philosophy and social criticism

Satō Makoto, visioni sul reale. Assoluta immediatezza/assoluta alterità in due documentari

" Satō Makoto"

Memories of Agano

di Matteo Boscarol

La visionarietà sembrerebbe essere il concetto che giace più lontano da quel tipo di opere che si inscrivono e che spesso identifichiamo nel frame filmico del documentario e, in senso più generale, della non-fiction, una distanza che si è creata a causa di una certa indeterminatezza o confusione terminologica derivata dal processo storico attraverso cui il significato di questi due termini si sono cristallizzati e sono giunti sino a noi.

Spesso si confonde infatti l’arte documentaria con documento o con il verbo documentare, termini che ne rappresentano solamente alcune delle possibilità espressive e in fondo, almeno per chi scrive, quelle più ovvie e meno interessanti dal punto di vista artistico, specialmente in una contemporaneità che è oramai saturata parossisticamente di immagini di reportage e di video giornalismo.

Ma il documentario è, come tutte le opere d’arte fondate sull’immagine, un atto di creazione che resta infinitamente aperta al discorso visionario e di rêverie, il cinema stesso nasce proprio come una sorta di documentario ante litteram.

I cosiddetti actuality film che i fratelli Lumière con la loro compagnia girarono in giro per il mondo agli inizi del secolo scorso, pur nella loro semplicità, o proprio per questo, si presentano allo spettatore contemporaneo come dei quadri astratti in movimento, provenienti da un luogo e da un periodo di assoluta alterità, nel senso che ci è praticamente impossibile immaginare l’esperienza che queste pellicole scatenarono nei primi spettatori. Robert J. Flaherty stesso, colui che viene identificato spesso come il capostipite del genere così come lo conosciamo oggi, nel suo seminale Nanook of the North (, 1922) fa ampio uso di ricostruzioni, il reale lo ricrea quindi e lo ricostruisce a partire da una sua visione sul e dentro il mondo.

Usando più di qualsiasi altro genere il materiale indessicale l’arte documentaria fin dai suoi inizi allora mette in discussione ed indaga lo stesso concetto di realtà da cui sembra trarre il suo motivo d’esistere, più che ogni altra opera d’arte visiva, il documentario incarna quell’impossibile percorso che cerca di mettere in immagini la cosiddetta realtà o dall’altro lato cerca di scardinarla dai suoi puntelli concettuali che la definiscono. Nel panorama dei documentaristi contemporanei il giapponese Satō Makoto, scomparso suicida nel 2005, è uno di coloro che si sono spinti più in là in questa riflessione per immagini volta a scardinare e riscrivere il genere.

Satō è stato uno dei documentaristi che più hanno indagato tanto l’essenza dell’immagine indessicale ed il suo rapporto con l’atto di rappresentare la realtà, quanto la costruzione finzionale che sta alla base del documentario, specialmente nelle due opere che prenderemo qui in esame il suo discorso è ancor più interessante in quanto intercetta marginalmente alcuni percorsi concettuali (senza una sua volontà esplicita peraltro) che già animavano quella Teoria del Paesaggio (fūkei-ron) nata, con più forti connotazioni politiche, nei primi anni settanta.

" Satō Makoto"

Satō Makoto debutta nel 1992 con Aga ni ikiru (Living on the River Agano), un’opera per la cui realizzazione vive per tre anni in un villaggio di mille abitanti nella montuosa prefettura di Niigata, zona colpita fin dalla metà degli anni sessanta dall’avvelenamento delle acque col mercurio, la tristemente nota sindrome di Minamata. A differenza del grande Tsuchimoto Noriaki che ha documentato l’impatto della malattia e le lotte degli abitanti di Minamata (da cui la malattia prende il nome) per un ventennio, Satō nel suo film ha cercato di creare un’opera dove la tragedia della sindrome è parte di una quotidianità che ha anche alcuni momenti di allegria e serenità.

“Il documentario è finzione” dichiarava spesso Satō e in Self and Others (id., 2000) questo credo è portato alle sue massime potenzialità nella realizzazione di un film che riflette sulla fotografia e sul rapporto tra sé e gli altri, fra soggetto che fotografa/filma e oggetto, un breve documentario che è anche un poema a guisa di collage sulla presenza nella nostra vita degli altri e di ciò che ci è esterno. Altri (gli Others del titolo che riprende quello di un libro del fotografo Gochō Shigeo) che con il loro semplice esserci affascinano e turbano, questo abbandono dello sguardo dell’ e sull’Altro ci riporta alla stupefazione di cui si diceva sopra degli actuality film, il fascino e la forza del film è quello di riuscire quasi ad azzerare 100 anni di storia del cinema e di riportarci a quel grado di visionarietà primordiale che sprigiona dalle cose, un angolo di strada, uno sguardo distratto di un passante, una macchina che passa su una strada di campagna.

Si inizia in un giardino dove la mdp indugia a lungo su un albero per poi sfumare dopo alcuni minuti nello schermo bianco del titolo e in alcune frasi scritte che ci introducono alla persona di Gochō Shigeo, fotografo che una grave malattia da bambino ha lasciato deforme e debolissimo, e che morirà nel 1983 a soli 36 anni. La struttura è circolare, come un lungo movimento di macchina, non un biopic ma un collage che con un abile montaggio mette insieme le impressioni che il fotografo ha lasciato su pellicola, foto e film amatoriali, e sulla carta, le sue lettere.

Ci sono lunghi periodi in cui la mdp in fisso indulge su particolari di esterni oppure su quello che fu lo studio del fotografo, l’assenza del commento, elemento fondamentale del documentario classico, è sostituita dalla lettura di alcune lettere che il fotografo inviò alla sorella durante i 15 anni che trascorse a Tokyo.

Oltre a preoccupazioni di carattere materiale, la salute sempre cagionevole, il suo tirare sempre la cinghia per poter liberamente dedicarsi alla fotografia, spesso in questi scritti ci sono delle preoccupazioni quasi filosofiche sull’atto del fotografare e sullo scorrere della vita in città catturata dai suoi scatti. In una bellissima lettera Gochō ricorda come quando a 4 anni, già costretto dalla malattia all’immobilità sul letto di un ospedale, l’unico “occhio” aperto sul mondo fosse rappresentato da un piccolo specchio rotondo in cui riusciva a far riflettere gli oggetti della stanza e talvolta anche scene dall’esterno, dal giardino, “quasi una giostra fantastica” in quanto spesso non distingueva il sopra dal sotto e le immagini ivi riflesse.

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Memories of Agano

Questo specchio fantasmagorico è una fortissima e ficcante immagine che se è naturalmente valida per tutta l’opera di Gochō, possiamo immaginare come perfetta metafora anche per Satō stesso, specialmente riguardo il suo modo di intendere il cinema documentario, un’occhio che riflette la realtà ma sempre con un forte tasso di invenzione, sperimentazione e fantasia. Sono inseriti, sulla lettura delle prime lettere del fotografo, anche due brevi filmati amatoriali da lui stesso realizzati: ancora esterni, persone comuni, scene di ogni giorno. Il fatto che da bambino gli fu pronosticato di vivere solo per pochi anni e che invece abbia vissuto fino ai 36 anni gli deve aver fatto vedere tutte le cose, anche quelle più dozzinali e banali, come un miracolo.

Questa curiosità e freschezza verso cose e persone emerge da tutte le sue fotografie mostrate nel corso del documentario ma anche dalla costruzione del film, composto di lunghe carrellate sul paesaggio cittadino o di movimenti lentissimi di macchina da presa su scene apparentemente prive di significato, una gru che si staglia sul cielo blu, una strada di periferia, con cui il grandissimo direttore della fotografia Tamura Masaki compone scene dal sapore quasi tarkovskiano. È una trance per immagini con alcune scene che raggiungono una monotona intensità che ricorda i lavori di Michael Snow, ecco allora il documentario come sperimentazione ed atto di creazione, una trance che in definitiva scaturisce dalla superficie delle cose e delle persone, dal loro semplice ma enigmatico esistere.

Questo discorso filosofico/estetico continua e si acuisce nel documentario che Satō realizza nel 2004, Aga no kioku (Memories of Agano), qui il regista assieme al direttore della fotografia Kobayashi Shigeru, decidono di ritornare, a distanza di 10 anni, sui luoghi dove girarono il primo lavoro, Living on the River Agano. Il film si apre con una delle scene più riuscite dell’intera opera, l’occhio della mdp percorre lentamente una strada sterrata per recarsi in uno dei luoghi centrali dove fu girato il primo film, ad un certo punto il sole in controluce rende bianco lo schermo per quasi un minuto,quasi ci acceca per poter dar via libera alle visioni del film. Arrivati in loco, regista e collaboratori stendono un telone in mezzo al verde agganciandolo agli alberi. È qui che la sera nella totale oscurità viene proiettato il documentario del 1992, vediamo in particolare le scene con i volti sorridenti dei due anziani protagonisti che camminano nel loro campo di riso, uno dei due coniugi, lo scopriremo nel proseguio del film, è morto alcuni anni addietro.

L’effetto di queste immagini ci toglie il fiato, in pochi minuti, fra il tempo presente del film, quello passato del primo lavoro (entrambi tempi registrati e differiti) ed il nostro di spettatori che stanno guardando, si crea uno scarto, una rottura. Ci viene rivelato e siamo accolti dentro a un tempo abissale in cui siamo abbandonati, la tela sospesa fra gli alberi funziona come un buco nero che cerca di inghiottire noi e la nostra percezione della realtà continua, un indicibile che è la possibilità di un nuovo tempo, quello delle cose mute e dell’opacità dei luoghi anonimi che permea la totalità dell’opera così come erano il fondamento filosofico (di immagini) di Self and Others le strade delle città ed il paesaggio metropolitano.

" Satō Makoto"

Self and Others

Il ritorno ai luoghi del girato del primo documentario è anche così un tuffo nell’abisso del tempo, uno scandagliare quella tragica differenza che informa l’eterogeneità di ogni singolo istante e sfibra ogni pretesa di continuità. Memories of Agano è un film di spazi depopolati, non tanto perchè le persone non ci siano, ma piuttosto perchè alla loro immagine viene data pochissima importanza, sono le voci ed i suoni ad assumere invece un ruolo molto importante. Ad esempio durante tutto il film il dialetto parlato dagli abitanti della zona risulta alquanto incomprensibile per un giapponese di città, ma mentre in Living on the River Agano erano stati usati dei sottotitoli in giapponese standard, in questo lavoro il regista ha deciso di lasciare che la comprensione sia minima, di fatto lasciando che le parole siano esperite per il loro suono.

Un film di suoni e di voci quindi, come ha spesso affermato Satō stesso, una materialità sonora che nella forma dei racconti degli anziani accompagna i lunghi piani sequenza sugli interni delle vecchie abitazioni, una teiera che bolle, una stanza tradizionale giapponese. Ma anche lunghe carrellate laterali sulle cose e sulla natura, sul bosco e sul fiume Agano che vengono intervallate dalle immagini del film nel film proiettato sulla tela e da altre dove lo stesso regista ed il cameraman discutono sul come girare una scena. Questa artificialità del documentario con la scelta delle luci, sia naturali che artificiali, adatte agli scopi artistici che Satō vuole realizzare, sono evidenti in una lunga carrellata laterale girata in esterno dove vediamo un fuoco bruciare in un campo ed in alcune immagini di utensili di cucina immobili inondati in una luce bluastra.

" Satō Makoto"

Memories of Agano

Satō in questi due lavori crea un cinema fatto di tempi morti, da quegli scarti che solitamente il cinema, anche quello autoriale, elimina e purga, incrociando come abbiamo già detto la luce aurorale degli actuality film e lo spazio cercato e creato dalla Teoria del Paesaggio, Satō si inoltra in un territorio quasi inesplorato, ci abbandona ad un tempo alieno ma che abbiamo sempre sentito molto vicino come un soffio nostalgico, in quanto ciò che si esprime attraverso questi due lavori, la loro visione, è il mondo delle cose e delle persone nella loro assoluta immediatezza, nella loro assoluta alterità.

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philosophy and social criticism

vol. 25, issue no. 25

june 2015

ISSN: 2037-0857

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