Devozione. Un incontro con Antonella Lattanzi
M. D.
«Non ci sono motivi per diventare eroinomani». Lo afferma Antonella Lattanzi, scrittrice, 31 anni, di Bari. Il suo è un nome che gira fra critici e addetti ai lavori, perché il suo romanzo di esordio Devozione, apparso per Einaudi, è stato giudicato da molti la miglior opera prima del 2010. Quel che conta è in particolare il metodo che la Lattanzi ha seguito: un lungo lavoro, durato cinque anni, di studio sul campo, quasi un attraversamento del mondo della dipendenza da eroina e della disperata vitalità di chi, quel mondo lo subisce. Grazie a questa prossimità la Lattanzi ha potuto fare anche un’operazione di verità sociologica. Spiega: «Ho capito che con l’eroina non c’entrano i traumi che hai avuto – tutti ne abbiamo – non c’entrano i tuoi genitori, o il posto dove vivi. Non c’entra più…». Che cosa c’entra allora? Per quale motivo un ragazzo cade ancora nella trappola della dipendenza? Per Antonella Lattanzi, la questione è tutta nel tema della fragilità e delle speranze delle nuove generazioni, quelle per cui non vale più – se mai è stata utile – l’equivalenza fra traumi e caduta nella dipendenza. Non a caso, in esergo, la Lattanzi ha scelto una frase di José Saramago, che fa da chiave a tutto il lavoro: «Dio, come ci hai fatti fragili e com’è facile morire».
«Roma è un alveare di api con la testa da orchi». Una città che, appena i due ragazzi – Nikita e Pablo, nella prima scena del libro – escono dalla Cinquecento in panne, si accanisce su di loro. Corrono. Da un lato temono che l’asfalto li risucchi e dall’altro percorrono in fretta strade i cui nomi, via dei Dalmati, via dei Volsci, «decine di popoli ridotti a sampietrini»… Per loro, l’unico “altrove” possibile è Napoli, con i suoi paradisi a 10 euro… Come vedono, Nikita e Pablo questa città? Come la vede, lei?
In un romanzo protagonista sia tutto: i personaggi, la lingua, il ritmo, lo stile, le ambientazioni, l’atmosfera, lo scenario, i luoghi. Roma è, per Nikita e Pablo, allo stesso tempo la città dell’età adulta, del dolore, ma anche dell’amore. Un amore malato e dipendente, quindi portatore di ferite, ma pure lenitivo, perchè è l’unica cosa che trascende l’eroina. Tutte le città, in Devozione, sono una sorta di metafora: Bari dell’infanzia, ma anche dell’incontro con l’eroina. Bologna del sogno, dell’onnipotenza della giovinezza. Roma del momento in cui si cresce, e si impatta contro la realtà. Napoli dell’orrore e delle meraviglie: un paese dei balocchi. O qualcosa di simile.
Negli anni Sessanta, Pier Paolo Pasolini poteva parlare di periferie o di borgate. I tipi come Nikita e Pablo se stavano confinati là, secondo una logica declinata in termini di dentro e fuori. Oggi?
Oggi è tutto più complicato. Ad esempio, non esiste un tipo eroinomane. Ecco perchè ho pensato che un romanzo come Devozione avesse ragion d’essere. Col metadone, gli eroinomani possono condurre una vita apparentamente normale, non devono scegliere: la droga o il lavoro, la droga o una vita-fintamente-normale.
L’eroina è inguainata in una pellicola silenziosa. L’eroinomane non lo vedi più morto ai bordi della strada, con la siringa nel braccio. Né vedi la sua malattia – l’epatite c, il killer silenzioso – sul suo corpo, sulla sua faccia. I trafficanti tagliano molto l’eroina: così le overdose diminuiscono, e i media non ne parlano. Oggi l’eroina è dappertutto: sudola, una sorta di It alla Stephen King, c’è ma non si vede. Per quanto riguarda le periferie, recentemente ho visto un servizio televisivo in cui due ragazze di Tor Bellamonaca dicevano: non abbattiamola, è bella. Puliamola, rendiamola più vivibile. Non penso che erigendo muri, abbattendo quartieri, azzittendo persone si combatta la disperazione, in tutte le sue forme. Penso che l’arma sia il coraggio di parlarne. Ho scritto il mio romanzo anche per questo: per creare uno strappo, una crisi nel silenzio.
Tanto Nikita che Pablo, quanto i tossicomani del libro, si muovono secondo una “mappa” che si adegua a un “paesaggio urbano” già profondamente mutato. Hanno la cartina delle basi, i buchi e i posti dove si vende e a che condizioni eroina… Il vivere in un quartiere “alto” avrebbe forse risparmiato o forse avrebbe condannato “prima” a questo inferno gente come Nikita e Pablo?
Nikita viene da Bari, da una famiglia borghese, da un quartiere ricco. Pablo tutto il contrario: viene da un quartiere povero, da una famiglia povera. Tuttavia, entrambi scelgono di trasferirsi a Roma. Voglio dire: non ci sono motivi per diventare eroinomani. Non c’entrano i traumi che hai avuto – tutti li abbiamo – non c’entrano i tuoi genitori, o il posto dove vivi. Non c’entra più. O meglio: non basta. Come non basta una famiglia serena per fare un figlio sereno, così non basta un luogo degradato per fare un uomo disperato. Nikita si interroga spesso su questo: dov’è iniziato tutto? Quando ho cominciato a studiare gli eroinomani, pensavo di trovare traumi dappertutto: che li giustificassero. Invece, ho trovato tanti eroinomani ricchi, o che avevano avuto vite felici. Davvero è tutto molto più complesso, e tutto molto, molto più pericoloso.
Ragazzi e ragazze di Devozione – non parlo solo dei protagonisti, ma anche delle figure senza nome che si intravvedono sullo sfondo – sembrano presi da una sorta di febbre, Una febbre fredda. I loro corpi soffrono e amano, si trasformano, e muoiono ogni giorno, eppure non muoiono mai, nelle forme che siamo soliti concedere alla morte. Come i passeggeri dell’R5 – l’autobus napoletano che porta ai quartieri dello spaccio – è come se la loro morte coincidesse con un azzeramento dell’empatia e con una sospensione della storia (niente rivoluzione tecnologica, niente 11 settembre… solo il silenzio o un linguaggio in codice, che parla di basi…)…. Nel frattempo nessuno guarda, dentro quell’autobus, che a me è parso una sorta di Narrenschiff, una nave dei folli postmoderna …
Quello che dici rende perfettamente l’atmosfera che volevo permeasse il libro, ti ringrazio. Sì, l’hai detto tu, siamo tutti, a nostro modo, dei non-morti. Allo stesso tempo, però, l’eroinomane non cerca la morte, ma, come tutti, la fine del dolore. Quello dei protagonisti, e delle figure sullo sfondo, di Devozione, non è un canto di morte, ma una marcia di vita. Nonostante tutto. Nessuno vuole morire.
Come è stato il lavoro per la stesura del libro? Ha raccolto storie? È stata o ha vissuto a contatto con questo mondo? Se ne è sentita immune?
Per cinque anni ho passato molto tempo con gli eroinomani. Mi sono finta una di loro. Sono stata a Secondigliano, nei sert di mezza Italia, a Roma, a Bologna, nelle comunità fingendomi anche malata di epatite c. Immune non ne sono rimasta, per niente. Ho avuto paura: del confine, labile, effimero, tra un eroinomane e tutti gli altri. Ognuno di noi è dipendente. Ognuno di noi, in certi momenti della vita, o forse sempre, è come soffocato da qualcosa che risucchia tutto il resto.
Si nota che ha richiesto molta ricerca “sul campo”, ma la scrittura non risente affatto di quell’eccesso di “prossimità” che – è la mia opinione, beninteso – porta molti esordienti a scadere in una sorta di empatia rovesciata…
Ti ringrazio, quello che dici è molto importante per me. Beh, ho cercato di lasciar sedimentare il più possibile. Di essere allo stesso tempo occhio interno e occhio esterno. Di non farmi risucchiare, di non dare delle risposte ma porre delle domande. Di non dare giudizi, ma di guardare, di dire. Poi, il momento dell’editing con Rosella Postorino, editor di Einaudi Stile Libero, è stato fondamentale: senza quel lavoro, Devozione sarebbe sicuramente molto meno efficace, molto meno riuscito (se, anche pochissimo, è riuscito). Credo tantissimo nel lavoro di lima, di riscrittura, di taglio: secondo me l’ispirazione è solo il 5, il 10% di tutto il lavoro dello scrittore. La cosa più importante è il sudore, è l’applicazione, è la dedizione. Sto scrivendo un nuovo libro. Per ora preferisco non parlarne. Spero, però, che verrà pubblicato entro il 2011. Nel frattempo, come sempre, sto leggendo. Tanto, il più possibile.
Non trova che Pier Paolo Pasolini, spesso descritto come un nostalgico, avesse fondamentalmente ragione, quando negli ultimi giorni della sua vita descriveva i corpi dei “sottoproletari” devastati e deformati più dal consumo, che dalla miseria? Una mutazione radicale, “antropologica” scriveva allora Pasolini, che coincide con l’ingresso nella società di una nuova droga: lo stordimento…
Pasolini ha avuto il merito di guardare più avanti, e più a fondo, di tanta gente del suo – e del nostro tempo. Libri come Petrolio sono indimenticabili: per studiarli davvero ci vorrebbero anni. Scrittori così sono, secondo me, fondamentali: per la crescita non solo di chi legge, di chi scrive, ma della società. Scrivere senza paura, sinceramente, senza proteggersi, senza tutelarsi: Pasolini, Fenoglio, Walter Siti e molti altri – per parlare solo degli italiani – l’hanno fatto: e sono i miei eroi.
[da Vita, 22 ottobre 2010]
tysm, n. 1, dicembre 2010
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