philosophy and social criticism

Legale/Illegale

Toni Negri

Il principio di legalità è innanzitutto, dal punto di vista della tradizione giuridica, il principio di supre­mazia della legge. Ma non è solo questo: è anche il principio della «conformità formale» di tutti gli atti dell’amministrazione e della giurisdizione all’ordina­mento legale, costituzionalmente garantito. Da que­sto punto di vista la distinzione della legalità dall’illegalità è assolutamente semplice: sia sul lato oggettivo che sul lato soggettivo dell’ordinamento giuridico, le­gale è ciò che è conforme alla legge, illegale è ciò che è difforme, legale è ciò che è concesso o sollecitato dai soggetti, illegale è ciò che non è permesso o re­presso.

Il principio moderno di legalità – in quanto distin­to da quello di legittimità – nasce assieme allo svilup­po politico delle fortune borghesi. Esso si identifica innanzitutto nella pretesa dei Parlamenti di interve­nire – a fronte del sovrano – in materia tributaria. Questo intervento tende poi, nella storia costituzio­nale europea, a estendersi al controllo di tutta l’atti­vità esecutiva dello Stato quando questa tocca i «di­ritti fondamentali». Finalmente i Parlamenti fissano il principio della supremazia della legge in quanto su­premazia della loro produzione giuridica. Alla supre­mazia segue l’esclusività: con la nascita dei regimi democratico-costituzionali la legalità diviene infatti la fonte di produzione giuridica esclusiva e assume estensione e validità generali, imponendo appunto il principio della «conformità formale» a tutta l’attività amministrativa e giurisdizionale dello Stato. Senza questa forza di espansione storica del principio di le­galità sarebbe impossibile descrivere la genesi dello Stato di diritto e la vicenda della sua estensione e sta­bilizzazione.

Ora, se esistesse un principio moderno dell’illega­lità, esso dovrebbe essere confrontato alle caratteri­stiche che siamo fin qui venuti identificando per la legalità: dovrebbe consistere quindi nella negazione dell’esclusività e della supremazia, nonché della cen­tralità della legge come fonte del diritto, dovrebbe in­vece affermare il valore giuridico positivo delle rottu­re di conformità e di legalità ed esaltare la produzio­ne spontanea di norme sociali. Ma neppure questo è sufficiente a stabilire un principio di illegalità. Gli istituzionalisti moderni hanno infatti insegnato che non esiste sostanziale differenza fra il diritto dello Stato e quello delle società non codificate o addirit­tura criminali. La differenza non sarà quindi defini­bile se non nel momento in cui differenti ordinamen­ti giuridici, anziché concorrere, come sarebbe per­messo dall’omologia della struttura, contrastano ra­dicalmente su tutti i punti normativi. Il che significa che il principio di legalità non è solamente esclusivo di altre fonti, ma anche di altri contenuti: esso è in­somma ontologicamente determinato.

Il discorso va dunque riportato sul terreno dei contenuti. Quando infatti si riduce il principio di le­galità al solo concetto di conformità o di razionalità formale (come fanno Max Weber e i sociologi che si richiamano a lui), si rischia di perdere di vista o di indebolire la pregnanza storica del concetto – che trova la sua realtà, appunto, nell’essere il prodotto di uno specifico passaggio nell’organizzazione dello Stato moderno, la supremazia della legge su ogni al­tra fonte del diritto, in quanto trionfo della borghesia. I contenuti della legalità sono dunque strettamente connessi ai principi che reggono l’ordine sociale e produttivo borghese. Karl Marx ha dimostrato con molta eleganza e sofisticatezza come anche i più pu­ri diritti fossero funzione di interessi dei ceti socio­politici che gestivano l’accumulazione e dirigevano la divisione e la gerarchizzazione del lavoro: i socio­logi contemporanei non hanno potuto che conferma­re le ipotesi marxiane. Nel principio d’illegalità, dun­que, anche quando si tratta di delitti completamente legati alla forma di vita borghese, c’è qualcosa che con quest’ultima rompe. Mentre la legalità è concet­to sempre asimmetrico nel senso che i valori della borghesia prevalgono in essa anche quando valori o esperienze della vita proletaria vi hanno spazio e protezione – al contrario, l’illegalità mostra un’inver­sa asimmetria: anche quando il rifiuto o la rottura dell’ordinamento giuridico non hanno modalità pro­letaria, pure si caratterizzano come antiborghesi.

Nella fase più recente alcuni dei presupposti che costituivano il principioo di legalità e la sua forza nell’ambito delle attività esecutive e giurisdizionali, sembrano venuti meno. Mentre infatti l’attività am­ministrativa (consideriamo per ora questo aspetto, piuttosto che l’attività giurisdizionale) è venuta svi­luppandosi enormemente, il potere legislativo ha te­nuto male il passo. La validità formale del principio di legalità non riesce a risolversi senza residui nell’ef­fettività dell’ordinamento. Ne conseguono l’espan­dersi dell’attività esecutiva e amministrativa del go­verno a discapito della sovranità del Parlamento, il moltiplicarsi di attività di intervento che non hanno nulla a che fare con il controllo legale, l’affievolirsi della separazione dei poteri, insomma la crisi dello Stato di diritto. In questa situazione potrebbe dun­que sembrare che il concetto di legalità sia divenuto qualcosa di molto astratto, di sostanzialmente inef­fettivo – quasi un principio trascendentale cui richia­marsi ma incapace di concrete conseguenze sull’or­dinamento. In realtà non si tratta di questo. La crisi dello Stato di diritto non toglie di mezzo la legalità ma ne mostra una genesi complessa e articolata. Va­le a dire che, nella crisi, la legalità, lungi dal costitui­re la fonte esclusiva, la matrice solitaria dell’ordina­mento giuridico, è stata costretta ad aprirsi a ele­menti esterni alla sua autoproduzione. Essa si costi­tuisce oggi, negli Stati del capitalismo maturo, come mediazione e sintesi conclusiva di elementi prove­nienti dalla pluralità delle istanze sociali di produ­zione del diritto, piuttosto che come espressione del monismo statuale. Da questo punto di vista l’illega­lità non è semplicemente quello che il principio di le­galità ritaglia ed esclude da sé: essa è anche parados­salmente implicata nel formarsi del principio di lega­lità, essa è conclusa nell’articolarsi delle movenze so­ciali produttive del diritto.

Per meglio spiegarsi, si può forse dire che oggi, nella crisi dello Stato di diritto, la legalità, lungi dal costituire un regno di formale autosufficienza, è di­venuta un elemento strumentale della vita sociale. Di­versamente da quanto pensava Max Weber, il princi­pio di legalità non supera, infatti, né esclude quello di legittimità ma è piuttosto piegato funzionalmente entro il tessuto semantico e pratico di quest’ultimo. D’altra parte il principio di legittimità afferma la sua superiorità distinguendosi fortemente rispetto alle definizioni tradizionali e rispetto alle figure assunte in diversi periodi storici: lungi dal definirsi come ti­tolo trascendente o trascententale in nome del quale l’obbedienza è richiesta, esso si presenta come prin­cipio duplice, effettivo, che vive della sintesi di alme­no due coppie di opposti, quella che si pone vertical­mente fra potere e consenso, e quella che si pone orizzontalmente fra monismo e pluralismo delle fon­ti di produzione giuridica. È a questa figura della le­gittimità che la legalità è costretta. La legalità è un li­mite di raffinamento delle tensioni che sono in movi­mento attorno alla costituzione di un orizzonte legit­timo.

Se guardiamo ad esempio allo Stato dei partiti, co­me forma dello Stato che ha sostituito e modificato la forma Stato di diritto, attribuendo ai partiti (e quindi alla dinamica partecipazione che questi orga­nizzano in termini di massa) tutte le funzioni previ­ste di mediazione costituzionale – bene, in questo ca­so dovremo definire la legalità come legittimità del movimento concorsuale e organico che i partiti de­terminano nel prendere possesso dello Stato. Il pote­re si costituisce così in ordinamento fuori dalla stret­ta legalità, attraverso i partiti – mostra poi nella lega­lità la sua figura ricomposta. Che dire a questo punto dell’illegalità? In questo quadro essa sembra poter porsi, piuttosto che come alternativa alla legalità, co­me elemento parzialmente e funzionalmente costitu­tivo della legittimità: spetterà infatti ai partiti sele­zionare i momenti di illegalità che, di volta in volta, possono essere riassunti nel meccanismo di Costitu­zione dell’ordinamento effettivo. Forza, questa, o de­bolezza del principio di legalità? $ chiaro comunque che lo Stato dei partiti non è ancora riuscito a pro­durre un principio sostitutivo di quello della legalità: una risposta al quesito proposto sarà quindi impossi­bile. L’ambiguità permane.

L’ambiguità permane e si approfondisce quando si considerino situazioni di emergenza nella vita dello Stato contemporaneo. In questo caso, il tema del rapporto fra legalità e illegalità che sembra così sof­ferto nella vicenda della crisi dello Stato di diritto, è invece decisamente, e senza molte difficoltà, risolto nel senso della liceità del ricorso a strumenti eccezio­nali di repressione. L’illegalità, in quanto strumento necessario dello Stato, è legittimata. Ma il tema dell’emergenza non è solamente quello legato alla crisi politica o istituzionale: la vita degli Stati con­temporanei del capitalismo maturo è infatti un coa­cervo indissolubile di elementi giuridici ed economi­ci, etici e comunicativi. La crisi può toccare con in­tensità ognuno di questi snodi del potere e ivi deter­minare effetti di emergenza. Il ricorso a forme di in­tervento legittimo fuori dalla legalità diviene allora lecito anche in campi che poco hanno a che fare con le supreme necessità di riproduzione della macchina statale. La concezione della ragion di Stato, in que­st’ultimo secolo, s’è banalizzata: il regime del segreto e quello dell’intervento eccezionale si sono resi tal­mente frequenti e notori da configurare una specie di machiavellismo sociale a uso di tutti i livelli dell’amministrazione, giuridica ed economica quan­to meno. Di qui uno strano paradosso: e cioè il fatto che, proprio nel momento in cui è più messo in di­scussione e sostituito da altre pratiche amministrati­ve, il principio di legalità sembra estendere la sua sfera di applicazione – insisto, nel momento stesso in cui si affievolisce il suo potenziale di logicità e la sua intensità validante. Per dirla con un giurista italiano, la portata del principio di legalità non è tale «da im­porsi a ogni attività dell’esecutivo amministrazione», si svolge piuttosto «attraverso tutta una possibile se­rie di sfumature e gradazioni intermedie che danno il tono, più che la forma, dell’amministrazione». In effetti la legalità è ormai solo un orizzonte. L’illega­lità, e cioè certi aspetti dell’attività dello Stato e dei protagonisti dell’attività che da esso sprigiona, dai partiti, dalle sezioni del capitale, dai grandi corpi amministrativi, ideologici, ecc., è alla medesima stre­gua trattenuta come elemento formativo della legitti­mità. Quanto a questa legittimità, è presto detto che cosa sia: è il risultato della mediazione fra le diverse funzioni del comando statuale, è il tramite di un pro­cesso di assestamento continuo, è lo strumento at­traverso il quale il ciclo politico viene regolandosi ed estendendosi. La legalità e l’illegalità si equivalgono quindi sul terreno della concreta riproduzione del si­stema.

Particolarmente interessante è, in questo quadro e tenute presenti le premesse, la funzione dell’ammini­strazione e dell’attività giudiziarie. Nella crisi dello Stato di diritto e nel costituirsi dello Stato di legitti­mità, il potere giudiziario assume due funzioni. La prima è quella tradizionale della repressione di tutte le forze che attaccano la Costituzione materiale dello Stato, che quindi determinano pericoli per la sua ri­produzione. La seconda funzione è quella d’interve­nire nel determinare gli equilibri interni della classe dirigente. Nel primo caso il potere giudiziario appli­ca la legalità, nel secondo caso il potere giudiziario amministra la corruzione, contribuisce alla creazione della legittimità, piega la legalità alla legittimità. Il «potere neutro» definito da Montesquieu come ga­rante dell’equilibrio istituzionale riproduce la sua funzione in un ambito nel quale la neutralità non ha nulla più a che vedere con la trasparenza – il potere giudiziario è al contrario sempre più impiantato nel­la struttura e nella macchina di riproduzione del po­tere, è coerente con queste finalità e nel funzionare in questo modo definisce in maniera nuova gli stessi contenuti della sua funzione, della sua figura corpo­rativa.

Veniamo ora, brevemente, all’altro aspetto o con­seguenza di questa trasformazione nel rapporto fra legalità e illegalità. Sul terreno sociale il diluirsi della differenza fra legale e illegale corrisponde a fenome­ni profondi che toccano sia la produzione economica che la riproduzione sociale. Quando la linea di diffe­renza fra legalità e illegalità diviene sottile o ambi­gua si assiste, nel sociale, al costituirsi di organizza­zioni che di quest’indistinzione fanno un elemento produttivo. L’epoca contemporanea ci ha messo dinnanzi a fenomeni imponenti su questo terreno. L’in­dustria sommersa, quella che utilizza mercati del la­voro illegali, quella che non paga il fisco, i rapporti fra la grande industria e i grandi servizi normalizzati e l’insieme delle attività produttive o di servizio ille­gali o addirittura criminali, il riciclaggio del denaro tratto da attività illegali e la sua immissione in cicli finanziari legali, ecc. – questi fenomeni di grandissi­me dimensioni, attorno ai quali – addirittura – si è potuto individuare il decollo economico di intere zo­ne continentali, entrano dunque nell’istituzionalità statuale del capitalismo maturo. Ne rappresentano persino linee di sviluppo strategico. Qui vanno sotto­lineati semplicemente per mostrare come la discus­sione sul rapporto fra legale e illegale e sulla nuova costituzione del concetto di legittimità non sia astratta: essa si riferisce invece (e trova luogo seman­tico) entro enormi dimensioni di trasformazione so­ciale e politica.

[tratto da: Toni Negri, L’inverno è finito. Saggi sulla trasformazione negata (1989-1995), a cura di Giuseppe Caccia, Castelvecchi, Roma 1996 ]

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ISSN:2037-0857