philosophy and social criticism

Perché il terrore terrorizza?

 di Pietro Barbetta

Il gesto di un uomo che decapita una persona è Terrore. Così definito per designare quanto accadde tra il marzo 1793 e il luglio 1794 in Francia. C’è una grande sottrazione di responsabilità individuale nel terrore, come nella guerra. Il gesto non è compiuto dal soggetto, il soggetto scompare, diventa boia. In virtù di una posizione dello Stato il soggetto diventa castigatore, vestito di rosso e non di nero, di nero è vestita la morte stessa nella forma simbolica propria.

La vittima ha attaccato al collo una catena. Il boia è un silenzioso operaio di macelleria umana, sulla scena dell’esecuzione assume una posizione discreta, scompare. Non è lui, è lo Stato. È soggetto privo d’intenzione, manovra una macchina che non gli appartiene, esegue ordini superiori. Siccome tale svolge un lavoro banale.

Non è più così. Se diamo credito a una recente decapitazione, si tratterebbe di un individuo inglese. Se fosse un inglese, un europeo, saremmo di fronte a un paradosso. Il membro di una società che è, per accordo generale, la patria filosofica e politica dei diritti umani, dell’habeas corpus, si trasforma in castigatore. Il boia non si occulta più, parla come un soggetto, si rivolge direttamente a Obama, parla la stessa lingua materna, non rivela la sua identità personale, ovviamente, ma rivendica la propria libertà di adesione allo Stato islamico, libertà di decapitare l’altro.

Lui e lo Stato s’identificano: lo Stato è dentro di me io sono dentro lo Stato, delirio psicotico. Attenzione però, il soggetto in questione non è psicotico, tutt’altro, non confondiamoci. Il soggetto è normale, agisce un gesto psicotico in nome di uno Stato, lui e lo Stato, in quel momento, sono la stessa persona, lo Stato è incarnato in lui e lui è organo del corpo statuale. Qui non c’è nulla di banale, pensano davvero che chi non condivide questo progetto di sterminio è degno di sterminio: chi non è con noi è contro di noi. Il soggetto è collettivo e individuale nello stesso momento, soggetto molare, rigido.

Qui c’è godimento sadico, Hannah Arendt si sbagliò nel giudicare tutta la vicenda nazista nei termini di “banalità del male”. Aveva ragione nel dire che per molti perpetratori l’obbedienza rendeva normale lo sterminio, tuttavia molti di loro godevano di questa posizione, i più crudeli, altri erano fantocci al loro servizio, altri ancora lo facevano per il terrore di essere sterminati a loro volta, ad altri sembrava normale, altri lo facevano contro la loro volontà, altri ancora con l’idea che un sacrificio poteva servire a salvare gli altri, ecc. Si tratta di una serie, una proliferazione, non di una sola questione. Anche perciò si parla di zona grigia.

Ma qui, in queste vicende recenti, c’è ancora una zona grigia? Qui, dove s’inneggia allo sterminio degli ebrei, dei cristiani, delle minoranze religiose, degli islamici sciiti, degli islamici moderati, dei laici, degli atei, dei buddisti, ecc., ecc.; qui esiste ancora una zona grigia? C’è ancora la possibilità di un Perlasca che, console supposto spagnolo, può salvare qualcuno? Non mi pare, non ci sono alleati, non si fanno prigionieri, non c’è alcuna possibilità di salvezza, per nessuna ragione. Questo ci terrorizza.

Ci terrorizza che molti aderenti a questo Stato siano occidentali e giovani. Che è successo a questi giovani occidentali, figli di questa lingua materna, figli nostri, abitanti della democrazia? Che cosa abbiamo fatto loro? In che modo li abbiamo istigati? Tra costoro ci sono figli di terza generazione di famiglie che sono considerate estranee all’Europa per via delle origini, mai interamente riconosciute come parte dell’occidente.

Gli studi post-coloniali ci hanno insegnato a leggere, nell’interlinea di molti discorsi europei, le sfumature discriminanti, le locuzioni à la Gobineau, nascoste dietro molte forme d’insulto, di ghettizzazione, di rifiuto ad affittare la casa per ragioni etniche, di discriminazione lavorativa. Ma ci sono anche tanti giovani cosiddetti “caucasici” – sapete che ancora nelle ricerche “scientifiche”, come negli archivi anagrafici e di pubblica sicurezza di molti paesi occidentali ci sono distinzioni tra “caucasici” e altre tipologie razziali?

Forse negli ultimi vent’anni, più che la democrazia e i diritti umani, abbiamo insegnato ai giovani che, per diventare adulti, bisogna sgomitare, vincere gare d’appalto, sottomettersi al capo, aprire case da gioco, non far troppo caso a una multinazionale che inquina il golfo della California, esportare la democrazia, parlar male degli ebrei, parlar male degli arabi, assumere un atteggiamento blasé, annoiato e indifferente, verso i morti che approdano sulle nostre coste, ecc., ecc.

Insomma, abbiamo salvaguardato, nel concreto delle nostre azioni, parlo dei governi, non dei singoli, la libertà, la solidarietà, l’amore, i diritti dell’uomo e del cittadino? Credo di no. Non che questo giustifichi le adesioni a organizzazioni naziste, sedicenti islamiche – non solo Isis, anche Hamas, per esempio. Queste adesioni sono soggettive, scelte terribili, terrorizzanti, appunto, ma i valori occidentali, in questi anni, sono stati erosi dagli stessi governi occidentali.

Poi c’è un altro paradosso, il paradosso mediatico. Se questi video non fossero visti, se non se ne parlasse, ciò farebbe venir meno lo scopo per cui sono stati fatti, per gli assassini il loro gesto sarebbe inutile. Come tacere, come non poter urlare di fronte a tanta brutalità, come non far conoscere e denunciare queste violazioni di ogni principio di esistenza e convivenza civile? Come non ricordare che già una volta tutto ciò fu ignorato? Come non mantenere una memoria del futuro?

Il video è patinato, come un messaggio pubblicitario, ricorda alcuni clip dei profumi o delle automobili – l’uomo che non deve chiedere mai. Nel suo vestito nero, disegnato da uno stilista, il soggetto perpetratore sta dietro o di fianco alla vittima, che è costretta a indossare una casacca medica arancione, operazione sanitaria. Anche questo terrorizza, la familiarità di certe immagini, l’Un-hemliche (in-quietante). Big Jim prende vita, si anima e decapita l’altro, riempie i suoi occhi di sabbia fino a farli uscire dalle orbite.

Date queste premesse, la visione delle crudeltà delle decapitazioni, delle fucilazioni di massa, qui e ora, ci fa tremare. Non si tratta più di testimonianze di un passato che indigna, che bisogna ricordare, qui il terrore ha un effetto sul corpo, si presenta come una possibilità per il nostro domani, fa piegare le ginocchia, le vittime sono sempre in ginocchio, forse in piedi non si reggerebbero. Il terrore è parte di quel mistero tremendo e oscuro, non luminoso, che si mostra nella morte, è pena di morte, angoscia e attesa sono le sue premesse.

Qui, se la psicoanalisi parla dell’evaporazione paterna si sbaglia. Qui i padri non sono per nulla liquidi, sono marmorei, come tombe. Qui è precluso l’orizzonte semiotico materno, la linea molecolare della flessibilità, il divenire-donna, l’amore. Qui le madri, le donne, non esistono più, sono annientate dalla superpotenza maschile. Si tratta di non essere ripetitivi, si tratta di riconoscere il contributo delle psicoanaliste. Qui ci aiuta Julia Kristeva, piuttosto che Lacan.

Come il cavaliere Antonius Blok del Settimo sigillo, il giornalista, il soldato, al ritorno dalle crociate, invece di riabbracciare la madre, incontra la morte. Le chiede tempo, la morte glielo concede. Inizia una lunga partita a scacchi, che la vedrà necessariamente vincitrice. Nella realtà del nostro quotidiano, è entrato un uomo vestito di nero, con un’arma da taglio nelle mani, sgozza, decapita, uccide l’amore materno, la madre.

Chi decapita si presenta come un soggetto ribelle, rivoluzionario. Non lo è. Il suo corpo ci appare come uno scheletro, sotto il panno che gli copre il volto c’è un teschio, costui non sceglie, non aderisce, è aderito, è necessitato, è la morte stessa. Qui c’è un eccesso di Legge. Accade quando si perde la complessità materna. Perciò terrorizza.

tysm literary review

vol. 12, no. 19

september 2014

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