1989: la fine della “protezione antifascista”
di Francesco Paolella
Andreas Just, Tra muro e libertà. Sogni, illusioni e delusioni di un ragazzo dell’Est, Edizioni La Vela, Viareggio 2019, 172 pagine
Se è vero che per tutti gli eventi del passato – e specialmente per quelli ai quali la “memoria pubblica” attribuisce un significato politico o morale di assoluta attualità – è difficile mantenere una visione obiettiva dei fatti e delle responsabilità, questo discorso vale mille volte di più per l’anniversario della caduta del muro. È passato ancora poco tempo – appena trenta anni – ma, ugualmente, sembra essersi smarrita ogni adesione al vero e, soprattutto, ogni rispetto per le vittime delle persecuzioni comuniste. Specialmente dal campo liberal-progressista europeo (e da quello italiano su tutti), il crollo dei regimi dell’Est viene ormai spiegato come una specie di seconda, definitiva liberazione, anche se non si capisce bene da cosa polacchi, russi e tedeschi si siano liberati e perché. La caduta del muro – del famigerato “vallo antifascista”, come si diceva nella DDR – sembra ormai nel discorso pubblico la fine di una pestilenza o la soluzione di una guerra tribale.
Fra noi e il 1989 sono calate nebbie invincibili: un oblio frettoloso, sicuramente favorito dalle esigenze ideologiche ed elettorali dei partiti ex-comunisti, ma anche dalle esigenze dei governi europei, ha cancellato quasi tutto del patrimonio morale e politico dei singoli e dei movimenti che, nella seconda metà del Novecento, si erano opposti ai regimi rossi. Paradossalmente, sono soltanto alcune, per fortuna sparute, reminiscenze ostalgiche a interessarsi di quel mondo, frantumatosi in così poco tempo.
Ciò detto, sono importanti le testimonianze come questa appena edita da La Vela, appunto perché ci aiutano a capire almeno un po’ cosa abbia significato vivere nell’altro mondo, nel mondo del grigiore, della manipolazione e della paura. Queste memorie autobiografiche, scritte da un ex-suddito della DDR, non sono “estreme”: non ci raccontano di un oppositore particolarmente convinto, né di un anticomunista votato all’eroismo. Sono, invece, le memorie di un ragazzo cresciuto in una piccola città, non lontana dal confine con i nemici dell’Ovest e il quale, poi, ha avuto una vita tutto sommato “normale”. Intendiamoci: una normalità che per noi sarebbe disperante: crescere con la propaganda di regime sempre negli occhi e nelle orecchie, sopravvivere con la possibilità, anzi con la probabilità di finire in prigione senza una vera ragione, mettere su famiglia dovendo fare i conti con attese infinite, burocrazia asfissiante e, soprattutto, con una strutturale scarsità di mezzi.
Insomma, la solita vita dell’Est: negozi vuoti, il timore costante di essere ascoltati da qualche informatore e una radicale sfiducia verso le autorità. Si doveva pianificare tutto e con largo anticipo, anche soltanto per procurarsi il cibo da offrire a qualche invitato. Fare la fila era normale, persino scontato, sempre, per qualsiasi cosa. Quella “economia della scarsità” era anche un mezzo, senza dubbio, per tenere sotto controllo le persone, per farle sentire vulnerabili. Tutte le scelte del regime puntavano a creare cittadini «dipendenti dalle autorità e inibiti nelle emozioni» (pagina 63). La demagogia comunista aveva però dei limiti, dei punti che non riusciva a raggiungere: ed era in quegli interstizi, in quegli angoli (lo sport, la musica, i viaggi) che – ovviamente – poteva sfogarsi almeno un po’ la rabbia accumulata e che poteva esprimersi ciò che di umano, di individuale ciascuno possedeva, pur rischiando sempre qualcosa.
Da quel sistema di oppressi e privilegiati, i tedeschi dell’Est sono usciti vivendo una strana liberazione. Cambiamenti tumultuosi, la scoperta ubriacante ma effimera della libertà economica, ma anche la perdita di tante certezze, hanno segnato quel passaggio aggiungendo nuovo disincanto. Il 1989 è stato, sicuramente, una grande vittoria del capitalismo e del liberalismo, ma l’unificazione tedesca è coincisa con la rampante trasformazione dell’economia capitalistica e della società liberale: globalizzazione, neoliberismo, finanziarizzazione dell’economia…, tutto ha pesato non poco nel determinare distorsioni e nell’impedire per molti versi una vera integrazione.
Nella DDR si produceva pensando anche sempre a risparmiare risorse. Ed ecco il trauma di doversi trasformare, e di corsa, in un sistema fondato sull’iperconsumo, sullo spreco e sull’obsolescenza programmata dei prodotti: è inevitabile smarrirsi e, talvolta, finire per rimpiangere la vecchia penuria di una volta:
«Perfino le borse della spesa venivano riciclate e nessuno si sognava di buttarle via dopo l’acquisto. Gli imballaggi, nella DDR, non erano destinati allo smaltimento: la confezione “usa e getta” era praticamente sconosciuta. Tutto veniva riusato. Nessun adolescente buttava la lattina dal finestrino all’incrocio e nessuno doveva cercare materiale riciclabile nella spazzatura, perché non ci finiva proprio. I prodotti non avevano una durata prestabilita» (pagina 160).
Ad ogni modo, non vale la pena di coltiva alcuna nostalgia. D’altra parte, è giusto, come fa l’autore, riconoscere che la libertà potrebbe essere molto di più di quella offerta dal mercato agli ex-schiavi dell’Est.
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