei sintomi – vera e propria irruzione dell’avvenimento entro le maglie di un sapere positivo – rappresenta un fattore destabilizzante del pensiero classificatorio: lo mette continuamente alla prova svelandone l’insufficienza e la provvisorietà»[46]. Non solo. La mania senza delirio, dando luogo a quello che potremmo chiamare lo scandalo della continuità tra normalità e follia[47], mette in moto tutta una serie di pratiche volte a ricostituire una discontinuità che giocheranno un ruolo fondamentale nella nascita dell’odierna concezione della malattia mentale.
La mania espressa nella forma del delirio è stata fino al XVII secolo sinonimo di follia in generale, sebbene il delirio parziale fosse già noto agli antichi da Areteo di Cappadocia[48] a Clelio Aureliano, fino a Paolo di Egina[49]. Nel XVIII secolo medici come Joseph Lieutaud e filosofi come Kant parlavano di delirio attorno a un solo oggetto per indicare un tipo di follia che si sviluppava in un’unica direzione lasciando all’individuo intervalli anche ampi di lucidità[50]. All’inizio del XIX secolo, prima delle grandi sistematizzazioni di Pinel ed Esquirol, l’individuazione dei diversi tipi di follia si limitava alle forme più generali: mania, quando si è di fronte a una follia dai toni eccitati ed esaltati, e malinconia, quando si ha a che fare con un delirio dai toni cupi e tristi.
Lo spirito del malinconico è tutto occupato dalla riflessione, cosicché l’immaginazione resta in ozio e in riposo; nel maniaco, invece, fantasia e immaginazione sono occupate da un flusso perpetuo di pensieri impetuosi. Mentre lo spirito del malinconico si fissa su un unico oggetto, attribuendogli proporzioni sragionevoli, la mania deforma concetti e nozioni; oppure questi perdono la loro congruenza, e il loro valore rappresentativo è falsato; in ogni modo, l’insieme del pensiero è colpito nel suo rapporto essenziale con la verità. La malinconia è poi sempre accompagnata da tristezza e da paura; nel maniaco invece si riscontrano audacia e furore[51].
Quando Pinel arriva a Bicêtre le uniche classificazioni che ha a disposizione sono quelle di Cullen e Boissier de Sauvages (Nosologie méthodique, 1793), ma deve ben presto constatarne l’insufficienza: la strumentazione nosografica per le malattie mentali era inadeguata ad affrontare l’esperienza di caos e confusione che Pinel sperimentò. La struttura della nosografia medica, infatti, aveva mutuato il suo impianto dalla disciplina botanica ed era costruita sulla pretesa esistenza di specie naturali. Per i classificatori del XVIII secolo «l’ordine dei botanici diventa organizzatore del mondo patologico nella sua interezza e le malattie si suddividono secondo un ordine e in uno spazio che sono quelli della ragione stessa»[52]; l’intento era quello di ridurre «tutte le malattie a delle specie precise con la stessa cura e la stessa esattezza che i botanici hanno usato per i loro trattati sulle piante»[53]. La nosografia psichiatrica di fine Settecento scontava queste origini nell’impatto con il contesto all’interno del quale si cercava di applicarla: la struttura manicomiale infatti trasformava dall’interno le specie, retroagendo su di esse come fattore plasmante e facendo perder loro ogni preteso statuto di purezza naturale[54]. Consapevole di questo fattore, Pinel dovette quindi ripartire dall’inizio. Così, applicando il metodo di osservazione analitica, Pinel approntò il piano dell’opera che lo rese celebre, il Traité médico-philosophique sur l’aliénation mentale ou la manie (1800)[55]. Nel IV capitolo del Traité (Divisione dell’alienazione mentale in specie distinte), Pinel prova a sistematizzare il frutto delle sue osservazioni cliniche e individua cinque specie di alienazione:
- malinconia o delirio esclusivo su un oggetto
- mania senza delirio
- mania con delirio
- demenza o abolizione del pensiero
- idiotismo o obliterazione delle facoltà intellettive e affettive
- altre specie di mania con complicazioni (epilessia unita alla mania o all’idiotismo)
La mania senza delirio è un’autentica invenzione concettuale pineliana e rappresenta una rottura epistemologica rispetto al pensiero del mondo classico[56], che riteneva la mania inseparabile dal delirio, in quanto perdita totale della ragione, rottura dell’unità dell’io. A Bicêtre Pinel, che inizialmente condivideva la stessa idea di mania del mondo classico, rimase sorpreso nel «constatare che parecchi alienati non presentavano, in nessun periodo, alcuna lesione dell’intelletto; erano in preda ad una sorta di delirio furioso, come se se solo le loro facoltà affettive fossero lese»[57].
Comincia così a profilarsi una follia che non è pura sragione, che non è resa incomprensibile dal delirio e non vi coincide; si tratta di un tipo di follia che mantiene intatte le capacità intellettuali e che si organizza e sviluppa in disordini che riguardano maggiormente la sfera affettiva e passionale. Le descrizioni che Pinel ci riporta per esemplificare questa specie di mania richiamano alla mente i casi di scissione di personalità o personalità multipla che cominceranno a svilupparsi dal XIX secolo in avanti[58].
Un uomo, un tempo dedito ad un’arte meccanica, ed ora rinchiuso a Bicêtre, presenta, ad intervalli regolari, accessi di furore […] l’alienato è dominato da un impulso sanguinario irresistibile; se riesce ad impadronirsi di uno strumento tagliente, è spinto a sacrificare, nell’accesso di furore, la prima persona che vede. Sotto altri aspetti, è pienamente padrone di sé, anche durante gli accessi; risponde in modo diretto alle domande che gli vengono rivolte, non mostra alcuna incoerenza delle idee, alcun segno di delirio; è conscio della sua situazione e ne è inorridito; è pieno di rimorsi, come se dovesse rimproverarsi questo impulso forsennato. […] A Bicêtre prova gli stessi accessi periodici di furore, gli stessi impulsi automatici ad atti atroci contro il sorvegliante, del quale non cessa di lodare le cure compassionevoli e la dolcezza. Questo conflitto interiore fra una ragione lucida e una crudeltà sanguinaria lo porta alla disperazione […][59].
La linea di demarcazione tra ragione e sragione, che lentamente aveva iniziato a delinearsi lungo il corso dell’età classica, perde la sua nitidezza al confronto con una diagnosi che non presenta, nella quotidianità, segni manifesti di follia. I maniaci senza delirio sono all’apparenza dotati di ragione e di tutte le facoltà intellettive e sensoriali che si attribuiscono alle persone normali, ma sotto la maschera della razionalità si cela una mania silente in grado di svilupparsi all’insaputa di tutti. Pinel cita a tal proposito uno spiacevole episodio occorso durante la Rivoluzione, durante il quale alcuni delinquenti penetrarono nell’ospizio degli alienati di Bicêtre con l’intento di liberare alcune vittime dell’antica tirannia. Ingannati dai «ragionamenti assennati e dagli amari lamenti» di uno degli internati, lo liberarono inveendo contro la crudeltà di chi aveva osato rinchiudere una persona a cui «non si poteva rimproverare il minimo atto di stravaganza»[60]. Se ne dovettero però ben presto pentire perché, innescato dallo spettacolo di tanti uomini armati e concitati, l’alienato «afferra con vigore la sciabola di un vicino, colpisce a destra e a sinistra, fa scorrere sangue, e se non si fosse immediatamente intervenuti per immobilizzarlo avrebbe vendicato cento volte l’umanità oltraggiata»[61].
La follia può esser quindi covata da individui all’apparenza del tutto normali, senza «nessuna alterazione manifesta nelle funzioni dell’intelletto, dell’immaginazione, della memoria, ecc.». La linea di demarcazione tra follia e normalità va ricercata su un altro livello: quello della perversione delle funzioni affettive e morali e questo «senza che si possa trovare alcuna idea dominante, alcuna illusione nell’immaginazione che sia la causa determinante di queste funeste inclinazioni»[62].
Oltre Manica, nel 1835, Prichard parla di follia morale (moral insanity) e del suo sinonimo di imbecillità morale, termini che hanno riscosso una certa fortuna anche in Italia, per riferirsi ad un tipo di follia che provoca lesioni della volontà e la conseguente incapacità di agire nel pieno possesso della proprie libertà morali. Nel 1861 Ulisse Trélat pubblica La folie lucide in cui parla di tutte quelle forme di semialienazione che non presentano sintomi produttivi evidenti. Secondo Dubuisson, i soggetti colpiti da questo tipo di follia «giudicano, ragionano e si comportano bene, ma sono trascinati dal motivo più irrilevante, spesso senza causa occasionale e solo per un’inclinazione irresistibile, e per una sorta di perversione delle affezioni morali, a degli eccessi maniacali, a degli atti ispirati da violenza, a delle esplosioni di furore»[63].
Manie sans délire, moral insanity, folie lucide sono tutti termini tesi a descrivere le figure che transitano in quel territorio di nessuno che si estende tra la mania delirante, la follia totale e il pieno possesso delle facoltà che contraddistingue la salute mentale.
«La pineliana manie sans délire viene esclusa dai territori della mania ed assegnata, alla pari di qualsiasi altra forma di follia parziale, all’ambito delle monomanie e della lipemania»[64]. Con Esquirol, saranno infatti le entità nosografiche della monomania affettiva o ragionante, della monomania istintiva e della lipemania a sussumere le caratteristiche della mania senza delirio. «La monomania è il tipo intermedio tra mania e lipemania; condivide con la lipemania la fissità e la concentrazione delle idee e con la mania l’esaltazione delle idee e l’attività mentale e fisica»[65].
Tra gli internati a S. Servolo con questa diagnosi c’è il contadino bellunese Cecchin Luigi, d’anni 34, entrato a S. Servolo nel luglio del 1893 per poi morirvi nel dicembre 1895. Al momento dell’ammissione del malato i documenti accompagnatori riportavano la diagnosi di melanconia con passaggio in follia ragionante, mentre nella diagnosi apposta sulla cartella clinica leggiamo monomania intellettuale.
Nello spazio riservato all’esame psichico, datato 28 luglio 1983 (giorno dell’ingresso a S. Servolo), così leggiamo:
L’ammalato dichiara che il proprio genitore era dedito alle bevande alcoliche così da portare l’ubriachezza fino a 15 giorni di seguito ed asserisce inoltre che egli abbia uccisa la moglie con un colpo di fucile. Ci fa sapere che lo sconcerto mentale data da circa tre anni e che è stato ricoverato per 25 mesi nell’Ospitale di Feltre. È individuo di buon umore, ha buona memoria tanto delle cose passate che delle presenti. Intelligenza sufficiente. Tende per altro a divagare nei suoi discorsi cosicché bisogna spesso richiamarlo all’argomento. Ha buoni sentimenti morali ed affettivi. È allucinato della vista, vede Iddio, lo Spirito Santo e la Beata Vergine. Le sue idee sono disordinate e si riferiscono più specialmente a cose spettanti al governo. Trapela qualche idea persecutoria specialmente da avvelenamento. Tintura alcolica di Nux Vomica gocce 12 al giorno
La foto apposta sulla cartella clinica mostra il bel volto di un giovane uomo dall’aria romantica, quasi a voler mostrare l’esistenza di una follia non più riconoscibile nella deformità e nella difformità. Luigi Cecchin ha infatti buona memoria, intelligenza sufficiente, buoni sentimenti morali e affettivi e per giunta anche un buon umore. La mania trapela solo attraverso le sue parole, specchio di idee persecutorie, e attraverso le allucinazioni visive. La natura delle idee persecutorie si fa più precisa nell’anamnesi:
Cecchin Luigi d’anni 34. Dal 90 diede segni di alienazione mentale. Inveiva contro la moglie producendole lesioni, apposta per renderla brutta, onde le sia fedele per forza. Ha idee che la moglie lo tradisca, lo avveleni, gli mescoli ai cibi una sostanza che spingendolo troppo spesso al coito lo indebolisce fino a farlo morire. Riconosce l’elemento ereditario.
L’idea persecutoria ha confini netti e delimitati, per il resto il malato ragiona. Si tratta quindi di una mania parziale, circoscritta a un determinato ordine di pensieri.
Accanto alla monomania l’altra importante categoria nosografica introdotta da Esquirol è la lipemania, una forma di malinconia con delirio, vale a dire una monomania caratterizzata da un delirio parziale e da una passione triste e oppressiva[66]. I due quadri clinici della lipemania e della monomania paiono esser distinti dal tipo di passione che fa da sottofondo al delirio parziale: una passione triste nel primo caso e gaia nel secondo. Anche il frate alienista di S. Servolo, Stefano Signorini, ammette che «quelli che maggiormente danno da pensare sono i malinconici e i monomaniaci; perché non avendo i primi disordinate le facoltà mentali, ma semplicemente depresse per l’accasciamento dell’animo; ed i secondi avendole solo disordinate in parte»[67].
Suddivise a livello teorico, monomania e lipemania si ritrovano alternate nella maggior parte delle cartelle cliniche dei maniaci senza delirio e dei monomaniaci di fine Ottocento. Nelle cartelle cliniche visionate la voce “indole del delirio”, riportata solitamente sotto le informazioni circa le cause dell’alienazione, sarebbe servita per far luce sulla tipologia del delirio, inteso come sentimento di fondo del delirare. Il più delle volte però, questa voce, come altre, non veniva compilata e nell’anamnesi il tono di fondo dell’alienazione era spesso oscillante.
In fin dei conti la notula accompagnatoria di Luigi Cecchin riportava una precedente diagnosi di melanconia. In effetti il delirio del Cecchin, seppur parziale, non ha i toni gai che vorrebbe la diagnosi di monomania, bensì cupi e persecutori. Così come nella storia anamnestica di Laner Giuditta, affetta da monomania con delirio erotico e vanitoso, leggiamo: «a tratti era inquieta, a tratti pregava […] talora era ciarliera, solare, languida»; e di seguito: «passava con facilità dal pianto al riso e ad accessi violenti se era contrariata». Anche la monomania religiosa per eredità del malato Alban Nicolò ha ben poco di gaio, forse per via dello scorbuto di cui portava fin dall’ingresso i segni. Alban Nicolò «è magro, macilento, color plumbeo, parla poco e sta concentrato […] discorrendo però pare che abbia anche idee di essere uomo ricco e d’avere diritto a farsi mantenere». Ecco il suo delirio. Inoltre «più volte al giorno gli piomba addosso la maledizione di Dio, che manifestasi a lui sotto forma di aria tormentosa». Anche l’ex cappuccino padre Crispino, monomaniaco intellettuale, pare non mostrare un’indole precisa del suo delirio; infatti è «ora tranquillo, ora eccessivamente allegro o immensamente afflitto».
Per indicare il pervertimento della facoltà affettive e degli istinti a volte veniva usata l’espressione “mania degli atti” o “delirio degli atti”, come nel caso di Catterina Deno, una villica di 36 anni dalla vita licenziosa e dissipata, che fu diagnosticata maniaca impulsiva con delirio degli atti. La Deno mostrava infatti una «tendenza irresistibile al furto. Istinto erotico prepotente. Pervertimento affettivo e morale», di contro si dimostrava «abbastanza logica nei suoi discorsi, sempre coerente». In questo caso a delirare sono gli atti, a pervertirsi sono gli istinti e gli affetti, specchio di un’impossibilità di disporre della propria volontà, e non le facoltà logico-intellettive.
Incatenato dalla forza delle passioni, trascinato dalla vivacità dei desideri e delle immagini, il folle diventa irresponsabile; e la sua irresponsabilità appartiene al giudizio medico, nella misura in cui risulta da un determinismo oggettivo. La follia di un atto si misura dal numero di ragioni che l’hanno determinata.
Ma la follia di un atto si giudica proprio dal fatto che nessuna regione può mai esaurirla[68].
L’innocenza del folle è garantita dalla natura morale della sua malattia. La volontà agisce in modo coatto, scollegata da qualsiasi filtro razionale, rivelandosi nella sua potenza originaria e terribile. «In sé, infatti, questo Male è dato nel cuore, perché il cuore, in quanto immediato, è naturale ed egoistico. Nella pazzia diviene dominante il genio maligno dell’uomo»[69]. La malattia morale, in quanto follia parziale riservata all’ambito degli affetti e della volontà, segnerà il passaggio dal giudizio sui fatti a quello sulle intenzioni, inaugurando così una nuova stagione della cultura giuridica moderna[70].
Oltre alle manie senza furore e alle monomanie, anche le lipemanie rientrano nel novero delle forme morbose che mantengono intatte le funzioni intellettive. Così Pinel descrive nel Traité la lipemania:
Delirio esclusivo su un oggetto, o su una serie particolare di oggetti; nessuna tendenza ad atti violenti se non quella che può essere inculcata da un’idea dominante o chimerica; per il resto, libero esercizio di tutte le facoltà dell’intelletto […][71].
In realtà il carattere di parzialità del delirio malinconico era teorizzato fin da Aristotele. Probabilmente per questo loro carattere di parzialità, già alla fine del XVII secolo si definiranno spesso come malinconia le follie senza delirio caratterizzate dall’inerzia, dalla disperazione e da una specie di cupo stupore[72].
Nonostante sia Pinel che l’allievo Esquirol, nelle loro nosologie, mantengano separate mania (con o senza furore) e malinconia, monomanie e lipemania, non mancano di rilevare come spesso l’una forma possa trapassare nell’altra e viceversa: «in genere le diverse specie di alienazione non restano sempre inevitabilmente le stesse, e così, per esempio, un’alienazione inquadrabile in una determinata specie può subire una certa trasformazione nel corso della vita, e ritrovarla allora classificata in un’altra specie»[73]. Entrambi vedono «l’oscillazione bipolare, pur avendo costruito una nosografia imperniata sulla parzialità e sull’unità del delirio, e non sulla sua molteplicità: cioè sui suoi mutamenti sia di forma che di contenuto»[74].
Tra le cartelle cliniche di S. Servolo che presentano una diagnosi di mania senza delirio si ritrova la stessa compresenza di stati esaltati e stati di afflizione; inoltre spesso le facoltà intellettuali risultano compromesse, quasi la mania senza delirio, nel corso della contenzione, si tramuti in demenza. L’esito demenziale della maggior parte delle diagnosi non viene collegato dai medici dell’epoca alla dinamica iatrogenetica indotta dalla struttura manicomiale, bensì a una evoluzione naturale dell’alienazione. Anche le facoltà intellettive, inizialmente intatte e ben funzionanti nelle diagnosi prese in esame, con la permanenza nei frenocomi si degradano e ai medici non resta che constatare l’evoluzione demenziale della malattia.
Mania e malinconia si ritrovano quindi apparentate e commiste nelle manie senza delirio, così come nelle monomanie e nelle lipemanie. Bisognerà attendere l’allievo di Esquirol, Jean-Pierre Falret (1794-1870), per veder sorgere una nuova diagnosi che tenga conto della dinamicità delle forme morbose. In un articolo apparso nel 1851, Falret parla dell’esistenza di una folie circulaire, una follia che evidenzia l’appartenenza di malinconia e mania a un’unica entità patologica, demolendo in questo modo il concetto esquiroliano di monomania e introducendo l’evoluzione temporale all’interno della diagnosi. Più o meno negli stessi anni, nel 1854, anche Jules Baillarger (1809-1890), medico a Charenton, alla Salpêtrière e a Ivry, parla a tal proposito di folie à double forme e in seguito Magnan deriverà da queste concezioni quella di follia intermittente.
Sebbene generalmente si faccia risalire a Falret e Baillarger la genesi del moderno concetto di bipolarità, le sue caratteristiche erano già state osservate nell’alienistica nascente e non solo: «[s]i tratta […] di una sindrome costantemente e ripetutamente registrata, dall’antichità fino ai nostri giorni, ma anche all’interno di culture non occidentali, come ad esempio quella giapponese»[75].
Già nella seconda metà del XVIII secolo, con Willis, ci fu la scoperta dell’alternanza mania-malinconia nel medesimo individuo, a testimonianza della stretta affinità tra le due specie morbose. Flaschar ha dimostrato che il concetto di oscillazione bipolare è già presente nel Corpus Hippocraticum[76] e in seguito anche in Areteo di Cappadocia. Foucault constata a tal proposito la «resistenza di alcuni temi maggiori che, essendosi formati molto prima dell’epoca classificatoria, sussistono quasi identici e quasi immobili fino all’inizio del XIX secolo»[77]; si tratta di alcune forme massicce, poco numerose ma molto estese, che con la loro presenza vanificano in ogni momento l’attività classificatoria[78].
L’introduzione della diagnosi di mania circolare nel contesto veneziano avviene solo dopo la morte di Salerio (1877). Tra le cartelle cliniche dei maniaci senza furore la maggior parte sarebbe potuta benissimo rientrare tra le manie circolari. La cartella clinica di Gherardi Luigi, entrato a 52 anni a S. Servolo nel 1883 e morto nello stesso manicomio nel 1902, per apoplessia cerebrale, è esemplificativa a tal proposito.
Al sensale vicentino Luigi Ghirardi viene fatta una diagnosi frenopatica di «mania senza delirio a forma di megalomania riferita alla intelligenza», probabilmente per via del fatto che «si crede un gran letterato, poeta, stenografo; crede tutto facile specialmente quanto riguarda la conoscenza delle lingue, le quali dice di saper apprendere in brevissimo tempo». Per i medici, nell’insieme, Luigi Gherardi si presenta come «un uomo abbastanza istruito con dei buoni principi» se non fosse dominato dall’ideé fixe di «possedere quanto si riferisce allo scibile umano e di potere attuare qualsivoglia lavoro riferibile all’intelligenza». Nella sezione dedicata all’andamento della malattia e cura della sua cartella clinica leggiamo:
… 1887. Come per l’addietro preso dai periodi di esaltamento maniaco accompagnato sempre dal delirio di grandezza e susseguito da un periodo breve di calma e in un altro di depressione mentale. In questo stato si trova avvilito, melanconico, senza parola e dichiarante che è ammalato e si sente male. Conserva sempre ottima memoria, facile intelligenza.
9 maggio 1898. Per tre mesi è stato in preda al solito periodo di agitazione. Da 2-3 dì comincia, dice, a sentirsi debole e quindi ad essere più depresso, a sorridere, ma a farsi povero di parole. Effettuandosi quello che disse quando era esaltato: “parlo molto adesso per supplire al silenzio che dovrò custodire più tardi”
25 sett. 1899. Ha avuto i soliti periodi di agitazione poi di malinconia alternanti di tre mesi in tre mesi. Dopo tre mesi di depressione psichica … ha cominciato ad esaltarsi ed ora trovasi nel vero stato di concitamento maniaco. Parla sempre ad alta voce, ride, scherza, ha delle pretese, molesta i compagni, non è capace di star fermo un istante.
Il domestico padovano Gaetano Dozzi, la cui malinconia si tramuterà presto in demenza, presenta una varietà di sintomi notevoli che vanno dalla malinconia, alla mania, alla demenza e infine al sospetto di imbecillità. Nello spazio riservato all’andamento e cura della malattia i medici, tra il 1867 e il 1908, così registrano i segni dell’alienazione di Dozzi:
- Novembre: niente di nuovo e nulla si può sperare di meglio, sarebbe un giovane di casa di vecchi rimbambiti, atti veramente maniaci non ne commette, è incapace di tutto […] e si lagna e dice anche che è stanco di vivere “come mio padre”, dice egli, “anch’egli era stanco di vivere ed io poi sono un infelice peggio di lui”
- Febbraio: […] è un povero demente con dei momenti di concitazione. Diviene cupo […]
Maggio: è un povero semistupido, con delle esacerbazioni maniache, esaltamenti ricchi di gesti, di parole senza senso, di gesticolazioni, d’inquietudine; quando è in questo stato di esaltamento, rifiuta il cibo, lo getta via, grida, allora dice di voler fare la fine di suo padre […]
Giugno: siamo sempre a quel ritornello, o stupido o ciancioso ed inquieto. […]
- passò tutto l’anno ugualmente, per lo più in uno stato di demenza, in tutto l’anno non ebbe che tre volte accessi maniaci passeggeri, del resto è istupidito, di poche parole, inerte, pigro, incapace d’attenzione e di raziocinio, incapace d’occupazione […]
- ai primi dell’anno ebbe un accesso maniaco anche intenso, è allora che parla, che grida, che zufola e che anche manifesta certa qual irascibilità, dopo l’accesso poi rimane abbattuto e prostrato, quindi ritorna all’abituale stato di demenza.
Bisognerà attendere la sistematizzazione di Emil Kraepelin e la diagnosi di psicosi maniaco-depressiva, introdotta nel 1896, perché mania e malinconia vengano affiancate in un’unica entità nosografica.
Questo nella teoria, ma a livello di osservazione clinica, attraverso la lettura delle cartelle, notiamo come l’alternanza di mania e malinconia o di eccitamento e depressione sia presente in moltissimi resoconti, indipendentemente dal tipo di diagnosi assegnata. È come se «l’alienista [riuscisse] a vedere, molto prima di Krepelin, di Bleuler e di Minkowski, ciò che la sua dottrina non poteva ancora sistemare in un quadro teorico stabile e coerente»[79].
Una posizione diversa e spesso trascurata, ma estremamente interessante per comprendere la posta in gioco nella diagnosi di mania senza delirio è quella Moreau de Tours (1804-1884), che nel 1845 pubblica il volume intitolato Du haschisch et de l’aliénation mentale in cui descrive i risultati ottenuti sperimentando su se stesso gli effetti dell’haschisch, scoperti durante un viaggio in Oriente compiuto tra il 1837 e il 1840. L’uso delle droghe in campo medico era già dal XIX secolo (dal 1840-45) pratica diffusa e frequente, anche se non costante in assoluto, e prevedeva la somministrazione di etere, nitrato di amile, cloroformio, oppio[80] e laudano per scopi disciplinari all’interno dei manicomi. Il fattore che rende determinante l’esperienza di Moreau de Tours risiede nel fatto che si tratta di una ricerca svolta in prima persona dal medico francese, con l’obiettivo di comprendere la natura dei disordini mentali degli alienati.
La sperimentazione di Moreau de Tours è resa possibile proprio da questo nuovo orizzonte di senso della follia senza delirio e della follia morale. Grazie alle sue ricerche però scopre come, al contrario di quanto sostenuto principalmente da Pinel ed Esquirol, non siano le facoltà affettive ad esser lese nelle monomanie, bensì «soltanto l’intelletto è essenzialmente leso nella follia morale; il disordine degli affetti è conseguente al disordine dei pensieri»[81]. Il dispotismo degli affetti è conseguente a un disordine dell’intelletto, tale da raggiungere l’incoerenza; allentati i lacci dell’intelletto e della volontà, le sfere d’influenza si ribaltano e «gli affetti hanno sull’intelligenza un dominio assoluto, proprio perché la loro azione si esercita isolatamente, senza i contrappesi che, nello stato normale, la riflessione sempre gli oppone»[82]. La lesione degli affetti, considerata causa della follia morale, è per Moreau de Tours in realtà solo «apparente e conseguente a quella dell’intelletto»[83]. Di conseguenza «la lesione della volontà, l’irresistibilità delle determinazioni istintive senza una lesione dell’intelletto, è una chimera»[84].
La follia morale non è altro che una disaggregazione e non un delirio dell’istinto:
[è] una disaggregazione, una vera dissoluzione di quel composto intellettuale che chiamiamo facoltà morali: poiché in questo stato si avverte che nello spirito succede qualcosa di analogo a ciò che avviene quando un corpo qualunque subisce l’azione dissolvente di un altro corpo. Il risultato, nell’ordine spirituale e in quello materiale, è lo stesso: la separazione, l’isolamento delle idee e delle molecole la cui unione formava un tutto armonioso e completo[85].
Finché l’unità dell’io non viene annichilita, finché la coscienza intima non viene estinta, seppur per breve periodo, si è perfettamente padroni dei propri movimenti istintivi. Affinché il libero arbitrio venga momentaneamente annientato, deve sopraggiungere una lesione primitiva e profonda dell’intelletto da cui derivano tutti i fenomeni dell’alienazione mentale. Si tratta del «fatto primordiale della follia: l’eccitazione»[86] che, sia che venga innescata dall’uso di sostanze sia che abbia cause morbose, scuote violentemente l’intelletto. Quest’ultimo si trova, a causa dell’eccitazione, in uno stato di dissociazione e incoerenza di idee che permette all’immaginazione e alla memoria di emergere incontrollate e consegnare così il soggetto ai suoi impulsi, facendolo agire «senza sapere ciò che fa, senza che gli sia possibile rendersene conto, macchinalmente, come se, infine, obbedisse ad un sogno, secondo l’espressione generalmente usata tra i malati»[87].
Per Moreau de Tours, quindi, il meccanismo che interviene per spiegare la follia (artificiale o naturale) è il medesimo che ritroviamo nel sogno:
Sembra dunque che all’uomo siano stati dispensati due modi di esistenza morale, due vite. La prima di queste due esistenze risulta dai nostri rapporti col mondo esterno, con quel grande tutto che chiamiamo universo; la abbiamo in comune con gli esseri simili a noi. La seconda, invece, è solo il riflesso della prima e si alimenta, in qualche modo, unicamente dei materiali che la prima fornisce, restandone tuttavia perfettamente distinta. Il sonno è come una barriera innalzata tra le due, il punto fisiologico in cui finisce la vita esteriore e comincia quella interiore[88].
Nella follia è come se questa barriera costituita dal sonno fosse permeabile e aperta in più punti, permettendo così l’irruzione dei meccanismi del sogno nella veglia. Per questo Moreau de Tours può affermare che «tra l’uomo alienato e quello ragionevole – mi riferisco a due stati dello stesso individuo – esiste la stessa differenza che c’è tra l’uomo che sogna e quello che è sveglio»[89]. Ecco istituito il parallelismo che consentirà di collocare il sogno tra la veglia e la follia e di considerarlo quale principio di intelligibilità di quest’ultima: dal momento che il medico può sognare può anche comprendere la follia e lo svolgimento dei suoi deliri[90]. La psicologia dinamica e il suo terreno d’indagine trovano quindi in Moreau de Tours e nella possibilità di penetrare la struttura del delirio un momento fondamentale del loro sviluppo. L’ascolto del folle e la possibilità di penetrare i suoi deliri prepara senza dubbio quella cura della parola e quell’attenzione al mondo onirico e inconscio che da Freud in avanti conoscerà una crescente fortuna, sebbene il parallelismo tra sogno e follia sia assai antico[91].
Un folle non si sbaglia mai. Agisce intellettualmente in una sfera essenzialmente differente dalla nostra, da quella “in qua movemur et sumus”. In quanto alienato, egli ha una convinzione contro la quale né la ragione altrui né la sua propria, sapranno prevalere; non più di quanto nessun ragionamento, nessun pensiero dello stato di veglia sapranno riorientare i ragionamenti ed i pensieri dello stato di sogno[92].
Il folle vive come in un sogno durante la veglia, proprio come è stato possibile sperimentare a Moreau de Tours negli stati di intossicazione da haschisch.
Il filone di pensiero inaugurato da Moreau de Tours verrà ripreso da Pierre Janet, che farà suo il concetto di disaggregazione mentale per spiegare come possa subentrare quell’automatismo tipico degli alienati e degli isterici.
Questo concetto però non avrà fortuna al di là di Janet e di pochi altri autori e la spiegazione cui si darà maggior credito nell’ambito della psichiatria ottocentesca rimarrà quella che attribuiva ai disordini della volontà e delle passioni l’origine della malattia mentale.
Attraverso la diagnosi di mania senza delirio fino a quella di follia morale si è maturato un passaggio fondamentale che ha coinvolto la natura stessa del delirio: nella follia morale è l’istinto a delirare. Non si tratta più di una questione di ragione e sragione, bensì di volontario e involontario. La grande preoccupazione degli alienisti della prima metà dell’Ottocento di accertare la follia quando non vi è traccia di delirio si capovolge, nella seconda metà del secolo, nella ricerca delle perturbazioni della volontà che possono permettere di comprendere la formazione del delirio[93].
Nell’arco di tempo coperto dalle cartelle prese in esame è possibile vedere questo passaggio linguistico e concettuale che da indagine sui dirottamenti della ragione diviene ispezione delle perversioni del senso morale e della volontà. Ma in tutto questo scandaglio nei territori della devianza, ciò che permane è il sentimento d’inquietudine di uno sguardo medico che per essere riconosciuto scientificamente e socialmente è costretto a scotomizzare e a dimenticare aspetti di un’umanità dolente e recalcitrante.
Riprendendo un’espressione a mio avviso felice usata da Judith Kasper, alla fine di questo spoglio ciò che rimane sono soprattutto gli “effetti a posteriori” della lettura delle cartelle cliniche[94], simili all’impressione di un incontro fugace e inaspettato. Tracce brevi e scarne di esistenze infami destinate all’oblio e all’anonimato se non fosse per questi documenti che contengono «[v]ite di qualche riga o di qualche pagina. Vite brevi, incontrate a caso in un libro o in un documento. […] Vite singolari, divenute, per non so quale caso, strani poemi»[95].
Oltre a ciò, per quanto riguarda la lettura delle cartelle cliniche delle manie parziali, cui abbiamo fatto cenno in questo articolo, ciò che permane è un senso di disagio e di inquietudine, derivante dalla sensazione di aver assistito a una forzatura. Una forzatura tipica di un sapere che si investe della capacità di nominare e che si oppone all’eccezione delinquente, eretica o malata[96]. La pervicacia nell’applicazione della terminologia psichiatrica assume a volte tratti grotteschi, altri tragicomici, altri solamente tragici. Come nel caso del giovane falegname Basato Antonio, diciassettenne diagnosticato malinconico, per la precisione affetto da «malinconia con stupore per onania». Il compendio storico della malattia basta da solo a mostrare la scotomizzazione dello sguardo dell’alienista, troppo preso a ispezionare le piaghe da decubito del ragazzo, a misurare il suo appetito e a infastidirsi per i suoi strazianti lamenti, per vedere la sofferenza di un ragazzo rimasto orfano in una condizione di miseria, solitudine e scampato a stento dalla morte pochi giorni prima di arrivare a S. Servolo:
Arrivò un vero cadavere, una mummia ossa e pelle ed anche questa ulcerata da ogni parte e specialmente al sacro per decubiti; pallido, cereo, bisognò portarlo dalla barca all’infermeria, piangeva e strillava dirottamente facendo un piagnisteo continuo. Chi lo condusse disse che erano appena pochi giorni che gli avevano fatta l’agonia. […]
È sempre quel continuo piagnucolare, ma non vuol parlare, dico non vuole perché se qualche suo compagno viene a ritrovarlo con questi qualche parola pare risponde e si arrivò a fargli prendere il tamarindo. […]
Beve volentieri il caffè, mangia anche volentieri qualche cucchiaio di risotto […] e frittura, beve anche volentieri un po’ di Cipro ma non dimette quel piagnisteo continuo che fa tanta pena anche agli altri ammalati che lo pregano di far di meno.
[…] In pochi giorni un deperimento grave e fatale, di sentimenti però sempre buoni come lo furono sempre, per quell’inquietudine incontenibile gli si applicano vescicanti al petto ed alle braccia ma non giovarono perché egli si leva la medicazione. […]
Il giorno 4 pareva star meglio, venne visitato da un fratello e da amici e si mostrò contento parlando con sensatezza, mangiò qualche pasta dolce che gli portarono […] preso da delirio cessò di vivere.
Probabilmente però l’alienista di S. Servolo non poteva vedere quel che noi oggi cogliamo, proprio perché la nozione odierna di malattia mentale stava emergendo in quegli anni e proprio da quelle manie senza delirio che tanto attraevano l’attenzione degli psichiatri: la «convivenza contraddittoria, quasi impossibile, apparentemente assurda, tra un’idea fissa, gli stati emotivi che ne dipendono, ed una vita psichica che su tutto il resto funziona normalmente»[97] costituiva una sorta di scandalo concettuale.
La parzialità della follia, il fatto cioè che lo smarrimento delle facoltà razionali non è mai totale o lo è temporaneamente come nell’attività onirica, è il cardine terapeutico che consente la restituzione al folle della sua dignità di soggetto, vale a dire la sua libertà morale e il suo libero arbitrio. «Proprio come la malattia non è la perdita completa della salute, così la follia non è “perdita assoluta della ragione”, ma “contraddizione nella ragione che esiste ancora”, e quindi “la cura umana, cioè benevola e ragionevole, della follia … presuppone il malato ragionevole e trova un punto solido per prenderlo da questo lato”»[98]. Non solo. In questo passaggio dalla mania come follia totale, alla follia parziale e ragionante, si crea uno sdoppiamento – interiore ed esteriore – in cui si gioca la soggettività e quindi lo spazio per una profondità accessibile alla parola e allo sguardo: la mania senza delirio, «più di ogni altra malattia mentale, […] manifestava questa curiosa ambiguità, per cui la follia diventa un elemento dell’interiorità che assume la forma dell’esteriorità»[99].
Di conseguenza il mandato della cura cambia e diviene quello di una ricerca nei livelli nascosti, di un accesso allo strato profondo e interiore, dove si gioca la verità di una follia finalmente dicibile, perché percepibile in un’esteriorità che è espressione a sua volta della soggettività. La mania parziale diviene così il modello per ogni psicologia possibile in quanto mostra, al livello percepibile dei corpi, delle condotte, dei meccanismi e dell’oggetto, il momento inaccessibile della soggettività[100].
Stiamo assistendo alla nascita di una nuova struttura dell’esperienza, che vedrà sorgere una nuova famiglia di malattie, le psiconevrosi, che sullo scorcio del XX secolo diventeranno il nuovo oggetto di accanimento degli psicopatologi. Ciò non sarebbe probabilmente avvenuto senza tutto il lavoro preparatorio fatto sulle follie ragionanti o manie senza delirio (monomanie, follie circolari, lipemanie, follie morali). Sono queste ultime, assieme alla concomitante espulsione dell’isteria dal campo delle turbe neurologiche, a costituire quell’oggetto-crocevia[101] sul quale si concentreranno una serie di pratiche che andranno di lì a poco a rivoluzionare lo statuto del soggetto. Le manie senza delirio sono quindi quella specie diagnostica intermedia che ha permesso il passaggio verso le psiconevrosi e di conseguenza verso nuove pratiche di accesso al soggetto, alla sua nuova interiorità inconscia.
Bibliografia
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[1] M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, Gallimard, Paris, 1972, trad. it. di F. Ferrucci, M. Galzigna con la collaborazione di B. Catini, Storia della follia nell’età classica, nuova edizione a cura di M. Galzigna, BUR, Milano, 2011, p. 382.
[2] I. Hacking, Mad Travelers: Reflections on the Reality of Transient Mental Illness, University of Virginia, 1998, trad. it. di A. Marino, I viaggiatori folli. Lo strano caso di Albert Dadas, Carocci, Roma, 2000, p. 14.
[3] I contributi di questo volume si inseriscono nel solco delle ricerche sugli archivi degli ex-manicomi sviluppate a partire dal progetto Carte da legare, varato nel 1999 dall’Ufficio centrale beni archivistici. Tra questi lavori segnaliamo: A. Scartabellati, L’umanità inutile. La questione follia in Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento e il caso del manicomio centrale di Cremona, Franco Angeli, Milano, 2001. V. Fiorino, Matti indemoniate e vagabondi. Dinamiche di internamento manicomiale tra Otto e Novecento, Marsilio, Venezia, 2002. L. Rosconi, Il governo della follia. Ospedali, medici e pazzi nell’età moderna, Bruno Mondadori, Milano, 2003. R. Panattoni (a cura di), Lo sguardo psichiatrico. Studi e materiali dalle cartelle cliniche tra Otto e Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2009.
[4] I. Hacking, Mad Travelers: Reflections on the Reality of Transient Mental Illness, trad. it. cit., p. 11.
[5] Cfr. M.S. Micale, On the “Disappearance of Hysteria”. A Study in the Clinical Deconstruction of a Diagnosis, in Iris, n. 84, 1993, pp. 496-526 e P. Barbetta, I linguaggi dell’isteria. Nove lezioni di psicologia dinamica, Bruno Mondadori, Milano 2010.
[6] Si segnalano in particolare Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France 1973-1974 e Les anormaux. Cours au Collège de France 1974-1975, entrambi pubblicati in italiano da Feltrinelli.
[7] M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, trad. it cit., pp. 707-708.
[8] Ivi, p. 708.
[9] Ivi, pp. 721-722.
[10] Cfr. Ivi, pp. 361-362.
[11] Ivi, p. 505.
[12] Cfr. A. Pirella, Il problema psichiatrico, Centro di documentazione, Pistoia 1999.
[13] Cfr. M. Gillio, La popolazione manicomiale in Italia dall’Unità alla Grande Guerra, in C. Montaldo, P. Tappero (a cura di), Cesare Lombroso cento anni dopo, UTET, Torino, 2009, p. 100.
[14] Relazione statistica del manicomio centrale maschile in S. Servolo in Venezia del quadriennio 1877-80, Tipografia municipale di Gaetano Longo, Venezia, 1881, p. 12.
[15] L’assistenza familiare ai malati di mente venne sostenuta durante l’inchiesta sui manicomi italiani, condotta da Cesare Lombroso e Augusto Tamburini nel 1891 in vista di una futura riforma volta a far fronte allo stato di sostanziale degrado in cui versavano i manicomi italiani (Cfr. R. Canosa, Storia del manicomio in Italia dall’Unità ad oggi, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 199). Tra le problematiche ravvisate dall’inchiesta vi era quella dell’accumulo enorme e sempre crescente di pazzi; tra questi, quelli buoni, tranquilli e idioti, si sarebbero potuti collocare – secondo Lombroso e Tamburini – presso la propria o l’altrui famiglia dietro elargizione di sussidi. (Cfr. ivi, pp. 100-102).
[16] Cfr. R. Canosa, Storia del manicomio in Italia dall’Unità ad oggi, op. cit., p. 200.
[17] A. Tamburini, L’inchiesta sui manicomi nella provincia di Venezia e la legge sui manicomi, in «Rivista sperimentale di freniatria», 1902, p. 724.
[18] Cfr. V.P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 19.
[19] Case del dolore fu un’espressione usata dallo scienziato e divulgatore Paolo Lioy in un articolo apparso in prima pagina sul “Corriere della sera” nel dicembre del 1902.
[20] Cfr. contributo di questo volume di Elena ?
[21] Sulla considerazione della cartella clinica alla stregua di un testo narrativo rimando ai contributi di J. Kasper, Scrittura, rappresentazione, transfert. Che cosa vuol dire leggere delle cartelle cliniche, in R. Panattoni ( a cura di), Lo sguardo psichiatrico. Studi e materiali dalle cartelle cliniche tra Otto e Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2009; V. Fiorino, I segni lombrosiani alla prova della follia, in S. Montaldo, P. Tappero, Cesare Lombroso cento anni dopo, op. cit., pp. 313-322.
[22] M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France 1973-1974, trad. it. cit., p. 235.
[23] Ibidem
[24] M. Foucault, Le puovoir psychiatrique. Cours au Collège de France 1973-1974, Suil/Gallimard, 2003, trad. it. di M. Bertani, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano, 2004, p. 231.
[25] M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, trad. it. cit., p. 717.
[26] «A quell’epoca la psichiatria, così ricca di ipotesi biologiche, assomigliava molto alla neurologia. Non che ciò avesse molta importanza nell’esercizio privato della professione ma, in assenza di esami che dessero la qualifica di psichiatra o di neurologo, un medico era ciò che si definiva. In pratica, “psichiatra” o alienista era colui che aveva trascorso molto tempo in un ospedale psichiatrico, e “neurologo” – in origine il termine stava ad indicare uno specialista della neuro-anatomia – chiunque avesse svolto il tirocinio in patologia generale o in medicina interna. […] fin dall’inizio, il trattamento delle malattie psiconevrotiche ebbe uno stampo decisamente neurologico. Freud, Janet e Charcot, i grandi nomi della ricerca sull’isteria, erano tutti neurologi». E. Shorter, trad. it. cit., p. 132.
[27] Il manicomio di S. Servolo dal 1 gennaio al 31 dicembre 1885. Rapporto sanitario all’onorevole consiglio di amministrazione dei manicomi centrali in Venezia, Prem stab. tipo-litografico dell’emporio, Venezia, 1886, p. 10.
[28] Cfr. A. Scartabellati, L’umanità inutile. La questione follia in Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento e il caso del manicomio centrale di Cremona, Franco Angeli, Milano, 2001.
[29] M. Galzigna, La malattia morale, op. cit., p. 19.
[30] Cfr. E. Valtellina, Il tempo della degenerazione. Tracce per un’archeologia della neurodiversità, in P. Barbetta (a cura di), L’avventura della differenze. Sistemi di pensiero e pratiche sociali, Liguori, Roma, 2011.
[31] A. Pintus, C. Maggini, Disturbi di personalità: storia di un concetto, in Noos, n. 2 , 2001, pp. 75-88.
[32] Cfr. G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, PUF, Paris, 1966, trad. it. di M. Porro, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino, 1988.
[33] Sin dall’antichità la follia era considerata una malattia di origine naturale. La novità vera non consisteva nella cura della follia bensì nel delegare questa cura a una nascente categoria di medici, gli psichiatri, conseguente alla progressivo distanziamento da una visione olistica della cura e della salute. Cfr. L. Roscioni, Il governo della follia. Ospedali, medici e pazzi nell’età moderna, op. cit., pp. 218 sgg.
[34] M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, trad. it. cit., p. 714.
[35] M. Ghidoni, Adele B. Un caso di allucinazioni, in R. Panattoni (a cura di), Lo sguardo psichiatrico, op. cit., p. 181.
[36] Tra il 1775 e il 1778 si diffusero gli studi del teologo svizzero Jean Gaspard Lavatier sulla fisionomia e raccolti nei Physiognomische Fragmente, che ridiedero nuovo vigore alla fisiognomica.
[37] J.E.D. Esquirol, Des maladies mentales, Bruxelles, 1938, t. II, p. 19, cit. in M. Galzigna, La malattia morale, op. cit., p. 144
[38] Ibidem
[39] Cfr. Ivi, p. 147.
[40] Cfr. ivi, p. 150-151.
[41] Ivi, pp. 141-142.
[42] A. Verga, Dei nomi da applicarsi alla pazzia e alle principali sue specie, Archivio italiano per le malattie nervose e più particolarmente per le alienazioni mentali, Milano, 1876.
[43] A. Livi, cit. in A. Pirella, La psichiatria ridefinita, in C. Castelfranchi, P. Henry, A . Pirella, L’invenzione collettiva. Per una psicologia della riabilitazione nella crisi della psichiatria istituzionale, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1995, p. 10.
[45] M. Galzigna, La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna, Marsilio, Venezia, 1988, p. 79.
[46] Ibidem
[47] Cfr. M. Galzigna, “Gli infortuni della libertà”, in É.-J. Georget, Discussion médico-légal sur la folie ou aliénation mentale, suivie de l’examen du procès criminel d’Henriette Cornier, et de plusieurs autres procès dans lesquels cette malàdie a été alléguée comme moyen de défense, Paris, Chez Migneret, 1826, trad. it. e cura di M. Galzigna, Il crimine e la colpa. Discussione medico legale sulla follia, Mimesis, Milano, 2008, pp. XXXII sgg.; M. Foucault Histoire de la folie à l’âge classique, trad. it. cit., pp. 719 sgg.
[48] Areteo di Cappadocia fornì una così dettagliata descrizione della follia da meritarsi l’appellativi di lontano precursore di Kraepelin. (Cfr. A. Giannelli, Follia e psichiatria. Crisi di una relazione, Franco Angeli, Milano 2007).
[49] Questi autori si occupano di follia nell’ambito della teoria umorale ippocratica, trattandola come un’affezione organica del cervello nel quale risiedono le facoltà animali (immaginazione, discorso, memoria). Questi autori rimasero il punto di riferimento ben oltre il XVII secolo. Cfr. L. Roscioni, Il governo della follia, op. cit., p. 224 sgg.
[50] Cfr. M. Galzigna, “Gli infortuni della libertà”, in É.-J. Georget, Discussion médico-légal sur la folie ou aliénation mentale, suivie de l’examen du procès criminel d’Henriette Cornier, et de plusieurs autres procès dans lesquels cette malàdie a été alléguée comme moyen de défense, trad. it. cit., p. XIII sgg
[51] M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, trad. it. cit., p. 405.
[52] Ivi, p. 303.
[53] T. Sydenham, Dissertation sur la petire vérole. Médicine pratique, citato in ibidem.
[54] Cfr. M. Galzigna, La malattia morale, op. cit., p. 87.
[55] Ph. Pinel, Traité médico-philosophique sur l’aliénation mentale ou la manie. Avec figures représentant des formes de crâne ou des portraits d’aliénés, chez Richard, Caille et Ravier, An IX (ottobre 1800), II edizione 1809, trad. it. di F. Fonte Basso, La mania. Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale, a cura di F. Fonte Basso e S. Moravia, Marsilio, Venezia, 1987. Prima di questa traduzione, nel 1985, era stata pubblicata una silloge della seconda edizione del Traité, tradotta e curata da Giuliana Kantzà per l’editrice ETS di Pisa.
[57] Ph. Pinel, Traité médico-philosophique sur l’aliénation mentale ou la manie, trad. it. cit., p. 104.
[58] Per una trattazione del tema della personalità multipla rimando al bellissimo saggio di Ian Hacking, Rewriting the Soul. Multiple Personality and the Sciences of Memory, Princeton University Press, Princeton, NJ 1995, trad. it. La riscoperta dell’anima. Personalità multipla e scienze della memoria, Feltrinelli, Milano 1996.
[59] Ph. Pinel, Traité médico-philosophique sur l’aliénation mentale ou la manie, trad. it. cit., p. 105.
[60] Ivi, p. 106.
[61] Ibidem
[62] Ibidem
[63] Dubuisson cit. in M. Foucault, Histoire de a folie à l’âge classique, trad. it. cit., p. 720.
[64] M. Galzigna, La follia morale, op. cit., p. 108.
[65] Monomanie, Dict. Des sci. Med., vol. 34, p. 115.
[66] J.E.D. Esquirol, Des maladies mentales, p. 200, cit. in M. Galzigna, La malattia morale, op. cit., p. 113.
[67] Rapporto sanitario 1882
[68] M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, trad. it. cit., p. 715.
[69] G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Heildeberg, 1817,trad. it. di F. Valagussa, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Bompiani, Milano, 2000, par. 408, supplemento, p. 687.
[70] Rimando a J.-É., Georget, Discussion médico-légal sur la folie ou aliénation mentale, suivie de l’examen du procès criminel d’Henriette Cornier, et de plusieurs autres procès dans lesquels cette malàdie a été alléguée comme moyen de défense, trad. it. cit.
[71] Ph. Pinel, Traité médico-philosophique sur l’aliénation mentale ou la manie tr. it. cit., p. 103.
[72] M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, trad. it. cit., pp. 403-404.
[73] Ph. Pinel, Traité médico-philosophique sur l’aliénation mentale ou la manie trad. it. cit., p. 116.
[74] M. Galzigna, La malattia morale, op. cit., 108.
[75] Ivi, p. 107.
[76] H. Flashar, Melancholie und Melancholiker in den medizinischen Theorien der Antike, Berlin, W. De Gruyter, 1966, cit. in ibidem.
[77] M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, trad. it. cit., p. 315.
[78] Cfr. ivi, pp. 315-316.
[79] Ivi, p. 101.
[80] Durante il XVIII secolo venivano usate preparazioni a base di oppio per sospendere gli accessi maniacali di furore e ristabilire l’ordine delle idee. Tra gli oppiacei più diffusi ricordiamo l’oppio, la datura, la belladonna, il giusquiamo, l’aconito.
[81] J.J., Moreau de Tours, Du hachisch et de l’aliénation mentale, Librarie De Fortin, Masson et C.ie, Paris 1845, trad. it. L’hachisch, Sensibili alle foglie, Roma 1996, p. 90.
[82] Ivi, p. 88.
[83] Ibidem
[84] Ivi, p. 94.
[85] Ibidem
[86] Ivi, p. 95
[87] Ibidem
[88] Ivi, p. 85.
[89] Ivi, p. 86.
[90] Ivi, p. 247.
[91] M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, trad. it. cit., p. 366 e sgg.
[92] Ivi, p. 86.
[93] Cfr. M. Foucault, Les anormaux. Cours au Collège de France, 1974-1975, Seuil/Gallimard, Paris, 1999, trad. it. di V. Marchetti e A. Salomoni, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano, 2000, p. 143
[94] J. Kasper, Scrittura, rappresentazione, transfert. Che cosa vuol dire leggere delle cartelle cliniche, in R. Panattoni ( a cura di), Lo sguardo psichiatrico. Studi e materiali dalle cartelle cliniche tra Otto e Novecento, op. cit., p. 63.
[95] M. Foucault, La vie des hommes infâmes, in Dits et écrits, Paris, Gallimard, 1994, vol. III, pp. 237-255, trad. it. di G. Zattoni Nesi, La vita degli uomini infami, Il Mulino, Bologna, 2009, pp. 8-9.
[96] M. de Certeau, La scrittura dell’altro, a cura di S. Borutti, R. Cortina Editore, Milano, 2005, p. 70.
[97] M. Galzigna, La malattia morale, op. cit., p. 125.
[98] M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, trad. it. cit., p. 715. In questo passo Foucault cita Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, par. 408, supplemento, trad. it. cit., p. 687.
[99] Ivi, p. 721.
[100] Ibidem
[101] Cfr. M. Gauchet, L’inconscient cérébral, Éditions du Seuil, Paris, 1992, trad. it. di V. Gianolio, L’inconscio cerebrale, Il Melangolo, Genova, 1994.
[cite]
tysm review
vol. 24, issue no. 24
may 2015
ISSN: 2037-0857
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