Un’ipotesi immaginaria
Ferruccio Masini
Sinn und Wesen ist nicht irgendwo
hinter den Dingen, sie sind in ihnen,
in allem. *
Herman Hesse
Il poeta non è un nobile animale. Forse il poeta non è poeta, l’animale non è animale. Poeta. Tutti sono poeti. Un popolo di poeti. Che significa essere poeti? «Le presento il prof. Y.Z., docente di rettorica, semiotica e cose belle, il tutto applicato, con una accorta utilizzazione della psicanalisi e dell’economia politica, alla poesia. Dimenticavo di dirLe che il prof. Y.Z. è, con rispetto parlando, un poeta. Sì, sì, coltiva la poesia sin dalla più tenera infanzia ».
Ma l’animale? Da dove viene, l’animale non nobile, da dove approda alle albe esterrefatte di Dublino? «Rise per liberare il suo spirito dalla servitù del suo spirito» (Joyce, Ulisse). Quale animale ha profanato il mondo dei puri, dei felici, degli intoccabili, dei belli, dei civili garbati, degli assassini silenziosi, dei parlatori infaticabili dalle mani odorose di brillantina? Un animale stupito del propri . o nome. « Cosa c’è in un nome? E’ quel che ci chiediamo da fanciulli quando scriviamo il nome che ci hanno detto essere il nostro» (Joyce, Ulisse).
Entre los juncos y la baja tarde,
¿qué raro que me llame Federico!
Non parliamo dunque del nobile animale, ma dell’animale che infinitamente si stupisce del proprio nome. Un abisso nel proprio nome: generazioni distrutte, generazioni in attesa, il metallo e il «minerale dell’uomo», (Dylan Thomas), la primavera e la lotta, l’aria incrinata dal grido e il silenzioso caos. Sciocchezze, fantasie. Tutto questo stupore in un mondo in cui nessuno si stupisce più di nulla, è estremamente sospetto. La legge dell’ovvio regola le equazioni cosmiche. Il sistema capitalista non tollera lo stupore, anche se può tollerare benissimo le fughe degli investimenti, l’omicidio bianco e il letto di contenzione.
Tollera la sua stessa tolleranza solo a patto che non gli si rivolti contro, che non gli chieda rabbiosamente il saldo, che non si sottragga alle leggi del mercato, alla compiacenza e alla voluttà delle multinazionali, al mirabile sistema di contrappesi dell’ordine, all’onnipotenza del capitale “totale“. «Per la coscienza e la coscienza filosofica è così fatta, che per essa il pensiero pensante è l’uomo reale, e quindi, il mondo pensato è, in quanto tale, la sola realtà il movimento delle categorie si presenta quindi come l’effettivo atto di produzione (che abissi, riceve soltanto un impulso dal di fuori il cui risultato è il mondo; e ciò è esatto nella misura in cui ma qui abbiamo di nuovo una tautologia la totalità concreta, come totalità del pensiero, è in fact un prodotto del pensare, del concepire […] La totalità come essa si presenta nella mente quale totalità del pensiero, è un prodotto della mente che pensa, la quale si appropria il mondo nella sola maniera che gli è possibile, maniera che è diversa dalla maniera artistica, religiosa e pratico spirituale di appropriarsi il mondo. Il soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua autonomia fuori della mente; fino a che. almeno, la mente si comporta solo speculativamente, solo teoricamente». (K Marx, Grundrisse).
All’interno della tolleranza e lo statuto ideologico della tolleranza ricomprende anche quella che noi chiamiamo produzione artistica non devono darsi contraddizioni poiché essa è un altro aspetto di quella mente che pensa ed esclude da sempre la prima tra tutte le contraddizioni, quella costituita dal «soggetto reale», che resta ostinatamente «saldo nella sua autonomia fuori della mente».
Certo, le contraddizioni tollerate dal sistema sono comprese nell’autoregolamentazione del sistema stesso: «il sole splende egualmente sui buoni come sui cattivi» potrebbe essere l’exergo dei bollettini azionari. L’ Economist presuppone una teodicea del denaro che sostituisca le antiche consolatorie speranze della teologia ormai in pensione per i troppi acciacchi. Che anche l’anima possa essere riciclata, lo si sa benissimo nei consigli d’amministrazione e la schiera degli angeli giustizieri può benissimo trasformarsi in un commando di “teste di cuoio“, perfetto come la sincronia dei cieli nella cosmografia di Dante. Le contraddizioni, però, possono in certi casi modificare la coscienza: per questo è sospetto stupirsi del proprio nome. Il “soggetto reale“ deve marcire nel frigorifero dei consumi.
«Che il capitale dice ancora Marx -racchiuda delle contraddizioni, siamo gli ultimi a negarlo. Il nostro scopo è anzi quello di svilupparle completamente. Ricardo invece non le sviluppa, bensì se ne libera considerando il valore di scambio come indifferente alla formazione di ricchezza » (Grundrisse).
La tolleranza che esorcizza le contraddizioni è prerogativa primaria dì quella stessa coscienza democratico liberale che risolve in maniera puramente formale il problema del nome. Dunque quel nobile animale che ha nobili contraddizioni e nobilmente le sopprime (o le purifica o le sublima o semplicemente le “nobilita“) nell’atto del suo produrre, è ancora come diceva Wedekind «articolo di lusso della borghesia». Ma cos’altro vuol essere, questo spregevole frammento di materia che non solo si sa nelle sue contraddizioni, ma le estende al di fuori di sé, facendo vacillare la stabilità del suo “essere eccezione” di quella primalità ontologico che lo consacra appunto nelle contraddizioni e nel suo consistere come «articolo di lusso»?
C’è una poesia di Bertolt Brecht. compresa nella Steffinische Sammlung, che porta il titolo Der Kirschdieb (Il ladro di ciliege). È una lirica largamente nota, vivida e tersa come un cristallo, dove sembra raccogliersi l’ultima sapienza della semplicità, ma proprio il rigore della sua struttura invita a forzarne il senso. È quello che vorrei brechtianamente fare.
Immaginate che le ciliege rubate dal giovane arrampicato sull’albero, mentre Brecht lo sta a guardare dalla finestra della sua casa, siano a significare la poesia. La “mia“ poesia direbbe impettito l’autore, allo stesso modo con cui Brecht dice: «Auf meinem Kirschbaum», «sul mio ciliegio». Sì, proprio sul tuo ciliegio se ne sta seduto un giovane «con i calzoni rappezzati». Chi osa sedersi a quel modo, così spavaldamente, sui miei versi? Non mi direte che è impossibile “sedersi“ sui versi: sui versi, a quanto mi risulta, ci si può anche adagiare fino a prendere sonno, e si può anche correre e saltare, aggrapparsi dico ai versi.
Chi sgranocchia le ciliege dice ancora Brecht è un giovanotto «mit geflickter Hose»; un poveraccio è chiaro un vagabondo, uno senza arte né parte, uno, magari, che se l’incontri di notte in una via deserta è capace d’accoltellarti. Sulla mia poesia, perdirindina, non deve sedere nessuno: se qualcuno ha licenza di sedervisi, magari anche a cavalcioni. inforcandola come una bella puledra, quello sono io. Ma chi sono io? «Io dice ancora Brecht sono uno su cui voi non potete contare». E chi è quel giovanotto così tranquillo e giulivo da sembrare quasi insolente, che come un uccello vorace si la fuori la mia proprietà? Possiamo anche immaginare che quel giovanotto significhi qualcos’altro, Indubbiamente qualcuno che non ha paura, che piglia allegramente l’altrui come se fosse il proprio, addirittura fa un cenno al “padrone“ che lo guarda, un gesto d’intesa, di divertita complicità. «Buone, le tue ciliege!».
« Sì, buone, ma tu chi sei?»
Quelli che verranno, quelli che nasceranno dopo di me. Forse quel giovanotto è soltanto un mondo diverso, creato dalla classe operaia, fatto di gente che non si domanda più in che modo recintare e tutelare la proprietà, in che modo difendere, commercializzare, veicolare nei mass media i propri versi, Le cortine di seta finemente ricamate dai poeti, dai teologi, dai metafisici, dai truffatori piccoli e grandi, da ogni sorta di nouveaux phílosophes, intorno all’alcova del capitale, si sono miseramente sfilacciate e cadono a brandelli, Ora quel giovanotto è là: è stato affamato a lungo, ma non per questo digrigna i denti: se ne sta arrampicato sull’albero, passandosi nelle tasche, con destrezza, le ciliege colte dai rami, «freundlich» direbbe Brecht come noi ancora non siamo riusciti a essere. Brecht non dice quanto sia soddisfatto che proprio ai suoi danni sia stato commesso questo piccolo furto. La poesia si chiude con il fischietto gaio di una canzonetta, mentre il poeta se ne torna a letto.
Devo dire che se le ciliege sono la nostra poesia, quella canzonetta è la poesia che non abbiamo ancora scritto, quella che altri scriveranno un giorno, dopo che si saranno saziati. La poesia può essere dunque una buona causa e lo diventa quando qualcuno può appropriarsene, quando qualcuno si permette di saccheggiarla, scambiando con noi uno sguardo d’intesa, intelligente, non servile, da pari a pari. In questo tempestoso momento storico di transizione, essa appartiene alla nostra costituzionale impossibilità di saziarci, forse al nostro proibirci la sazietà. Ma sappiamo e perché non dire sogniamo? che qualcuno, senza troppi riguardi, se ne servirà, “se la metterà in tasca“, con la noncuranza sovrana del «ladro di ciliege», senza essere troppo serio.
Perché serio è oggi come dice ancora Brecbt l’assassino. Serio è oggi il mondo degli assassini. E anche noi, quando ci troviamo a tu per tu con loro. Vorremmo tuttavia produrre ciliege buone da assaporare lungamente sugli alberi, che non siano troppo asprigne e che tuttavia nascondano, se ancora ce l’hanno, la loro dolcezza.
Tutta questa non è una poetica: è un’ipotesi immaginaria. Un’ipotesi dettata dal materialismo, da quella che Mario Lunetta ha chiamato «disperazione materialistica». Scriveva Marcuse che «la poesia disdegna di dare alla morte un senso». Ecco: dare alla morte un senso può significare una poetica consacrazione e trasfigurazione del reale: non siamo sazi, ma ci comportiamo come se lo fossimo: non viviamo nella giustizia, ma ci specchiamo continuamente in una giustizia che non esiste: l’uomo muore si dice ma il poeta no. «Muore Giove ma l’inno del poeta resta». No. L’inno del poeta, caro italico vate, muore: che c’importa che viva, se non è servito a distruggere la morte? Diceva il buon Ludwig Feuerbacb, materialista a metà, certo, ma materialista “disperato“, che quel materialismo che i «filosofi di scuola considerano come un aborto dei tempi moderni […] esiste ed esisterà sulla terra, fintantoché ci saranno medici e pazienti e che quindi chi si ostina a tenersi nel cuore e negli occhi i dolori dell’umanità, sarà necessariamente un materialista». Nessuna consolazione, dunque, per il materialista, se è vero che egli è tale proprio per l’impossibilità di darsi una consolazione: nessuna salvezza nella “forma“, se è vero che la forma nasce dallo stato irriducibilmente ambiguo e manchevole di chi preferisce la caducità ai bagni d’immortalità di Menandro il Samaritano e sì inventa la sua scrittura solo perché neppure questa può saziarlo.
Molte contraddizioni si nascondono nel cercare di produrre ciliege saporite; sono le contraddizioni di una coscienza materialista, senza Dio, né patria, né famiglia. Non amiamo atteggiamenti apocalittici e neppure la sottile ambizione terroristica dei nuovi critici dell’antiletteratura e dell’antipoesia, dissettori di cadaveri non più squisiti e estensori di necrologi: le loro elucubrazioni sugli equilibristi (poetici), sui fumisti (poetici), sugli agonici (poetici), sui criptonarrativi (poetici) finiscono per complicarci ulteriormente l’esistenza. Costoro domandano, con il candore degli studiosi di mercato: «Quale evoluzione ha subito in te l’idea di voler essere e poi di essere “scrittore di poesia”?» [sic!] e ancora: «Qual’è la tua situazione di “scrittore di poesia”?» (da A. Berardinelli F. Cordelli, Il pubblico della poesia, Cosenza 1975).
E dire che noi pensavamo, forse per irrimediabile idiozia o idiosincrasia o presunzione di “venditori di ciliege“ (siamo ancora venditori, non le regaliamo, ahinoi, le nostre ciliege), che l’ evoluzione“ dal “voler essere“ all’ “essere“ fosse solo un pio onanismo di anime belle. In realtà tutto è possibile in questo basso mondo: si può volere, volere, volere e infine… essere! E chi non vuole, e chi non sa, e chi non può? …
Durare, aspettare. ora già a fondo,
ora sommerso ed ora ammutolito
strana legge, non sono faville,
non soltanto guardati attorno:
la natura vuol far le sue ciliege
anche con pochi bocci in aprile,
le sue merci di frutta le conserva
tacitamente fino agli anni buoni.
Forse è passato troppo tempo da quando Gottfried Benn scriveva questi versi: e chi comprende più il durare, l’aspettare, il restare sommersi e ammutoliti? Gli «scrittori di poesia», taluni dei quali non scrivono soltanto con la mano sinistra, ma anche col piede sinistro (quello con la pantofola) gonfiano il petto e gridano, come un solo uomo di carta: «No, no, e no. Questo poi no! » Si accontentano di balbettare sulle pagine una qualsivoglia storia della letteratura che sia provvidenzialmente omologata in sociologia del produttore di testi poetici. Il fatto è che scrivere una storia sociologica di “questi“ produttori è come ripercorrere la dolorosa odissea degli intellettuali italiani divisi tra la “volontà di essere“ e l’essere, incerti se passare sopra, sotto, magari chiedendo permesso a mezza voce, alle “contraddizioni“ di un sistema tutto sommato felice, perché ci sono pur sempre i “nipotini“ di Montale e i “ragazzi” di Sandro Penna a giustificare la “letteratura“. Il sottotitolo della storia potrebbe dunque essere “Dall’ago al milione“. Ma non è questa ancora una volta l’American way of life? Dall’ontologia alla sociologia alla “deriva”: ma allora non è vero che l’essere è e il non essere non è.
E se invece fossimo ancora tutti dentro il sudicio fiume del divenire. senza ancora aver guadagnato i favori di qualcuno che computi le varianti sul nostri pallidi scartafacci? E se invece l’esperienza vissuta fosse già espropriata e non restasse che trasformarla in carta?
L’atto o meglio la pratica, il commercio con la parola non è, a ben vedere, qualcosa di molto diverso da un’ipotesi di lavoro che postula solo un problema, quello di “servire a“. Abominevole questo “servire“. A che cosa poi? diranno i trionfali affossatori dell’ideologia, dell’engagement e di chi più ne ha più ne metta – dunque la poesia sarebbe un supporto (magari anche molto inutile) della lotta di classe?
Le vie del “servire“ sono infinite, quasi come quelle della non divina provvidenza. Certo non sono le vie dell’essere: sono le vie materialistiche della scrittura. Tra il sì e il no, tra la maledizione del “forse” e l’utopia del “ladro di ciliege“: sono approssimazioni totali che attraversano l’intero continente della cultura occidentale per rovesciarselo di dosso e divenire un bagliore grigio, sottile, di crepuscolo. «Auf einen frühen Morgen lange vor Hahnenschrei». «Sul far del giorno, molto prima del canto del gatto »…
La mia onesta “sim patia“ d’animale per l’animale poeta, corrotto, malpensante, ambiguo, carico di promesse inadempiute e di dolori secolari («un essere senza dolori è… un essere senza sensualità, senza materia» diceva ancora il vecchio Feuerbach) mi fa essere ingiusto verso l’ “essere” dello scrittore di poesia e non soltanto verso il suo “voler essere”: verso le cartine dei cioccolatini dove l’animal metaphysicum ha trasferito la sua incerta immortalità per la delizia dei golosi, siano essi pontefici delle patrie lettere o talent-scouts dell’industria culturale.
E l’essere? «Nur wer in Wohlstand lebt, lebt angenehm». «Solo chi nel benessere vive, vive piacevolmente» (B. Brecht, Die Ballade vom angenehmen Leben).
[ Articolo apparso in Metaphorein, n. 5, novembre 1978 – febbraio 1979]
Note
* «Senso ed essenza non sono in un qualche luogo dietro le cose, sono invece in esse, in tutto».