philosophy and social criticism

Ágalma n. 18: La storia segreta dell’estetica italiana

M. D.

AgalmaNessuno, se vive in Italia, può evitare di portare una maschera e ignorare la pratica – talvolta «onesta» – della dissimulazione. Ne dava conto Paolo Sarpi, l’autore dell’Istoria del Concilio trindentino, che in simile esercizio intravvedeva una costante della vita politica e culturale italiana tra XVI e XVII secolo. Dissimulare, d’altronde, è pratica volta a celare uno stato di fatto, mentre la simulazione, molto più affine alla menzogna, altro non è che l’ostentazione di uno stato di cose inesistenti. In tal senso, la dissimulazione ha non poche affinità con l’ironia e come osserva Mario Perniola – nel suo denso lavoro sulle Strategie del bello, pubblicato come monografico del semestrale «Ágalma», giunto al decimo anno di vita – è tutt’altra cosa dal nicodemismo religioso, ossia dal tentativo di nascondere la propria fede e le proprie convinzioni per sfuggire alla persecuzione.

Nella dissimulazione e in particolare in quella tardo-moderna, giocata nel campo dell’estetica, Perniola individua invece una specifica strategia di sopravvivenza e resistenza alla spettacolarizzazione e alla banalizzazione dell’intellettuale, in un contesto che lo vuole o asservito e marginale per ruolo oppure inorganico e isolato per costituzione. Vista da questa prospettiva, la dissimulazione prevede un misto di strategia e sviamento tattico, che anziché fuggirlo implica una profonda e duratura esperienza del conflitto e rende necessario un «pensare per contrari» dinanzi alla realtà, dura e inesorabile, del potere e del mondo.

Lungi dall’essere «un paese di pigri o di rozzi», d’altronde, l’Italia è sempre stata il luogo in cui il «sospetto» si è mostrato criterio fondamentale a cui affidare il proprio orientamento, in una realtà che oggi più che mai Perniola definisce «multiforme e vischiosa», una realtà nella quale la raffinatezza di origine rinascimentale e manieristica s’incontra e si somma con la complessità della società postindustriale, dando luogo a personaggi concettuali e a prodotti culturali di alta qualità estetica ed efficacia pratica».
È tenendo lo sguardo ben fisso su questo contesto, che l’autore affronta e si confronta con pensatori – da Gianni Carchia a Manlio Sgalambro, da Fabio Mini a Quirino Conti, da Andrea Emo a Giorgio Colli, da Carla Lonzi a Giorgio Cesarano – irregolari per scelta, vocazione o semplice necessità di sopravvivenza che hanno individuato nell’estetica «l’ultima trincea» dove combattere la battaglia campale a favore di un’umanità prossima a venire o a sparire per sempre, inghiottita da un orizzonte di mera brutalità.

I «pensatori estetici» della fine del millennio hanno dunque amaramente scoperto, provandolo a spese proprie, che per mantenere il loro statuto simbolico dovevano essere più simili «a un guerriero che a un sacerdote», elaborando movimenti e mosse che in qualche modo affondano le proprie radici nel cinismo antico e nello stoicismo, ossia in modalità di pensiero che sono anche, se non soprattutto, stili di vita antagonista e eccentrica rispetto alle istituzioni che, dall’Atene di Socrate in poi, ingrassano i loro «intellettuali» per poi mandarli come maiali al macello.

Sarebbe facile per chiunque, scriveva d’altronde Baltasar Gracián, anche per il più maldestro tra gli sgherri del sovrano colpire un uccello dal volo uniforme. Più difficile, spesso impossibile, secondo il gesuita spagnolo, autore del celebre Oracolo manuale e arte della prudenza, colpirne uno dal volo goffo o irregolare. Nel 1923 gli fece eco, a modo suo, il russo Viktor Sklovskij che parlò di una «mossa del cavallo», ragionando di straniamenti e praticando in prima persona un «decentramento» che si voleva simile a quello che, nel gioco degli scacchi, è il movimento insolito di questa pedina, la sola che esclude la via diretta e si muove di sbieco. Trovandosi a partita finita a dover ricostruire percorsi eccentrici e movimenti irregolari, Perniola si sofferma proprio sul cavallo (l’estetica come inconscio politico della società), sulle mosse estreme, sulle strategie sottili e su quella che chiama la «storia segreta» dell’estetica italiana, nel quarantennio che va dal 1968 al 2008, storia che coincide molto spesso con strategie di sopravvivenza economica e materiale degli autori chiamati in causa.

Le manifestazioni del pensiero estetico dal 1968 al 2008, possono essere considerate, secondo l’autore, come diverse soluzioni offerte a un unico problema, che ha attraversato, agitato e decomposto la scena italiana del periodo, problema formulabile attraverso tre quesiti: Come pensare il conflitto? Quale rapporto c’è fra gli opposti? Che cosa sono questi opposti e, soprattutto, come si può arrivare a una loro conciliazione? Perniola individua quindi sei linee di tendenza che, a partire dagli anni sessanta – superate le letture dialettiche e organicistiche, attraverso i campi definiti dalle categorie estetiche di bello, sublime, ironia, tragico, raffinatezza e acutezza – offrono oltre che sistemi teorici spesso di grande rigore, «modelli psico-antropologici di lunga durata» attraverso i quali leggere il conflitto e che in qualche modo colmano il vuoto provocato da giornalismo e accademia, palestre di inetti al contrario incapaci di favorire «il sorgere di una teoria che fosse all’altezza delle profonde trasformazioni economiche, sociali e umane in atto nell’Italia dal Sessantotto in poi».

La crisi italiana, suggerisce sul finale l’autore, presenta non poche affinità con quella che travolse Roma, dopo il sacco del 1527. Ora più di allora, «non bisogna farsi arruolare in nessun conflitto tra le civiltà, ma combattere per salvare qualcosa della saggezza antica dall’oscurantismo e dall’infantilismo dilagante». Contare, fino alla fine, sulla possibilità di muovere il cavallo, e vincere.

[da il manifesto, 5 giugno 2010]

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