L’architettura della felicità
Bruno Accarino
Alessandro Biral, Platone e la conoscenza di sé, Laterza, Roma-Bari 1997.
Da quale punto partire per accostarsi a un libro – Platone e la conoscenza di sé – che parla di Platone parlando della crisi dei modelli politici contemporanei? Dalla felicità, che è uno degli equivalenti della conoscenza di sé proposta dal titolo? La felicità, in quanto destinazione dell’uomo, è non solo il bene maggiore ma anche il bene architettonico; essa fa vedere tutti i beni e detta l’ordine gerarchico che loro pertiene. L’uomo felice ha quindi scienza architettonica della città e tutte le altre scienze, prive di potere sopra se stesse e indifferenti rispetto ai modi del loro esercizio, trovano infine il loro governo.
La dialettica cessa di essere l’arte avvalendosi della quale si strangolano a parole gli interlocutori e si criticano, fino ad un dissolvente discredito, i costumi. Diviene ricerca che, anche se abbandona ogni appoggio già dato e problematizza tutti i dogmi, non può cadere nell’inquietudine dello smarrimento, ma dischiude la serena condizione di un autentico non-sapere, che mira a raggiungere l’unità perfetta dell’uomo con se stesso.
Smicrologia, così invece Ippia definisce il dialogo: frammentazione del discorso, inutile sminuzzamento all’interno di uno sciocco gioco verbale. A che pro questi “discorsi spezzettati e grattugiati”, questo logorante battibecco? Che cos’è invece il bello? Tenere un discorso efficace, e vincente, in assemblea o dinanzi a un tribunale o a qualche altra magistratura. Il dialogo con Socrate viene percepito da Ippia come uno spreco di tempo e di energie: in quel frangente – il discorso “bello” al cospetto di un’assemblea – Socrate non è nemmeno un avversario.
L’intera vicenda filosofica dello scontro con la sofistica viene riletta da Alessandro Biral tenendo d’occhio il criterio dell’avvicinamento alla, o dall’allontanamento dalla, conoscenza di sé: ed è in questa ricostruzione, assoggettata a quel criterio, che trovano posto i termini più familiari e più pregnanti, dal nomos alla physis, dalla forza alla giustizia. Ecco perché Biral non raccoglie le sollecitazioni, oggi insistenti, a riabilitare la sofistica: l’aspetto antropologicamente seducente della sofistica – battersi per un impegno umanamente fattibile a favore dei verba, giacché gli uomini sono incapaci di arrivare alle res – non lo coinvolge. La sofistica è per la rinuncia alla verità e agli assoluti, ma anche alla conoscenza di sé: e la polimathia sofistica, quella curiosità poliedrica e dissipativa che conferisce anche il potere di mentire, non vi pone rimedio. Eppure dissennatezza, si legge a un certo punto, è la dimenticanza di sé. Tutti vogliono giustizia e i più presumono d’essere sempre nel giusto senza mai aver avvertito il bisogno di iniziare il cammino che conduce verso la conoscenza di sé.
Il punto-chiave è quello della trasmissibilità o insegnabilità della giustizia: quando si crede che essa sia insegnabile attraverso un monologo e passibile di apprendimento attraverso il puro ascolto, la giustizia si pietrifica in dottrina, condannandosi a sovraccaricare l’anima e ad appesantirla senza veramente modificarla. Il sapere dottrinariamente greve preclude l’accesso alla politica. I discorsi – si legge in apertura – che siano protesi a catturare i favori del pubblico sono come i libri: indirizzati alla lettura di lettori sconosciuti, prevedono l’anonimato dei loro destinatari per la stessa ragione per la quale non prevedono, anzi escludono programmaticamente, la presenza e l’intervento di un interlocutore. Se per caso uno degli ascoltatori si sottrae alle maglie dell’anonimato e accede alla domanda, il retore ripete le stesse argomentazioni: “lo stesso monotono monologo di un vaso di bronzo percosso”.
Il lettore che non conosca altri lavori di Biral rischia di trovare incomprensibile la sua insistenza sulla felicità: come se l’autore non avesse mai avuto sentore della diffidenza, dell’impopolarità o dell’aperta ostilità che la felicità raccoglie negli ordinamenti costituzionali del mondo moderno, segnatamente europeo, in quanto parola d’ordine incapace di catturare un consenso autentico e troppo impegnativa per una comunità politica assestata sulla minimalità e terrorizzata dalle imprese brillanti in odore di giacobinismo. Ma il fatto è che Biral conosceva assai bene i quadri del pensiero politico sei-settecentesco, quelli che presiedono alla formazione della statualità moderna. La felicità dei greci gli dev’essere sembrata disporsi su tutt’altro registro.
Anche la forma di governo democratica viene messa fuori gioco dal contrappasso di quello che è il suo aspetto più attraente: la sua mitezza, la sua disponibilità ad esonerare, la sua rinuncia ad esigere qualcosa dai cittadini. Saltato il filtro di ogni educazione, l’uomo democratico, si legge nella Repubblica di Platone, “vive alla giornata abbandonandosi al primo desiderio in cui s’imbatte: ora si dà al bere o si mette a suonare il flauto, per passare subito dopo a bere soltanto acqua e a digiunare, ora si dedica alla ginnastica, per cadere subito nell’ozio e disinteressarsi di tutto dandosi le arie di uno che si occupa di filosofia”. La democrazia vive di un delicato equilibrio dei piaceri, nessuno dei quali è in grado di gerarchizzare l’insieme: ma si scopre allora impreparata a fronteggiare la degenerazione in tirannide, attizzata dal disfacimento di quell’assai precario equilibrio.
La felicità subisce un tracollo quando riaffiorano desideri ingovernabili: ciò significa che la felicità è sinonimo di governo di sé. L’enigmatico “conosci te stesso”, conclude Biral, “dev’essere inteso come l’augurio che il dio rivolge all’uomo di giungere a governare, secondo il meglio, se stesso”.
Non avrei assunto il compito di segnalare un libro di filosofia antica, sottraendo ad altri più competenti l’impegno recensorio, se Alessandro Biral non ci avesse lasciato nel dicembre dello scorso anno. Di questo libro non ha potuto vedere neanche le bozze. Biral non era solo un attento frequentatore della filosofia antica, ma anche un eccellente esploratore del contrattualismo e del costituzionalismo moderni, da Hobbes a Rousseau ai vari passaggi politici e istituzionali nella Francia rivoluzionaria. La sua insofferenza per un sapere polveroso e libresco si tocca con mano nella rinuncia ostentata ad ingombranti apparati di note a pie’ di pagina. Guardingo anche nei confronti degli approcci metodologici e storiografici vincenti (ricordo la pignoleria glossatoria con cui recepì il Lessico diretto da Reinhart Koselleck, che pure è una delle più grandi imprese collettanee della cultura tedesca del ventesimo secolo), sempre pronto a fiutare, incontentabilmente, tracce di corrività e di conformismo, aveva segnato con la propria presenza il cammino della rivista Filosofia politica e probabilmente, pur nella sua discrezione, di ogni altra impresa cui si era associato.
Lo incontravo quasi sempre a Bologna: di lui ricordo l’avidità infantile con cui faceva razzia di libri di scacchi in una libreria specializzata bolognese e l’ammirazione inossidabile per John McEnroe, il più grande tennista di tutti i tempi.
[da la Talpa libri, 26 giugno 1997]