philosophy and social criticism

Nati per leggere?

Marco Dotti

Non siamo nati per leggere. A ricordarlo è Maryanne Wolf, neuroscienzata che da anni, nel Center for Reading and Language Research della Tuft University da lei diretto, studia il fenomeno della lettura e le sue «disfunzioni». Nel suo Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge (traduzione di Stefano Galli, Vita & Pensiero, Milano 2010), la Wolf ricorda che l’invenzione della lettura ha comportato una parziale riorganizzazione del nostro modo di pensare, «mutando l’evoluzione intellettuale della nostra specie».
Da circa seimila anni, dunque, il cervello umano è, letteralmente, un cervello che legge. Ma la storia di questo cervello, osserva ancora la Wolf, è destinata a mutare, anzi: sta già mutando, davanti ai nostri occhi e, soprattutto, sotto falangi e polpastrelli delle nostre dita che incessantemente battono su una tastiera di plastica. Pochi specchi, però, «riflettono meglio della lettura la sbalorditiva capacità del cervello umano di riorganizzarsi per apprendere una nuova funzione intellettiva», scrive l’autrice. Per questo è importante, soprattutto ora che se ne colgono segni di cambiamento, osservare la lettura e il «cervello che legge».

All’origine dell’attitudine del cervello a presentarsi come un’architettura aperta e a imparare a leggere c’è la sua indubbia capacità di creare collegamenti, tra strutture e circuiti originariamente preposti a altri processi. Oggi, sappiamo che gruppi di neuroni creano tra loro collegamenti nuovi, ogniqualvolta acquisiamo una capacità, e l’apprendimento della lettura è stato possibile grazie a questa innata plasticità del cervello umano. Appena appreso a leggere, il cervello umano cambia per sempre, sia fisiologicamente, sia intellettualmente. I prossimi decenni porteranno però nuove trasformazioni della nostra capacità di comunicare, nei supporti di lettura (per la prima volta gli e-book irradieranno luce diretta, e non riflessa come avviene sui libri di carta), quando anche grazie a strumenti diversi attiveremo nuovi collegamenti cerebrali, spingendo la nostra evoluzione intellettuale in direzioni altre e, certamente, impreviste.

Leggere, rimarcava Proust nelle sua nota Sur la lecture, è il «fruttuoso miracolo di una comunicazione nel mezzo della solitudine». Per lui, la lettura era una specie di «santuario» capace di aprire molteplici piani di realtà che, altrimenti, non sarebbero mai stati conosciuti. Ciascuno di questi piani, ricorda la Wolf, trasforma la vita intellettuale dei lettori, senza obbligarli ad alzarsi dalle loro poltrone. Complementare al santuario di Proust è, per la Wolf, il calamaro, il cui assone centrale viene studiato a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso per comprendere il meccanismo di attivazione e trasmissione dei segnali da parte dei neuroni e osservare i processi cognitivi di funzionamente del cervello. A livello biologico (il calamaro) e culturale (il santuario di Proust), la lettura ha permesso e permette alla specie umana di produrre pensieri nuovi, superando e articolando l’informazione già data.

La cultura per come la conosciamo oggi è, secondo Maryanne Wolf, figlia di un cervello che legge. Ma che cosa ne sarà di questa cultura e di questo cervello, quando la lettura sarà radicalmente mutata? Che cosa ne sarà della lettura quando la forma-libro verrà sostituita da nuovi supporti? L’avvento del digitale ha privilegiato l’immagine, rispetto alla scrittura, al punto che Jean Baudrillard, alcuni anni fa, poteva legittimamente affermare che oramai nessuno scrive più secondo il tradizionale sistema alfabetico ma, grazie alle varie articolazioni dei programmi di video-scrittura, lavora su «immagini» : battute su una tastiera, con lo sguardo rivolto altrove, viste e rivista sullo schermo di un personal computer. È sulle sollecitazioni di questo passaggio di portata epocale che il cervello sta rimodulando i propri parametri.

I digital native ricaveranno ancora informazioni, intuizioni, emozioni dalla lettura? In particolare, dalla lettura di un libro? Al termine del suo affascinante studio, Maryanne Wolf scrive: «La storia naturale dell’evoluzione della lettura ci offre un racconto straordinariamente ottimistico, ma non privo di inviti alla cautela, sul raggiungimento dei più alti e profondi livelli di lettura. (…) Socrate temeva più di ogni altra cosa che la “sembianza di verità” trasmessa dall’apparente stabilità della lingua scritta finisse per cancellare la ricerca della vera conoscenza e, con quest’ultima, la virtù umana come la conosciamo. Socrate non scoprì mai il segreto che sta al cuore della lettura: il tempo che offre al cervello per pensare e concepire pensieri più profondi di prima. Proust conosceva quel segreto, e noi anche. Il misterioso, invisibile dono del tempo per pensare oltre è la più grande conquista del cervello che legge; quei millesimi di secondo inseparabili dal cervello sono la base della nostra capacità di promuovere la conoscenza, valutare la virtù e articolare ciò che un tempo era inesprimibile – e che, ora che è espresso, è diventato la piattaforma dalla quale ci tufferemo o spiccheremo un salto».

Il salto è verso o, con più precisione, irreversibilmente dentro quella quarta rivoluzione, di cui la discussione pro o contro l’e-book coglie solo un aspetto. Un salto al centro dell’ultimo, rigorosissimo lavoro di Gino Roncaglia. Nella Quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro (Laterza, Roma-Bari 2010), Roncaglia ricorda in sostanza che, dopo il passaggio dall’oralità alla scrittura (prima rivoluzione), quello dal volumen al codex, ossia dalla forma-rotolo alla forma-libro (seconda rivoluzione) e quello della stampa a caratteri mobili, siamo ora a un nuovo importante punto di svolta nel mondo della testualità e della lettura.

Una rivoluzione, quest’ultima, in cui è però veramente difficile orientarsi, ma nella quale, volenti o nolenti, siamo tutti coinvolti. In che cosa consiste questa nuova rivoluzione? In buona sostanza, consiste nel passaggio al digitale anche della sfera della testualità scritta e dei supporti per la lettura. L’introduzione e la diffusione del personal computer prima e delle reti poi offrono ormai ai testi supporti diversi da quelli tradizionali, diversi in primo luogo dalla carta stampata e dai libri. La pagina è sostituita dallo schermo (da diversi tipi di schermo), i caratteri stampati si trasformano in bit e il libro – o almeno, il libro al quale siamo abituati – cambia tanto radicalmente quanto, questo il punto dolente della questione, inconsapevolmente. Per la maggior parte della popolazione attiva che lavora in paesi altamente industrializzati, infatti, il digitale è ormai una realtà familiare e quotidiana, almeno se ci riferiamo all’uso di strumenti e contenuti informativi digitali, ma pur sempre «sconosciuta».

Restano due tipi di problemi di enorme importanza. Il primo problema è dato dal cosiddetto digital divide: la competenza di base nell’uso degli strumenti – teorici e tecnologici – offerti dal mondo digitale, e la possibilità di accedervi e utilizzarli, è spesso limitata sia per i cittadini meno giovani, sia per quelli svantaggiati economicamente, sia per le aree più povere e meno sviluppate del pianeta. Il secondo problema è un problema di comprensione e uso consapevole degli strumenti, e corrisponde alla connotazione di un’altra espressione inglese, information literacy. Anche fra chi ha accesso al mondo digitale, e magari ne usa quotidianamente gli strumenti, spesso mancano le competenze di neo-alfabetizzazione indispensabili per la ricerca, il reperimento, la gestione, la validazione, la conservazione dell’informazione. La frequentazione del mondo digitale resta in tal modo fondamentalmente passiva.

In ogni caso, il dibattito e il clamore mediatico sulla fine del libro che, di tanto in tanto, tiene occupati intelletuali e consulenti in cerca di miglior partito sembra dimenticare che nel digitale ci siamo già, e da anni. Ma, soprattutto, non tiene in debito conto – cosa che Roncaglia sottolinea, al contrario, con ampiezza e dovizia di rifererimenti – che non esiste testo, senza il supporto che lo offre alla lettura e senza la circostanza in cui quel testo viene letto. Ma il supporto non è mai neutrale e indifferente al contenuto. Al contrario, le caratteristiche del supporto e, più in generale, gli strumenti e il contesto materiale della lettura (cosa che aveva capito a fondo il Marcel Proust richiamato dalla Wolf) «costituiscono l’orizzonte al cui interno certe forme di testualità e certe tipologie di lettura risultano possibili».

Per questa ragione, discutere delle caratteristiche e dell’evoluzione delle interfacce di lettura significa discutere tanto di quali tipologie di testi disporremo in futuro, quanto di come li leggeremo. Un problema che Isaac Asimov, richiamato da Roncaglia in apertura del suo bel lavoro, aveva posto al centro di un racconto, Chissà come si divertivano, del 1951. Nel 2157, due ragazzini trovavano un vecchio libro di carta, dedicato alla scuola. «Oggi Tommy ha trovato un vero libro!», annota Marta nel proprio diario. «Si voltavano le pagine, che erano gialle e fruscianti, ed era buffissimo leggere parole che se ne stavano ferme invece di muoversi, com’è; previsto che facessero: su uno schermo, è logico. E poi, quando si tornava alla pagina precedente, sopra c’erano le stesse parole che loro avevano già letto la prima volta. “Mamma mia, che spreco”, disse Tommy, “quando uno è arrivato alla fine, che cosa fa? Lo butta via, immagino”». Un problema non da poco, non c’è che dire.

[da Il manifesto, 3 ottobre 2010]

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