Che cosa fare quando tutto brucia? Su Antonio Pascale
Luca Peretti
Antonio Pascale, scrittore casertano che vive a Roma, smette (temporaneamente?) i panni di romanziere e si produce ora in opere di saggistica autobiografica di impegno civile. Infatti dopo Qui dobbiamo fare qualcosa. Si ma cosa? (Laterza, 2009) il suo nuovo Questo è il paese che non amo, edito da Minimum Fax, è una conferma che Pascale si stia interrogando su cosa sia questo malandato paese e quale sia il ruolo dell’intellettuale nella discussione pubblica. Nel titolo del nuovo libro non ci sono punti interrogativi, ma possiamo immaginarceli: certezze nel libro ce ne sono poche, o meglio sui problemi abbondano, ma sulle soluzioni prevalegono i dubbi, tantè che il libro si chiude proprio con un punto interrogativo.
Fare
Cosa può fare l’intellettuale e lo scrittore per analizzare e approfondire al meglio la realtà (specie quella italiana) ed eventualmente cercare di migliorarla? è questo uno dei temi, e Pascale se lo chiede non in astratto, ma portando e parlando di esempi assolutamente concreti, casi di vita vissuta, la sua e quella della nazione, dato che il libro e’ tutto un intrecciarsi di reazioni personali e collettive a dati eventi: la messa in onda del Live Aid, del video di We are the world, la vicenda Di Bella, Berlusconi al parlamento europeo che da del Kapò a un parlamentare tedesco e molte altre. Ecco un esempio, nella scrittura dell’autore, per capire meglio cosa si intende con il personale che sfocia nel collettivo: «il 19 gennaio 2000 morì B Craxi, il 25 aprile 2000 cadde il governo D’Alema, il 20 giugno 2000 nacque la mia seconda figlia, Marianna, e il 23 giugno 2000 morì Enrico Cuccia, il più importante e misterioso banchiere italiano, presidente onorario di Mediobanca. E tutti a dire: è veramente finita un’epoca, comincia il nuovo secolo. Un secolo migliore».
Narrare
La questione cardine è quella della narrazione, del come raccontiamole cose. Pascale si dilunga nello spiegare il famoso – almeno per la critica cinematografica – saggio in cui l’allora critico dei Cahiers du cinéma Jacques Rivette se la prende con Gillo Pontecorvo per la carrellata sulla morte della protagonista nel film Kapò. Un carrellata – secondo l’autore – moralmente ingiusta perché non è cosi che si puo’ mettere in scena la morte. Non sappiamo nulla della morte, che è per definizione l’esperienza di cui non possiamo avere esperienza, allora come possiamo metterla in scena? Con molti dubbi e ponendosi una serie di domande preliminari. Come la si può filmare la morte senza sentirsi un impostore, si chiedeva insomma Rivette accusando invece il regista italiano proprio di non aver chiara proprio questa domanda, che è preliminare. La carrellata infatti è un punto esclamativo, nel linguaggio cinematografico, non esprime dubbi. E Pascale ne cita altre, di narrazioni scandalose, di modi di raccontare le cose in maniera moralmente sbagliata, come il racconto dello scrittore Antonio Moresco I maiali dove egli si appropria dei pensieri del bambino caduto nel pozzo a Vermicino. E questa operazione di rendere tollerabile l’orrore non è forse la stessa di Benigni con La vita è bella?
Problemi anche con le narrazioni occidentali che si occupano d’Africa, che in genere puntano a mettere in risalto l’impegno dei bianchi e la povertà dei neri. Pascale si occupa ampiamente di due esempi: il LiveAid e il video di We are the world. In entrambi si crea un prodotto tipico, un modello di africano da esportare, sofferente mentre noi occidentali bianchi andiamo a porgergli la mano cercando di farlo risorgere. Ma spesso, fa notare Pascale, nei posti malandati i bianchi restano giusto il tempo di scattare foto o raccogliere interviste, e poi rimangono i volontari africani. Lo scrittore fa riferimento al critico cinematografico Serge Daney, che nei confronti del video We are the world, disse che questo annullava con un’operazione semplicistica – le sfumature e gli effetti di montaggio – e falsa la carta geografica del mondo. «Le star erano sconvolte dalla povertà del Terzo Mondo ma solo per pochi minuti, e perlopiù, teoricamente». Un’esperienza della povertà ridotta ad un elemento esotico, forse mostruoso ma comunque lontano.
Insomma, e’ tutta una questione di uso di dettagli e di linguaggi che vanno approfonditi per cercare di interpretare. Una questione di stile, dice Pascale: «è sempre una questione di stile e di punti di vista. Non è il dolore del mondo che fa paura, è la sua complessità e la fatica che bisogna fare per misurarlo giorno per giorno, perché il mondo si evolve e noi abbiamo paura, e per trovare conforto elaboriamo facili simboli che rallentano la nostra intelligenza».
Semplificare
Simboli, semplificazioni, impressioni e non approfondimento, trasporto emotivo. Come nel caso Di Bella, il medico che nel ’98 sosteneva di poter sconfiggere il cancro con una cura sperimentale. La cosa scatenò un discreto dibattito pubblico, anche se gli scienziati e gli specialisti – cioè coloro i quali dovrebbero avere voce in capitolo su queste questioni – si dichiarassero quantomeno scettici. Ma la vicenda fu invece amplificata da direttori di giornale, giornalisti e presentatori (Bruno Vespa cofirmò addirittura un libro con il professore). Il paese restò affascinato da questo anziano dottore, sostiene Pascale perché sembrava un vecchio nonno, «parte di un’Italia arcaica, ma pulita e giusta, non corrotta dalla modernità», era rassicurante. La cura, chiaramente, non funzionò, ma Di Bella funzionava benissimo come personaggio mediatico, quindi molti gli credettero. Similmente, Vandava Shiva vestendo con il sari e il bindi diventa ai nostri occhi la tipica indiana, un «prodotto da esportazione»: molti sono portati a crederle quando parla dei contadini indiani che si suicidano per colpa delle multinazionali che li obbligano a comprare le sementi di cotone Bt (da lei chiamati Ogm, anche se tecnicamente non lo sono). Non importa che questa affermazione sia vera o falsa (dati alla mano Pascale smonta questo teorema) ma importa che Vandana Shiva riesca a veicolare il messaggio attraverso un preciso codice, molto gradito ai media, specie per la sinistra, che – sempre secondo l’autore – «da tempo ha sostituito l’idea di progresso con il sapere nostalgico o nel peggiore dei casi con il revival». Sulla questione scienza e opinioni Pascale è piuttosto diretto: «La scienza è contro le opinioni, ossia si chiede con insistenza la verifica di quanto affermato. Si capisce che in un regime di opinioni diffuse e per di più sostenute con escamotage retorici, il metodo scientifico potrebbe fungere da bussola». Ma, appunto, in Italia non lo è, siamo pieni di editorialisti e opinionisti e di pochi (o probabilmente sono molti, ma non vengono interpellati) esperti su temi specifici.
Indagare
Quello italiano è un regime emotivo, dove vicende come la Madonna di Civitavecchia sanguinante occupano per mesi le cronache nazionali. Pascale indaga anche il sistema della commozione. Chiama, cooptando la definizione da Kundera, prima lacrima qualle sincera e spontanea, seconda, già artefatta, non più commozione per l’evento, ma commozione pensando a quanto sia giusto piangere in quel momento. Viviamo nell’industria delle seconde lacrime (se non terze o quarte), ma secondo Pascale ci sarebbe un’altra possibilità: cercare con metodo e misura la loro fonte primaria, cioè da dove arrivino queste lacrime, analizzando le variabili complesse, con un approccio analitico e non emotivo. Ed è così che chiude il libro, cercando di raggiungere questa razionalità che ci potrebbe far vedere le cose in modo diverso. Secondo Pascale dobbiamo mettere al bando l’idea di felicità e garantirci il diritto all’inquietudine, praticata con coscienza e metodo. «Se non possiamo essere felici, dobbiamo accontentarci di essere intelligenti, e dunque indagare, indagare, indagare».
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