philosophy and social criticism

Georges Didi-Huberman: «La potenza politica delle lacrime»

 In questa intervista, Georges Didi-Huberman spiega le tesi centrali del suo ultimo libro, in cui le lacrime e il pianto vengono sottratte all’universo privato e al mondo dell’impotenza in cui i nostri sistemi di pensiero le hanno generalmente rinchiuse[1]. Didi-Huberman rimette in questione l’idea ricevuta che piangere davanti agli altri, magari riuniti in comunità, sia un gesto condannato a restare politicamente fragile. Per sfatare questo luogo comune Didi-Huberman esplora i «campi di possibilità» e le «chance di trasformazione o di emancipazione» che possono risultare collegate alle diverse «figure in lacrime» passate in rassegna nel libro[2]. Come ha osservato Frédéric Thomas, la domanda che sta al cuore del libro – una domanda che l’autore pone interrogando con insistenza le immagini e i fotogrammi de La corazzata Potëmkin di Eisenstein – è la seguente: «attraverso che tipo di dialettica, l’emozione (émotion) può rovesciarsi in moto di rivolta (émeute), e dei popoli in lacrime (peuples en larmes) possono trasformarsi in popoli in armi (peuples en armes)»[3]? Ovvero, come può l’emozione essere intimamente condivisa? Com’è possibile passare dai singhiozzi all’azione? Che cosa spinge il pianto a farsi sovversione?

Sono tutte domande che acquisiscono grande rilevanza nel nostro tempo, quando – a diversi anni dalla sconfitta delle rivolte arabe -, il fallimento della guerra globale in corso da 25 anni e quello del War on Terrorism favoriscono l’avanzata del fondamentalismo armato in Asia, Africa e Europa; e quando la crisi della “nuova ragione neoliberale del mondo” produce e riproduce un po’ ovunque risposte di tipo populista[4]. Risposte che, tra mille contraddizioni e altrettanti pericoli, tengono con forza al centro della scena il grande tema teorico-politico del “popolo” e delle sue emozioni. Il libro di Didi-Huberman, di cui si auspica una pronta traduzione italiana, tiene sullo sfondo proprio questo tema, mostrando come oggi sia diventato una posta in gioco politica. Che le lacrime dei popoli e i gemiti degli oppressi siano gravidi di potenza politica e di soggettivazione critica – come Didi-Huberman sostiene anche in questa intervista – è quanto l’autore approfondisce concettualmente nel libro. Lo fa tenendo al centro il discorso geniale di Eisenstein sulla «questione delle immagini patetiche», oltre che le sue stesse immagini. Immagini tramite cui il grande regista sovietico scopre, e ci mostra, che le emozioni possono «dire noi e non solo io».

Le vecchie di Odessa che ne  «piangono intorno al corpo del marinaio morto – recita la quarta di copertina di Peuples en larmes, peuples en armes – passano dal gemito alla collera, dal lamento alla denuncia. E reclamano giustizia per far nascere il popolo in armi della rivoluzione che viene». Un popolo (e non un Popolo) composto dai molti che, facendosi “parte dei senza parte”[5], riesce a dotarsi delle proprie istituzioni assembleari (i soviet) e con queste della propria potenza politica. Eisenstein contro i cliché: contro la forza sovrana dello stato, contro lo spettro del Popolo-Uno, la potenza politica può provenire dal possibile generato dal pianto. La forza può nascere dalla fragilità condivisa. Il cinema può mostrare la dinamica di questa “nascita”, ma può anche contribuire a produrla, dal momento che è capace di “fare dell’immagine [del popolo] un luogo del comune”[6] (alessandro simoncini).

Quali «popoli in lacrime» («peuples en larmes») ha visto di recente?
Quando c’è una rivolta, ci sono emozioni. Allora queste innervano tutto il corpo sociale. Direi anche che, perché vi sia rivolta, occorre una condivisione delle emozioni – anche se questo non significa certo che ciò sia sufficiente, politicamente e storicamente parlando. La tragedia analizzata e ricostruita da Eisenstein ne La corazzata Potemkine, tragedia che ho tentato di restituire il più precisamente possibile nel mio libro, può essere vista come un esempio perfetto di questa situazione e anche come modello. Un modello che rientra, al contempo, nella sfera del «documentario» e della «poesia»: deve molto a circostanze storiche precise, ma anche ad elaborazioni letterarie come Les Misérables di Victor Hugo. La situazione è la seguente: qualcuno muore di una morte ingiusta. Ad esempio, un giovane uomo. O, peggio ancora, un bambino, o una donna, una persona vecchia, un gruppo di civili disarmati. Nelle rivoluzioni arabe, di recente, tutto questo si è visto molto. L’emozione, allora, sale ai massimi livelli. Si nutre di un sentimento di orrore e indignazione. Come si può far morire un bambino o un giovane uomo all’apice delle sue forze, come Mohamed Bouazizi in Tunisia o come Vakoulintchouk nel film di Eisenstein? Davanti a morti così ingiuste, si resta sopraffatti. Allora si piange. Di più, ci si lamenta, come è il caso di dire in contesti religiosi particolari dove le lacrime sono incaricate di ritualizzare il dolore: il cristianesimo ortodosso, nel caso della situazione a Odessa nel 1905 messa in scena da Ėjzenštejn; l’islam, nel contesto della Tunisia, dell’Egitto, della Siria contemporanea, o ancora il cattolicesimo in America del Sud.
In che cosa queste lacrime pubbliche, collettive, hanno una dimensione politica, mentre il pianto individuale riguarda la sfera intima? Esisterebbe, in senso lato, una facoltà critica dell’emozione?
Si può certamente piangere da soli, nel proprio letto, per una ragione personale. Si possono anche versare lacrime-alibi, lacrime di coccodrillo. Ma capita che, senza averlo previsto, ci si lasci semplicemente scoppiare in lacrime davanti ad altri. Piangere è intimo – le lacrime non vengono da dentro ? – ma è anche un modo di rivolgersi all’altro, di aprirsi all’altro, perché le lacrime escono dai nostri occhi e diventano come piccole schegge di cristallo, sul nostro viso, per l’altro. Piangere ci sfigura forse. Ma allo stesso tempo, quello che si “decompone” piangendo si rivolge all’altro come se le lacrime fossero degli «amers»[7] – sapete, è il termine con cui i marinai indicano i punti di riferimento nel mare. Le lacrime sono come i fari (amers) dei nostri pensieri, dei nostri desideri. La pura intimità non esiste. Ci si rivolge sempre, più o meno, a un altro. Gli antropologi parlano di «riti piaculari»[8], cioè di ritualità – e anche di feste – fondate sulle lacrime. Se l’atto di piangere fornisce un messaggio, è quello di una crisi che si manifesta tutto intorno. Piangere può quindi avere una risonanza critica, cioè politica, ma evidentemente non sempre.

Le lacrime non sono piuttosto la manifestazione di un’impotenza, spesso attribuita al femminile ?
Che domanda! Non è «politicamente corretta», non trova? Cerco comunque di prenderla in parola e di risponderle. Ma per farlo devo introdurre una distinzione molto importante. Una distinzione cruciale soprattutto per un filosofo come Gilles Deleuze, che l’ha sviluppata nel contesto dei suoi testi su Spinoza e Nietzsche. È la distinzione tra potenza e potere. Piangere è senza dubbio una manifestazione di impotenza (impouvoir): è soffrire, è subire. «Non vi si può nulla». Tutto ciò corrisponde a una parola greca che si trova ovunque nelle tragedie, la parola pathos. Non si prende il potere e non lo si esercita con lacrime agli occhi. Antigone piange, non Creonte. Nelle tragedie greche, le donne che piangono – ma anche nella Corazzata Potemkine, nella Tunisia in rivolta, o pensi anche alle madri e alle nonne di Plaza de Mayo, a Buenos Aires, che hanno reclamato notizie dei loro figli scomparsi con un’ostinazione straordinaria -, tutte queste donne non avevano il potere e non lo ricercavano. Ora, le loro lamentazioni sono state di una formidabile potenza (puissance). Queste donne hanno portato l’indignazione a un punto di incandescenza tale che, divenuto imprecazione, chiama a fare giustizia, a vendicarsi, a emanciparsi dal tiranno. Quando lamentarsi (se plaindre) diventa denunciare (porter plainte), allora cominciano le sollevazioni dei popoli, il movimento dell’emancipazione, ossia la rivoluzione stessa. Si dà il caso che, in tante occasioni – tra cui quella mirabilmente raccontata e teorizzata da Eisenstein -, è una lamentazione femminile ad avere rappresentato il detonatore di una rivoluzione. Guardate queste due o tre immagini di Eisenstein: qui è una donna che piange. Ben presto è un’altra che strappa il suo velo. Infine, è una giovane (di fatto una militante del Bund, la grande organizzazione rivoluzionaria ebraica dell’epoca) che alza il pugno. Alla sua domanda rispondo, quindi, dicendo che le lacrime sono spesso una manifestazione della potenza (puissance) politica di quelle o quelli che si sollevano a partire da una situazione di fondamentale “impotenza”  (impouvoir).

Lei dice che essere affetto[9] ha un potere emancipatorio. È un modo di riabilitare l’emozione del popolo tramite le immagini, oggi spesso opposte al logos? In un clima di diffidenza verso le emozioni popolari, perché lei si interessa alle lacrime del popolo?
Per le emozioni è come per le immagini. Maurice Merleau-Ponty lo aveva sottolineato molto bene negli anni ‘60: per buona parte del pensiero filosofico «l’immagine è poco raccomandabile», diceva. Si riferiva all’eredità, ancora molto vivace e qualche volta tirannica, di Platone: l’immagine in generale non sarebbe né più né meno che l’illusione, l’apparenza, l’errore, la credenza, la manipolazione, ecc. Ogni verità, in quest’ottica, si costituirebbe contro l’immagine. Aristotelicamente, ritengo che le cose siano più complesse: al contempo più concrete e più sfumate. Certo, siamo avvolti e pressoché soffocati da immagini che ci mentono e ci manipolano. Ma questo non dice niente sull’immagine in generale. Questo non fa che constatare il disastroso valore d’uso a cui le immagini sono di solito soggette. La stessa cosa accade con il linguaggio: il linguaggio non è bugiardo in sé, sono i discorsi che mentono. Nella stessa epoca, la lingua tedesca di Joseph Goebbels è bugiarda, non quella di Benjamin! Ebbene, è la stessa cosa anche con le emozioni. Ciò che deve essere criticato è un certo uso – ossia un certo mercato mediatico – delle emozioni. Si sbaglierebbe a volere liquidare «le emozioni» dalla sfera politica perché esse sono manipolate o manipolabili. Fare politica credendo di potere eliminare l’elemento emozionale, con il pretesto che le emozioni formano il materiale principale del populismo, è come intrattenere una relazione con qualcuno volendo eliminare l’amore con il pretesto che la pornografia ha già imposto il suo triviale mercato. Quello che voglio dire è che non si devono abbandonare al proprio nemico politico cose tanto preziose e profonde – antropologicamente parlando – come le immagini o le emozioni. Piuttosto bisogna ripensarle attraverso nuovi valori d’uso.

Maddalena Penitente di Caravaggio

Una rivolta tramite le lacrime è possibile? Secondo lei Eisenstein legava emancipazione politica e romanticismo…
Evidentemente questo non basta. Perciò poco fa le ho parlato della necessità di denunciare (porter plainte) andando oltre il solo fatto di lamentarsi (se plaindre). Ora, non impiegherei la categoria di «romanticismo» come uno stile artistico suscettibile di essere superato, come nello schema dei «regimi» proposto da Jacques Rancière[10]. La lettura di Freud e di Warburg mi ha convinto che, nella sfera della cultura e delle azioni umane, niente è obsoleto: tutto sopravvive. Tutti i problemi si ripropongono, ma a partire dalla ripetizione, da ricordi sepolti, da ritorni del rimosso… C’è dunque un «romanticismo rivoluzionario» molto attuale, che porta in sé certamente, da qualche parte, la memoria di questi entusiasmi profondi che si trovano in Eisenstein, Brecht, Benjamin ou Ernst Bloch. L’ora sembra volgere al pessimismo, lo so bene. Ma Benjamin diceva questa cosa preziosa e foriera di futuro: «Organizzare il pessimismo non significa altro che […] scoprire, nello spazio dell’azione politica, lo spazio radicalmente, assolutamente immaginativo»[11]. A noi il compito di scoprirlo, questo «spazio di immagini», e soprattutto di farne buon uso.

 

* L’intervista è stata rilasciata a Catherine Calvet e Cécile Daumas per il quotidiano francese Libération. È stata pubblicata l’1 septembre 2016 (la traduzione è di Alessandro Simoncini).

 

Note

[1] G. Didi-Huberman, Peuples en larmespeuples en armesL’œil de l’histoire6, Paris, éditions de Minuit, 2016.

[2] Ivi, pp. 16-17.

[3] F. Thomas, Recensione a G. Didi-Huberman, Peuples en larmespeuples en armes, in http://dissidences.hypotheses.org/7993.

[4] P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, Roma, Deriveapprodi, 2013.

[5] J. Rancière, Il disaccordo, Roma, Meltemi, 2007, p. 49.

[6] G. Didi-Huberman, Popoli esposti, popoli figuranti, in “Lettera Internazionale, 107, 2011, p. 49.

[7] Fari ed altri dispositivi utilizzati come punti di riferimento fissi, identificabili e riconoscibili senza ambiguità per la navigazione marittima (ndr).

[8] Michel Maffesoli ci ricorda che con l’espressione di rites piaculaires – una peculiare tipologia di riti di espiazione che serviva a pacificare la collera divina – Emile Durkheim “ricordava il bisogno che ogni società ha di piangere insieme. Questo per sostenere il corpo sociale”. Infatti, “le emozioni condivise servono a cementare regolarmente il sentimento di appartenenza”. M. Maffesoli, Riti comuni oltre il fanatismo ateo e devoto, in “Vita”, 19 gennaio 2015, traduzione di Marco Dotti  (ndr).

[9] Didi-Huberman mutua questo concetto da Gilles Deleuze, che lo utilizza nei suoi studi su Spinoza e Nietzsche. Come sinteticamente sottolinea Michael Hardt, per Deleuze “alla potenza di esistere e di agire corrisponde la potenza di essere affetto”. M. Hardt, Pratica della gioia. Gilles Deleuze: un apprendistato in filosofia, in “Opera viva”, 22 agosto 2016, http://operaviva.info/pratica-della-gioia/ (ndr).

[10] È una categoria che Rancière utilizza in lavori come Politique de la littérature (Paris, Galilée, 2007) o Le Partage du sensible (Paris, La Fabrique, 2000) (ndr).

[11] W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973, p. 24 (ndr).

 

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