philosophy and social criticism

La storia è nostra e la fanno i popoli.  (Santiago, Italia)

Martina Biscarini

 A un certo punto del film di Nanni Moretti Santiago, Italia, uno dei testimoni del golpe dell’11 settembre 1973 fa una considerazione (cito a memoria): “Allora mi sono accorto che la democrazia è possibile fino a che va bene a chi detiene davvero il potere”. Questa frase vale l’intero film. Un film estremamente lucido nel quale l’autore guarda al passato per parlare del desolante presente. Una scelta acuta quella di narrare una pagina di storia non sporcata (in Italia) da tutte le complicanze retoriche che rendono quasi impossibile guardare indietro alla storia del Novecento del nostro paese senza rabbia o polemiche. Del Cile (diciamolo) a parte gli sparuti interessati, a livello di opinione pubblica si sa poco o niente. Faccio due esempi emblematici: Di Maio anni fa aveva collocato Pinochet e la Moneda in Venezuela. Un mio familiare, postino, riceveva spesso lettere indirizzate a una casa della sua zona in “via Sant’Allende”. Non sto scherzando.

 La vicenda del pre-golpe, è raccontata attraverso le emozioni dei rifugiati politici e i filmati d’epoca. Dopo i bombardamenti alla Moneda, dopo la morte di Allende (suicidio “catoniano” o omicidio che fosse) “questo paese così libero divenne di colpo atroce. Per strada c’erano solo militari e avevi paura a uscire. La nuova vita era rimanere chiusi in casa” (sono parole del regista Patricio Guzman). Il peggio può sempre arrivare, anche quando uno meno se lo aspetta: i cileni non erano abituati ai regimi. La loro storia, seppur non esente da colpi di stato militari, non era stata certo quella dell’Argentina o della Spagna.

Le torture sono raccontate da chi le ha vissute ed è stato fortunato abbastanza da non scomparire (non morire) nei centri di detenzione, nei quali veniva fatta violenza a chi aveva fatto politica attiva a fine di indurli a fare dei nomi. I delatori passavano incappucciati tra le file dei prigionieri politici per riconoscere senza essere riconosciuti.

Ma come biasimarli, dice Victoria Saez (il cui nome fu fatto in una di quelle circostanze): la tortura è una cosa terribile, resistere è dura. Assieme ai detenuti, Moretti filma la testimonianza di un giovane diplomatico italiano (Roberto Toscano) che si ritrovò ad ascoltare di alcuni dialoghi, quasi un déjà vu nazista, fra soldati: “Oh, sai che uno oggi si è impiccato?” “Ah bene, lavoro in meno da fare” (cito di nuovo a memoria). Moretti fa bene a intervistare anche la controparte, i militari che “hanno solo fatto il loro lavoro”, i volenterosi carnefici zelanti che, dalle pubbliche galere, si proclamano innocenti e protestano contro un regista che gli era stato presentato come “imparziale”. Qua l’unico “morettismo” di tutto il film: il regista che, in una scena nel dietro le quinte di un’intervista a un ex militare, si volta a camera e afferma: “Io non sono imparziale”. In questo delirio post-post-moderno in cui ogni verità ha la sua dignità teorica, va presa una posizione, va capito bene quand’è che la storia la scrivono i vincitori e quando i vinti cercano di riscriverla a suon di scuse.

Dei racconti post-golpe colpiscono gli occhi lucidi di alcuni testimoni, ricordando determinati episodi, come l’umanità di un cardinale (Raul Silva Henriquez) o il coraggio di una nonna che lancia una bambina (la figlia di Victoria Saez) dietro al muro di due metri dell’ambasciata italiana dove il padre, esule politico, era pronto a prenderla. Colpisce De Masi, all’epoca vice-ambasciatore, lasciato solo con la sua coscienza dal Ministero, che a un certo punto decide di tenere tutti coloro che si trovavano a saltare il muro che divideva quattro strade di Santiago dal territorio italiano. E così l’ambasciata diventa una città, un quartiere diviso per piani: uomini celibi al primo piano, coppie con bambini al secondo, donne nubili al terzo. Nel grande giardino della villa, i bambini giocano al “poliziotto e al rifugiato”, cioè a chi per primo salta il muro dell’ambasciata (per finta ovviamente) senza lasciarsi prendere. Gli adulti collaborano alla vita sociale: l’etica e la politica non hanno confini netti e un anziano socialista, che mai in vita sua aveva pelato patate, viene espulso dal proprio partito per essersi rifiutato di farlo nelle cucine dell’Ambasciata.

Ma a un certo punto, da fuori, il regime lancia dentro il giardino del Consulado de Italiail cadavere di Lumi Videla, sociologa, militante MIR. Un avvertimento per i rifugiati politici dentro le mura italiane. L’ennesimo atto di amara propaganda per il mondo esterno: viene comunicato all’opinione pubblica tramite la stampa che Lumi sarebbe morta in un’orgia in ambasciata. La verità è ben diversa. Sergio Perez, il marito, ad oggi risulta fra le fila dei desaparecidos. E Moretti non lo mostra, ma all’epoca uscì una vignetta satirica, per dimostrare all’opinione pubblica quanto fosse assurda quella che invece era la verità, la versione dell’ambasciata. In questa vignetta c’era un cannone che, come al circo, spara il corpo di Lumi Videla dentro il giardino dov’è stata trovata. A questo punto i rifugiati partono allora per l’Italia. E qui la solidarietà della gente. “Il Cile è stato un patrigno cattivo per me”, dice a un certo punto Victoria Saez, “mentre l’Italia è stata una madre generosa e solidale”.

“Quello che appare da subito cristallino, durante la visione di Santiago, Italia, è la grande fiducia nell’essere umano che Moretti mostra” scrive Raffaele Meale su Quinlan. Davvero non saprei. Quel che io vedo è un uomo di cultura che non crede che il cinismo sia produttivo, se il fine della politica è veramente, ancora oggi, fare il bene della polis. Moretti non crede né al mito dell’italiano brava gente né al mito degli italiani tutti fascisti: entrambi sono dei costrutti culturali, come accade nelle generalizzazioni iper-semplificanti. Credere che tutta una società, tutta una nazione, oramai sia persa è un’ottima scusa per non far niente per cambiarla – è un concetto che non mi stanco mai di ribadire e mi sembra di capire che anche Moretti sia su questa linea. Perciò se l’autore ha voluto trattare proprio di questo episodio, insistendo sul ruolo solidale dell’Italia, non è stato, credo, per dimostrare o meno fiducia nell’essere umano, ma per spronarlo a lasciare andare la tentazione fin troppo trendydi cadere fra le braccia di pessimismo e cinismo. La brutta faccenda del Cile, oramai lo sappiamo, ha avuto luogo in nome di quella politica portata avanti proprio in difesa del sistema che oggi non solo non basta a mantenere il benessere per tutti, ma avvelena il pianeta. Ebbene, nel presente lo spauracchio del comunismo (checché possano credere alcuni) non c’è più: come nei peggiori incubi di Ruskin, è stato eletto definitivamente l’accumulo di denaro a rituale garante di valori etici – ma quando il denaro arriva a scarseggiare, quegli stessi valori vacillano. E vacillano ancora di più se chi difende strenuamente il sistema (pur vendendosi come antipolitico) gioca l’ultima carta ideologica: affinché non si veda che la causa dell’arresto del cosiddetto benessere è un bugstrutturale, non si spalleggia l’idea che Il modo in cui viviamo deve cambiare, ma si incoraggia la diffidenza in tutti coloro che potenzialmente potrebbero portarci via qualcosa.

È un pensiero molto differente da come viene descritta dagli esuli nel film di Moretti l’Italia del 1973, un paese a sua volta a rischio di Golpe – e gli archivi soli sanno perché quello del principe Borghese fu fermato il giorno dell’Immacolata del 1970.

L’abbiamo perso quell’atteggiamento solidale? Probabilmente no. Probabilmente occorrerebbe solo tornare ad avvicinarsi e a mettere in pratica i valori etici che percepiamo mancanti – che prima di tornare a essere collettivi devono partire dagli individui. La comunicazione a corpi che vibrano(e non a colpi di Twitter) deve essere il fine primo. Il fine ultimo è mettersi nell’ottica di costruire un nuovo sistema economico, la cui sostenibilità non dev’essere solo in termini finanziari o ecologici, ma anche etici.

Dubito che Moretti volesse fare dell’escapismo sterile – la nostalgia non è da lui. No, il punto è un altro. Sembra tutto molto lontano, aspetti distopici e aspetti rincuoranti. Sembra un’altra Italia, ma chi si riconosce in quella solidarietà dei tempi che furono non è, ad oggi, così impotente come sembra. “La storia è nostra”, disse Allende prima di capitolare, “e la fanno i popoli”.

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